mercoledì 30 aprile 2008

Tappe significative del primo maggio.

1883: Bismark istituisce l'assicurazione malattia in Germania

1890: Bismark istituisce la festa del lavoro


1925: Mussolini istituisce L'Opera Nazionale Dopolavoro che offre divertimenti di qualità a basso prezzo per il popolo


1933: Hitler fa del 1 maggio la festa nazionale


1962: Ezra Pound sfila a Roma alla testa di un corteo del Msi


1990: Jean-Marie Le Pen riunisce le due feste e da allora la Jeanne d'Arc viene assimilata alla festa del lavoro.






Da: www.noreporter.org

L'antibarbaro, vocabolario dell'italianità.








L'antibarbaro, vocabolario dell'italianità.



«La decadenza della lingua è uno dei sintomi dell'affermazione e dell'egemonia del 'politicamente corretto'»



Appare evidente, quindi, che dietro la smisurata diffusione nel mondo dell'anglo-americanismo, si nasconda il progetto politico di uniformare culturalmente il pianeta. Una colonizzazione linguistica imposta dagli americani per 3 motivi:



Il controllo sociale del mondo.



Il condizionamento culturale dei popoli.



Il rapporto di subalternità dell'Europa agli Stati Uniti.



Per cui, la difesa delle lingue europee contro l'invasione linguistica anglo-americana diventa la linea di combattimento che riguarda la nostra stessa essenza di Europei.



Questo attacco subculturale contro le lingue nazionali europee che ci viene portato dall'America (occidente), minaccia, in pratica pure tutte le lingue nazionali del mondo.



L'ANTIBARBARO vuole essere uno strumento culturale che contrasti questa pericolosa degenerazione.



Un'opera attiva di contro-informazione che risvegli le coscienze,la creatività e l'orgolgio del nostro popolo.



Un accorato appello: la libertà, la sovranità e l'identità nazionale si realizzano prima di tutto riscoprendo la nostra meravigliosa lingua italiana.



Una barricata non solo lessicale contro l'affermazione del mondialismo.



Ettore Bertolini, Comunità Militante Perugia




Per richiederlo, mandate una mail a: controventopg@libero.it

Gabbo: il tempo passa, la giustizia non arriva...







Tifoso ucciso, Spaccarotella torna in servizio
alla Polfer di Firenze.




ROMA (30 aprile) - Luigi Spaccarotella, l'agente di polizia che ha ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri sparando due colpi di pistola all'Autogrill di Badia al Pino vicino ad Arezzo l'11 novembre scorso, ha ripreso servizio a Firenze. Dopo un lungo periodo di malattia, l'amministrazione della polizia di Stato ha deciso di trasferirlo alla Polfer di Santa Maria Novella, compartimento della Toscana. Lo scrive oggi "Il Giornale della Toscana".



L'assegnazione è stata ufficializzata la settimana scorsa, tanto che il giovane agente è già arrivato a Firenze. Di fatto Spaccarotella prenderà servizio tra una quindicina di giorni per questioni burocratiche. L'agente sarebbe stato piazzato alla "Coc": centrale operativa compartimentale della Toscana. Si tratta di una struttura che si occupa di coordinare tutte le chiamate all'interno delle stazioni ferroviarie. Ma l'aspetto singolare è un altro: tra le tante altre mansioni, la "Coc" si occupa anche di tifosi. Infatti, se arriva un treno di ultras diretti allo stadio, è sempre la centrale operativa a organizzare le scorte agli ultras.



Intanto, il processo che vede imputato il poliziotto va avanti: è slittata al 25 settembre prossimo l'udienza preliminare. Il processo si terrà davanti al gup Simone Salcerini che deciderà se rinviare a giudizio Spaccarotella davanti alla corte d'assise o avviare il rito abbreviato. La richiesta di rinvio a giudizio era stata presentata dal procuratore Di Cicco e dal pm Ledda ai primi di aprile. Per l'agente l'accusa è di omicidio volontario.

martedì 29 aprile 2008

FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL GIORNALISMO.

Entra in archivio questa edizione tutta perugina del Festival internazionale del Giornalismo, alla fine di una quinta ed ultima giornata dal sapore morigerato e tranquillo, a logica conclusione di una cinque giorni caratterizzata da un clima di misurato interesse e mesta indifferenza dell’intellighenzia politica locale, chiaramente condizionato dalla concomitante ultima settimana di campagna elettorale.

Eppure l’apertura, con l’enorme Lectio Magistralis tenuta dal direttore di Repubblica Eugenio Scalfari, presso l’Aula Magna del Rettorato, ci aveva subito regalato un evento di forte impatto sull’opinione pubblica, presenziato dalle più alte cariche amministrative ed universitarie del capoluogo di regione.

All’appello a tutti di improntare un sempre più autorevole ruolo per la stampa, e al monito-auspicio di una sempre più netta indipendenza della carta stampata e del mondo dell’informazione rispetto al potere politico, ha fatto seguito un intervento abbottonato e politicamente corretto che ha dato il via alla manifestazione.

Sin dalle prime ore pomeridiane, successive all’incipit, però, il clima ufficiale di grande gioia e giubilo, comincia a farsi molto diverso.

Come già abbastanza evidente dalla scarsa informazione e sponsorizzazione dei giorni precedenti, anche durante l’evento, in città era praticamente proibitivo conoscere in modo semplice e distaccato (quello tipico dell’uomo della strada) luoghi, orari, mezzi di prenotazione e temi di ognuno degli oltre quaranta dibattiti suddivisi nelle cinque giornate, tra il centralissimo Teatro Pavone di Piazza della Repubblica, l’Hotel Brufani di Piazza Italia e il nuovissimo Centro Congressi dell’Hotel Giò, in Via Ruggero D’Andreotto.

Un evento praticamente quasi del tutto ignorato e snobbato dalle autorità locali che hanno consentito la sola presenza di un gazebo quale punto di informazione, di fronte al Teatro Pavone.

Gli incontri e le conferenze, davvero interessanti ed attraenti, non soltanto per gli addetti ai lavori o per gli aspiranti giornalisti, hanno consentito di approfondire tematiche di primaria centralità, sia dal punto di vista strettamente settoriale-giornalistico sia dal punto di vista politico-sociale-economico.

Del resto, affrontare la situazione del sistema mediatico ed informativo, al giorno d’oggi, significa toccare molti dei cardini della nostra società attuale, in un’amalgama argomentativa in cui diventa praticamente impossibile stabilire in maniera chiara e delineata i confini tra l’aspetto tecnico giornalistico e i contenuti dei settori stessi del giornalismo.

Un esempio sintomatico di quanto delineato fin qui, si è subito manifestato sin dal meriggio della prima giornata, in cui ha spiccato il dibattito sulla crisi delle agenzie di stampa nell’era del cosiddetto “giornalismo 2.0”, del giornalismo telematico, di internet e delle tv digitali.

Il ruolo delle agenzie, sempre fondamentale nella storia, ha assunto una dimensione nuova, in cui la concorrenza di settore tra agenzie (presenti sul palco rappresentanti delle più importanti al mondo, quali Reuter, Associated Press e France Presse) è stata in parte sostituita dalla concorrenza ben più confusa e totalmente slegata da ogni gestione aziendale, del cittadino qualunque, attraverso blog, siti o spazi informatici in generale, come ben descritto ed ampiamente analizzato nell’incontro del primo pomeriggio della quarta giornata, “Citizen journalism: i media siamo noi” moderato da Mario Adinolfi, giornalista di La7 esperto in blog e sistema mediatico multimediale, Ethan Zuckerman e Luca Conti.

Ben più personale e commemorativo, ma solo apparentemente lontano da queste tematiche è ovviamente stato l’incontro su una delle figure più affascinanti e più storiche del nostro giornalismo nazionale: Indro Montanelli, a sette anni dalla sua triste dipartita, è stato ricordato attraverso le parole, non certo scontate e prive di qualsiasi patetico retrogusto di zelo, di tre grandi giornalisti che con lui e grazie a lui, hanno guadagnato sempre più autorevolezza nel settore.

Mario Cervi, cofondatore con Montanelli, de Il Giornale, Ugo Tramballi, attualmente al Sole 24ore, e Marco Travaglio, che conosciamo grazie ai suoi illuminanti scritti e alle partecipazioni televisive da Michele Santoro, ci hanno raccontato un Montanelli che in parte tutti conoscevamo, ma che dall’altro lato ci era invece meno noto.

Dal suo genuino ma signorile aplombe, sino al suo più meticoloso senso del realismo, capace di giungere ad un soggettivismo quasi fenomenologico, nell’osservazione della realtà: la verità non è mai il fatto in sé, ma ciò che il giornalista vede e filtra attraverso la sua percezione.

In questo senso, non l’oggettività ma l’onestà è il più nobile tratto del giornalista equilibrato.

Uomini diversi, con diverse posizioni politiche, ma tutti accomunati in un progetto nuovo, in cui le gerarchie tradizionali venivano non abbattute ma autogestite ed elasticizzate, facilitando il compito grazie alla presenza di una dirigenza ristretta e di grande esperienza, che s’affidava ad una nuova generazione di giovani “abusivi” o debuttanti.

Nessuna mezza via, nessun filtro, grande libertà, quasi a garanzia di una autoregolamentazione etica; un’atmosfera unica, magica ed irripetibile quella di quel Giornale, di un tempo, giunto poi sino alla sua più completa disintegrazione nel momento del contrasto sempre apparso a tutti insanabile tra Berlusconi (che nel frattempo era diventato il proprietario del quotidiano di Montanelli) e Montanelli stesso: la personalità troppo accomodante, oscura e politicheggiante dell’imprenditore, incompatibile con quella spontanea e mai omologata al comune pensiero, del giornalista.

Più di nicchia, ma sicuramente fondamentale, anche l’aspetto scientifico della cinque giorni, subito entrato prepotentemente sulla scena, con un’avvincente discussione incentrata sui limiti e il ruolo del cosiddetto giornalismo ambientale.

“Obiettivo: salvare la terra”, recitava, forse un pò ambizioso, il sottotitolo del dibattito che vedeva ospiti Mario Tozzi, noto conduttore televisivo della Rai, Dalia Abdel Salam, caporedattrice dell’importantissimo settimanale egiziano Al Ahram Hebdo e Fred Pearce, noto editorialista della rivista The New Scientist.

Dall’analisi delle situazioni nazionali sull’attenzione dei vari bacini d’utenza rispetto alle tematiche ambientali e scientifiche in generale, fino all’approfondimento di questioni centrali come il problema dell’approvvigionamento idrico in Egitto, o il disastro di Sarno in Italia, si è passati all’importanza e alle differenze dei vari media e su come la televisione possa in parte favorire la divulgazione scientifica rispetto alla carta stampata di riviste, periodici o libri.

Il pessimismo di Tozzi, sulle possibilità di apertura e diffusione delle fonti scientifiche è andato di pari passo con quello sulla risoluzione delle problematiche legate al cambiamento del clima e alla sensibilizzazione del pubblico, sempre più circoscritto in zone di nicchia, quelle stesse sparute presenze che sembrano davvero le uniche sensibili alla questione energetica, sempre più pressante, al centro dell’incontro medio-pomeridiano della terza giornata, con gli importanti ospiti rappresentati da Fulvio Conti, amministratore delegato del gruppo ENEL, Edward McBride dell’Economist, Carmen Monforte, inviata del quotidiano spagnolo Cinco Dias, e Sergey Startsev, direttore di Russian News Italia.

L’energia ormai ha cambiato i rapporti geopolitici, ed una corretta informazione in questo campo si prefigura sempre più fondamentale.

Tutti sono parsi concordi, pur nelle rispettive posizioni, a riguardo della quasi totale mancanza di una politica unitaria europea nell’ambito delle risorse, penalizzando tutto il vecchio Continente, ostaggio di egoismi e rivalità particolaristiche, sempre più dipendente da paesi esteri: l’esempio italiano è sintomatico nella sua dipendenza da Russia e Algeria, per quanto concerne il gas.

Voci maliziose non sono mancate, e velate polemiche indirizzate all’egemonia della Federazione guidata dal premier Vladimir Putin, hanno visto pronto l’ospite russo nelle sue risposte, volte a puntualizzare un legittimo atteggiamento di Gasprom che propone dei contratti e pretende che, una volta sottoscritti, siano rispettati, fino in fondo, anche nel momento in cui essa ponga condizioni gestionali come un chiaro freno alle liberalizzazioni che, per bocca del giovane giornalista inglese, e di quasi tutti i presenti sul palco, non sono da demonizzare in sé stesse, ma nel modo in cui vengono proposte in Europa: un modo confusionario e senza una chiara giurisdizione interna.

L’idea di base è naturalmente quella dell’intellighenzia finanziaria internazionale, ma sappiamo bene quanto in realtà non esista un liberismo “dal volto buono”, ma solo un’anarchia economica, in cui i più ricchi magnati gestiscono e tiranneggiano le Nazioni che abbisognano di risorse energetiche.

All’urgenza del nucleare è stato dedicato un piccolo spazio nel finale, quale scontato e ormai arcinoto argomento, cui Fulvio Conti ha risposto premettendo l’impossibilità amministrativa e legislativa a muoversi su questo versante, in un Paese come l’Italia.

Il potere politico non è solo oggetto delle analisi mediatiche, come scontato, ma ahimè spesso anche connesso a questioni di certo poco pulite, per cui le forze politiche controllano o si servono dell’informazione per manipolare l’opinione comune.

Il rapporto, non sempre chiaro, tra media e potere, è stato oggetto di un acceso dibattito, durante la seconda giornata della manifestazione, caratterizzato dalle illustri presenze del famoso Carl Bernstein, storico giornalista americano che assieme a Bob Woodward lavorò e portò alla luce lo scandalo Watergate, costringendo nel 1974 il presidente americano Nixon alle dimissioni, dello spin doctor (da tradurre seppur impropriamente con il termine italiano “portavoce”) di Tony Blair nel periodo ’97-’03, Alastair Campbell, e di Marcello Foa de Il Giornale, con la moderazione dell’editorialista de Il Messaggero, Angelo Mellone.

Il pubblico, ovviamente affascinato dall’illustre ospite americano, ha potuto assistere ad un diverbio pacato ma intransigente tra Campbell e Foa, autore del libro “Gli stregoni della notizia”, nel quale tenta di smascherare il vero ruolo dello spin doctor, una figura politica-mediatica molto ricorrente nel mondo anglofono, descritta dallo stesso Campbell in maniera formale e sicuramente molto diplomatica.

Lo spin doctor si è negli anni sempre più caratterizzato quale voce ufficiale del governo, portatore di un potere informativo in grado di giungere sino alla diffusione di notizie modificate e non sempre corrispondenti alla realtà, come fu ad esempio per il dossier d’oltremanica su Saddam e le presunte armi di distruzione di massa.

Foa ha ricordato come, in questo senso, la democrazia sia vuota e senza più sostanzialità, proprio nel momento in cui la politica ha il pieno controllo dell’informazione, soverchiando il ruolo di critica della stampa, ridotta a mero strumento del potere e non più garante ed osservatrice della politica.

Bernstein ci ha ricordato come il suo lavoro tra il 1972 e il 1974 abbia rappresentato una svolta nel giornalismo mondiale, ma allo stesso tempo di non aver inventato niente di diverso dalla essenziale linea-guida della “most attendible version of the truth”, nell’indagine coraggiosa nei confronti di chiunque, lassù nel Palazzo, non sia in grado di fornirci risposte chiare e coerenti.

La differenza tra quegli anni ed oggi sta, per il giornalista d’oltre atlantico, nella pigrizia che caratterizza l’attuale stampa americana, e nella pressione che le sempre più frenetiche redazioni infondono negli editorialisti, sempre più accerchiati dall’informazione del nuovo mondo globale e informatico, che li mette nelle condizioni di disporre di molte fonti, spesso non verificate ma prese per buone aprioristicamente.

Un appiattimento del giornalismo investigativo che non ha risparmiato nemmeno la nostra Italia, al centro del caso Abu Omar e del falso dossier diffuso dall’ex capo del SISMI Pollari e dal suo sodale Pio Pompa: una storia partita dall’America, seguita passo dopo passo da Peter Eisner del Washington Post e Knut Royce, tre volte premiato con il premio Pulitzer, e arrivata sino in Italia.

Insieme a loro, ce ne han parlato a dovere anche l’ottimo inviato de L’Espresso, Peter Gomez, e il conduttore di Report, Duilio Giammaria.

La diffusione di notizie mistificate (come ad esempio quelle del SISMI nel caso Abu Omar), la frettolosa esasperazione che caratterizza il giornalismo (specie quello tv), e la ridondanza di notizie o polemiche spesso inutili che monopolizzano gli argomenti della pubblica opinione, sono tratti che portano ad un giornalismo investigativo sempre più debole e svuotato di ogni serietà.

Serietà che non manca certo, così come il coraggio, in spiriti liberi come Lirio Abbate, autore assieme a Peter Gomez, del libro “I complici”, che ha dato anche il titolo all’interessante dibattito pre-serale della terza giornata.

La biografia di Bernardo Provenzano, ampliamente descritta dai due giornalisti, ci presenta un quadro di dettagliata informazione e chiara disamina della storia siciliana degli ultimi decenni, e dei numerosi intrecci tra cosa nostra e la politica, in cui compaiono chiaramente nomi e cognomi di tutti quegli “onorevoli” (e ce ne sono tantissimi…) entrati in rapporto più o meno direttamente con l’organizzazione malavitosa.

Dal patto stretto coi vertici di Forza Italia e dell’Udc siciliana, al coinvolgimento esplicito di Dell’Utri, Previti, Cuffaro, La Loggia e Schifani, dalla candidatura di personaggi come Crisafulli (in quota PD) alle storie dei comuni commissariati per infiltrazioni mafiose e all’estorsione degli imprenditori locali, le più tragiche vicende scorrono su uno sfondo fatto di storie personali e collettive, di un piccolo paese del palermitano, Villabate, diventato nel tempo il nucleo principale della mafia.

Uno scenario assolutamente devastante che delinea un impietoso siparietto, drammatico e grottescamente patetico allo stesso tempo, e che non lascia spazio a pur ridotte sacche immacolate, coinvolgendo quasi tutti, senza distinzioni, da una parte all’altra dell’alveo politico.

Lirio Abbate, giornalista ANSA di Palermo, vive tuttora sotto scorta e ha subito numerose minacce e un tentato omicidio: crediamo sia dovere civico sostenerlo e acquistare il libro suo e di Gomez: “I complici”.

Di tutt’altro argomento, ma di una tragicità forse simile, sentiamo parlare spesso a proposito della questione del Medioriente.

Già dalla seconda giornata, molto scalpore aveva creato l’incontro “Gaza: ferite inspiegabili e nuovissime armi”.

Il direttore di Al-Quds Al Arabi, Abdel Bari Atwan, aveva introdotto, assieme a Maso Notarianni (direttore Peace Reporter) e a Maurizio Torrealta (inviato RaiNews24), questo nuovo e, a dir poco, allarmante caso dai territori di Gaza.

A metà luglio scorso, alcuni medici dei locali ospedali hanno trattato per la prima volta ferite inspiegabili dovute a piccoli frammenti, spesso invisibili ai raggi x e recisioni provocate dal calore negli arti inferiori.

Secondo gli esperti di RaiNews24 si tratterebbe di un’arma mai vista né sentita prima, sganciata da aerei droni, ossia senza il pilota, e teleguidata con precisione sull’obiettivo.

Una scoperta tragica e senza precedenti, che ci rende ancora una volta limpido il quadro di infamia e terrore che caratterizza l’azione del governo sionista nei confronti dei poveri ed inermi profughi palestinesi.

Dai toni meno altisonanti, ma non certo meno intensi, è stato l’incontro del tardo pomeriggio del giorno dopo, che ha visto l’improvvisa defezione di Fiamma Nirenstein, sostituita dall’inviata in Medioriente de La Stampa, Francesca Paci, presente sul palco con Christopher Dickey, caporedattore sulle questioni mediorientali del settimanale americano Newsweek e Robert Fisk, corrispondente in Medioriente del quotidiano inglese The Independent.

Specie quest’ultimo ci ha tratteggiato una situazione davvero drammatica, in cui il buon senso e l’umanità restano i grandi latitanti, ed è stato forse l’unico presente a mettere in chiaro la ferocia di alcuni interventi del governo di Olmert.

Racconti di vita e di storie intense, quotidiane delle famiglie palestinesi di Gaza e Ramallah, vittime di un gioco al rialzo tra eserciti (e di un imperialismo che non pare avere un briciolo di umana pietà, nda), sono state invece le testimonianze della giornalista italiana.

Interessante per quanto sconcertante, l’approfondimento di Dickey: una disamina della società americana, da sempre piuttosto indifferente e mai veramente consapevole della questione palestinese e di ciò che sta accadendo da decenni ormai.

Tanti, insomma gli incontri – a volte persino in parte sovrapposti negli orari di svolgimento, e a volte anche rimediati e mantenuti in cartello con forte difficoltà organizzativa, a causa di assenze improvvise (il caso della Nirenstein, o dell’ottimo editorialista Pietrangelo Buttafuoco, per motivi elettorali, ad esempio) – in grado di rappresentare un’enorme fucina formativa per i giovani avviati o avviandi al giornalismo, ed una grande possibilità di riflessione, per mezzo di considerazioni che, magari, gli stessi ospiti in televisione non avrebbero potuto concedere, per ovvi motivi.

Una cinque giorni intensa e impegnativa, di gran lunga ignorata e snobbata dalle locali autorità, che ha fatto riscontrare comunque picchi importanti nelle presenze, come nel caso dell’incontro-omaggio a Indro Montanelli o del dibattito sui complici di mafia.

Questo ci conforta, perché significa che ancora esiste una sensibilità popolare che va oltre (ricorderei anche i pur minori dibattiti Giornalismo sociale e Lavorare per vivere, non per morire, sul cinema impegnato socialmente) i grandi canali e la presenza di circostanza, e che ricerca, invece l’evento, per parteciparvi attentamente e sentimentalmente.

Ancor più incoraggiante la rilevante presenza di giovani, di cui molti interessati o già avviati nel settore della carta stampata, ma non solo.

Arrivederci alla prossima edizione…



Articolo di Andrea Fais

Così gli israeliani hanno compiuto un nuovo eccidio di bambini.

Continua il genocidio. Altre vittime vanno ad alimentare l’olocausto palestinese. Ancora morte e distruzione a Gaza. Siamo a Beit Hanun, campo profughi nel nord della striscia, una cannonata partita da un tank israeliano centra in pieno una casa: dentro una famiglia faceva tranquillamente colazione, quattro bambini sono morti sul colpo. La mamma, gravemente ferita si è spenta poco dopo all’ospedale, per lei non c’è stato nulla da fare. Ad aprire il fuoco un tank di Tsahal, impegnato nell’ennesima “operazione di lotta preventiva al terrorismo”, in risposta al continuo lancio di razzi Quassam da parte dei miliziani di Hamas. Secondo le dichiarazioni dei servizi di emergenza palestinesi i piccoli erano fratellini di età compresa tra i sei anni ed i 15 mesi (magari da adulti sarebbero diventati dei bravi terroristi, di che preoccuparsi!), tra le vittime ci sarebbero, il condizionale è d’obbligo, anche due miliziani. L’eccidio è confermato anche dal solito immancabile portavoce israeliano, pronto a giustificarsi agli occhi del mondo: un soldato di tsahal sarebbe rimasto ferito (da una polpetta lanciata da uno dei bimbi?) ed è stato colpito un numero imprecisato di miliziani. Continua poi il portavoce sostenendo che gli scontri sono scoppiati nel corso dell’operazione “infrastrutture del terrorismo”. Durante questa brillante operazione i soldati sono stati attaccati e hanno risposto al fuoco. Oltre ai tank è intervenuta anche l’aviazione con due raid d’appoggio. I pericolosissimi bambini armati di polpette richiedevano anche l’appoggio aereo! Sempre secondo il brillantissimo portavoce non risulta che alcuna casa sia stata colpita da cannonate. Se esistono vittime civili, continua, la responsabilità sarebbe solo ed esclusivamente dei terroristi, che scelgono di attaccare da zone densamente abitate da popolazioni civili. Un commento sulle dichiarazioni del mio portavoce preferito è doveroso. Che questi terroristi esistano e costituiscano una minaccia è tutto da dimostrare. Il lancio dei famigerati razzi Quassam ha causato 14 morti in 7 anni, mentre sono state migliaia le vittime dei raid Israeliani. Per confondere l’opinione pubblica il lancio di Quassam o Kassam, viene spesso accostato al lancio dei Katiusha da parte di Hezbollah, avvenuto durante la recente invasione del Libano dei soldati di Tsahal, lancio avvenuto perciò in risposta ad un atto di guerra e all’invasione del proprio territorio. I Quassam sono ben più piccoli e inefficaci dei Katiusha, e pallottoliere alla mano, le vittime di questi lanci che Israele usa per giustificare i propri giochini sadici sono migliaia di volte inferiori rispetto alle vittime di Gaza. Con arroganza si sostiene poi che i terroristi attaccherebbero da zone densamente popolate facendosi scudo di donne e bambini. Bella favola. Gaza è un fazzoletto di terra dove vengono tenute prigioniere in casa propria oltre 1 milione e mezzo di persone. Non esiste un posto al suo interno che non sia densamente popolato. Le persone vivono stipate come sardine. Ma la storia è sempre la stessa. Da una parte combatte un esercito armato di polpette e bucce di banana, dall’altra troviamo un esercito con carri armati, raid aerei d’appoggio e 400 testate nucleari a lunga gittata in cantina. Tanti saluti ai 4 fratellini, tanti saluti a Gaza. All’unica democrazia del medio oriente, tutto è concesso.



Tratto da www.noreporter.org

Convegno-Dibattito sul tema: "L'Italia sotto il terrore anglo-americano".





Comitato per Foggia Città Martire e per la istituzione di una giornata del ricordo per commemorare tutte le vittime civili italiane dei bombardamenti anglo-americani



Sabato 10 maggio 2008 ore 17.30



presso Auditorium della Biblioteca Provinciale, Viale Michelangelo n. 1 - Foggia



Convegno-dibattito sul tema:



L'Italia sotto il terrore anglo-americano



Interverranno: Maurizio L'Episcopia, Giuseppe Martorana, Nicola Cospito, Adriano Rebecchi, Massimo Tirone, Carlo Morganti



Seguiranno testimonianze e interventi dei cittadini



Per contattare il Comitato tel. 339 3547515




lunedì 28 aprile 2008

Il Paese piu’ democratico del mondo.

Incredibile sentenza negli States, dove un nero disarmato viene ucciso da tre poliziotti ed i tre riescono stranamente a finire assolti. A dimostrazione che le cose, da una parte all’altra dell’oceano, non cambiano (vedi la guardia giurata che ha ucciso Gabbo, oggi in liberta’). È proprio singolare poi come il Paese che si fa piu’ promotore della lotta al razzismo sia poi lo stesso in cui il razzismo è praticato in maniera più brutale e, paradossalmente, sotto la protezione stessa dello Stato. Sarà la distrazione o la superbia: a parlare troppo degli altri si rischia spesso di non curare se stessi. E ciò che fa rabbia è che gli Usa non sono neanche nuovi a queste vistose forme di incoerenza visto che sono gli stessi a riempirsi la bocca con l’uguaglianza e poi fondano la loro “civiltà” sullo sterminio programmatico dei Nativi americani ed hanno alle spalle uno dei più grandi traffici di schiavi: la deportazione forzata dall’Africa di milioni di neri, “trasferiti” in massa perchè facessero il lavoro sporco di un’America che fuori vuole apparire sempre luccicante ma che “vanta” una struttura sociale fondata sulla esclusione e ghettizzazione, a dimostrazione di quanto falso sia il modello meltin’-pot che vorrebbero esportare.



Da: www.azionetradizionale.com




NEW YORK: RAFFICA DI COLPI SU NERO DISARMATO, ASSOLTI 3 POLIZIOTTI




NEW YORK - Sentenza shock a New York: tre poliziotti sono stati assolti dall’accusa di avere ucciso un giovane nero disarmato nel giorno in cui avrebbe sposarsi. Nel corso della sparatoria in cui è stato ucciso Sean Bell, i poliziotti spararono a raffica 50 colpi.



La Corte Suprema dello stato di New York a Queens ha trovato i tre agenti, Michael Oliver, Gescard Isnora e Marc Cooper, non colpevoli di tutti i capi di accusa. Il verdetto chiude un processo durato due mesi. Bell, che aveva 23 anni, era stato preso di mira quando con due amici lasciava un locale di spogliarello, dove aveva trascorso la notte prima del matrimonio. Il caso risale al novembre 2006 e aveva provocato sdegno e proteste nella comunità afro-americana di New York. In aula oggi erano presenti i genitori e la fidanzata del ragazzo.



Fuori dall’aula una manifestazione di protesta pacifica ha accolto con emozione il verdetto. Il padre di Bell ha chiesto un nuovo processo, stavolta davanti a un tribunale federale. Il sindacato dei poliziotti ha invece applaudito il verdetto: “Un messaggio a tutti i nostri agenti che la giustizia riesce a essere equanime”, ha detto un portavoce fuori dall’aula. Il giudice Arthur Cooperman della State Supreme Court ha deliberato che le accuse contro i tre poliziotti, due di loro afro-americani come la vittima, non potevano essere provate oltre ogni ragionevole dubbio: “Questioni di negligenza e incompetenza devono esser lasciate ad altre sedi”, ha detto il magistrato. Al centro del processo era stata la questione se i detectives avevano ragioni di credere che si trovavano in pericolo imminente, quando hanno aperto il fuoco in stile Far West contro l’auto in cui Bell e i due amici, Joseph Guzman e Trent Benefield, che avevano festeggiato con lui fino alle ore piccole, si era messa in moto sgommando fuori dallo strip club. La notte della sparatoria l’agente Isnora, che era in borghese, aveva sparato il primo colpo dopo aver seguito i tre amici alla macchina, temendo che fosse andato a procurarsi una pistola. Il caso Bell aveva evocato a New York memorie di altri tragici episodi di violenza immotivata ad parte della polizia: tra questi la sparatoria del 1999 in cui Amadou Diallo, un immigrante africano disarmato, venne crivellato da 41 colpi da agenti che avevano scambiato il suo portafogli per una pistola. Anche in quel caso i poliziotti erano stati assolti e il caso aveva provocato manifestazioni di protesta con centinaia di arresti.



Fonte: www.ansa.it

Omaggio alla Resistenza.

"Il Popolo Karen lotta da 60 anni contro gli aguzzini birmani per ottenere il diritto a vivere liberamente sulla propria terra.



Ma quest'anno ricorrono anche i 60 anni della occupazione della Palestina da parte di un invasore altrettanto criminale.



E altri Popoli in diverse parti del mondo si stanno battendo per difendere la loro identità.



Questa è la Resistenza alla quale in questi giorni rivolgiamo un pensiero.



Siamo certi che usurai, politicanti, multinazionali e mercanti di preziosi saranno impegnati invece in ben altre celebrazioni, in cui le bandiere nazionali si mischiano a quelle degli invasori in una  inspiegabile, paradossale, orgiastica commedia degli equivoci"



Da: www.comunitapopoli.org

28 Aprile 1945 - 28 Aprile 2008

Morti bianche: democratici eccidi.

Ogni giorno ci vengono annunciati, dai mezzi di comunicazione, incidenti e morti sui posti di lavoro, veri e propri eccidi di individui che, usciti di casa per assolvere un’attività che assicuri loro e alla famiglia un relativo benessere, non fanno più ritorno al loro focolare, lasciando mogli e figli nel dolore per la perdita del loro caro, e spesso anche in gravi difficoltà economiche; aspetti che però appaiono secondari a personaggi che ritengono il profitto superiore ad ogni altro principio e considerano il lavoratore solo quale mezzo economico.

Eppure, noi oggi, abbiamo delle attività produttive limitate rispetto al passato, con mezzi di produzione moderni che dovrebbero assicurare maggiore efficacia e maggior sicurezza agli operatori; ma, sembra che tutto ciò sia inversamente proporzionale ad un passato al quale conviene rivolgere uno sguardo per le leggi e gli interventi per un principio di onestà intellettuale.

Con la legge 3 aprile 1926 n. 563 si apriva una nuova era della storia del lavoro italiano, questa legge cambiava radicalmente tutta l’organizzazione del lavoro e la inquadrava in un armonico sistema fra datori e prestatori d’opera, con una legge che ne tutelava ambo le parti.

Con il “Circolo di Ispezione del Lavoro” dipendete dal ministero del Lavoro, avente funzioni di controllo e vigilanza per mezzo di un corpo di ispettori ed ispettrici, veniva tutelata ogni forma di attività e garantita l’osservanza e l’applicazione della legge su prevenzioni ed assicurazioni sociali del lavoro, inchieste nel campo industriale, sull’occupazione operaia, sugli orari di lavoro, sulla prevenzione degli infortuni, sottoponendo ad assiduo controllo macchinari ed attrezzi, per impedire che difetti di costruzione, mancanza di applicazione delle norme impartite potessero causare incidenti o infortuni agli addetti al lavoro.

Moderni mezzi di protezione delle macchine operative, ripari a linee e condutture elettriche, erano imposti e, per la loro inosservanza, venivano applicate pesanti sanzioni che dissuadevano i responsabili alla mancata osservanza della legge.

A quell’epoca, solo in Lombardia, il controllo veniva esercitato su 6.200 stabilimenti con più di settecentomila operai.

Con il 1928, tutta l’organizzazione del lavoro venne poi rivista ulteriormente ed aggiornata con nuove leggi e norme dettate dalla “Carta del Lavoro” che era una garanzia per il lavoratore e per il datore di lavoro.

Oggi, dopo più di sessant’anni dalla nascita e dallo sviluppo della nostra industria, cosa è rimasto del patrimonio industriale italiano, come viene difeso il lavoro dai quotidiani incidenti che rappresentano veri e propri eccidi?

Questi produttori, dirigenti industriali, politici democratici, debbono fare una profonda riflessione sui loro comportamenti e confrontarsi con un passato che era meno progressista del presente, ma aveva un maggior rispetto del lavoratore ed una maggiore considerazione del lavoro e della produttività.

Forse, una minore supponenza di superiorità, di furbizia, di intelligenza rispetto al passato da parte delle istituzioni e delle forze politiche sindacali potrebbero evitare inutili eccidi di lavoratori.



Articolo di Sauro Ripamonti, tratto da Rinascita.

sabato 26 aprile 2008

Resistenza.

Il crepuscolo della modernità. E' ora di fare un passo indietro.

Indro Montanelli mi raccontò che Leo longanesi una volta gli aveva detto: "Tu e Ansaldo mi fregherete sempre. Perchè io capisco le cose cinque anni prima che accadono, voi cinque giorni prima". Vasco Rossi, fatte tutte le debite proporzioni, è più vicino al tipo Montanelli -Ansaldo che a Longanesi. È un istintivo, ha fiuto, sente cosa c'è nell'aria e sta per arrivare e lo capta un po' prima degli altri. Per questo trovo molto interessante il suo ultimo disco, appena uscito, "Il mondo che vorrei". Ricordate l'autore che cantava "vado al massimo"? Bene, adesso lo stesso uomo, certo un po' invecchiato, dice: "Non si può fare sempre quello che si vuole/non si può spingere solo l'acceleratore/guarda un po': ci si deve accontentare". E se ci è arrivato lui fra poco ci arriveranno anche gli altri a capire che noi non abbiamo bisogno di più velocità, di più Tav, di più Expo, di più Pil, di più produttività, di più consumo, di più crescita, di maggiore modernizzazione ma, al contrario, di rallentare, di frenare, di fare qualche passo indietro. Abbiamo bisogno di ritornare a una vita più semplice e più umana. "Ci si deve accontentare di ciò che si ha" canta Vasco. È stato Ludwig von Mi ses, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici dell'industrial-capitalismo a sintetizzarne l'essenza e a individuarne la molla con l'affermare, capovolgendo venti secoli di pensiero occidentale ed orientale, che "non è bene accontentarsi di ciò che si ha". E così fondando la necessità dell'infelicità umana. Poiché ciò che non si ha non ha limi ti, l'uomo moderno non può mai raggiungere un momento di armonia, di equilibrio, di soddisfazione: conseguito un obiettivo deve immediatamente puntarne un altro, salito un gradino farne un altro e poi un altro ancora e così all'infinito, a ciò costretto dall'ineludibile meccanismo che lo sovrasta. Ineludibile perchè si regge su questa ossessiva corsa in avanti alle cui esigenze piega, lo vogliano o no, anche i singoli individui. Siamo come i cani levrieri (fra le bestie, sia detto di passata, più stupide del Creato) che al cinodromo inseguono la lepre meccanica coperta di stoffa che, per definizione, non possono raggiungere. Perché serve solo per farli correre. E il futuro orgiastico, che le leads mondiali agitano continuamente davanti ai nostri occhi come una sempre nuova Terra Promessa, arretra costantemente davanti ai nostri occhi come l'orizzonte davanti a chi si incammi ni avendo la pretesa di raggiungerlo.

Questa è la condizione dell'uomo contemporaneo. Ed è da questa frustazione che nasce il mal di vivere, il disagio esistenziale acutissimo che si diffonde sempre più fra gli abitanti anche, anzi soprattutto, dei Paesi benestanti o ricchi o ricchissimi , provocando ansia, angosce, nevrosi, depressioni, dipendenza da sostanze chimi che e picchi di suicidi sconosciuti al mondo pre Rivoluzione industriale (decuplicati, in Europa, dal 1650 ad oggi).



Ma il paradosso finale di questo modello di sviluppo che ha puntato tutto sull'economi a, subordinando ad essa ogni altra esigenza dell'essere umano, è che ha completamente fallito anche in quest'ambito. Da quando la Rivoluzione industriale si è messa in marcia la povertà nel mondo non ha fatto che aumentare, interi continenti ne sono stati distrutti, come l'Africa nera (che nessun "aiuto", peloso o meno, potrà salvare, ma, al contrario, contribuirà ad inguaiare ulteriormente strangolandola col cappio inesorabile della globalizzazione), e adesso la fame, la dura fame, comi ncia a lambire anche noi se è vero che si vedono già in giro persone, per ora vecchi, costrette a rubare nei supermercati perché nel mondo del Denaro chi non ne ha è perduto, né può trovare sostegno in un tessuto sociale che è stato distrutto.



Ma io credo che la crisi economi ca ci sarà d'aiuto. Perchè ci costringerà a pensare al di là dell'economico. A riflettere se aver abbattuto l'antico principio "è bene accontentarsi di ciò che si ha" non si sia risolto in una follia autodistruttiva. E chissà se Vasco Rossi, con le parole semplici delle canzoni, non finirà per essere più convincente dei tanti intellettuali che, derisi e vilipesi, da decenni denunciano e annunciano il crepuscolo della Modernità.



Di Massimo Fini, uscito su "Il Gazzettino" il 11-04-2008

Moneta comunale a Trento. Nasce lo Scec, su modello di Auriti, grazie a Emilio Giuliana.

A Trento potrà essere coniata una nuova moneta, lo Scec, che affiancherà l'euro con lo scopo di creare un circuito commerciale locale a favore di consumatori e piccoli punti vendita. Lo ha deciso il Consiglio comunale che ha approvato un ordine del giorno presentato dall'opposizione di centro destra. La proposta, dei consiglieri Flavio Maria Tarolli (Udc-Patt) ed Emilio Giuliana (Alleanza nazionale-Movimento Sociale Tricolore), è finalizzata ad "aumentare il potere d'acquisto reale delle famiglie e favorire la ricaduta sul territorio della ricchezza a beneficio delle imprese e dei consumatori". In sostanza l'ordine del giorno impegna la Giunta comunale a "stimolare sindacati di categoria, associazioni di cittadini, commercianti e istituzioni economiche a creare dei circuiti commerciali virtuosi con convenzioni ad hoc per i clienti". Tali convenzioni darebbero diritto a sconti sul prezzo dei prodotti, tramutati, però, nella nuova moneta, lo Scec. Questo permetterebbe a chi paga in Scec di usufruire di un ribasso per nuovi acquisti presso i negozi convenzionati, "con una ricaduta positiva sugli esercizi commerciali cittadini, soprattutto i piccoli punti vendita più soggetti alla concorrenza della grande distribuzione". Le banconote, di diverso taglio, potrebbero riportare il simbolo di Trento, l'aquila di San Venceslao, oppure l'effige di Bernardo Clesio o Cristoforo Madruzzo.



(Ansa)

martedì 22 aprile 2008

Sabato 10 Maggio - Comunità Solidarista Popoli a Perugia.







Sabato 10 Maggio presso la sala della circoscrizione in via G. B. Vico a Perugia si terrà una conferenza dal titolo IDENTITA’ – TRADIZIONE – SOLIDARIETA’ a cui parteciperanno i volontari della Comunità Solidarista Popoli per far conoscre anche nella nostra città il lavoro che dal 2001 portano avanti in Birmania a fianco del Popolo Karen, che senza compromessi, da oltre cinquanta anni, lotta per la propria autodeterminazione. Dopo la conferenza e il dibattito ci sarà una cena benefit pro Popoli.




COS'E' COMUNITA’ SOLIDARISTA POPOLI?



La "Comunità Solidarista Popoli" è costituita da un gruppo di persone che, per desiderio e sentimento comuni, ha voluto creare una associazione di aiuto umanitario che indirizzi principalmente la propria azione a favore di popoli od etnie, che, in lotta per il mantenimento della propria identità, vivano in condizioni di particolare disagio. E' scopo dell'associazione portare aiuti concreti a soggetti che si trovino in difficoltà a causa di guerre, calamità naturali od epidemie, con l'intenzione di operare autonomamente, al di fuori di qualsiasi condizionamento da parte di governi ed organizzazioni politiche. La Comunità provvede infatti alla designazione degli obiettivi su cui concentrare i propri sforzi, con l'impegno altresì di informare gli aderenti, i sostenitori e l’opinione pubblica circa i particolari degli interventi proposti. Il raggiungimento degli obiettivi passa attraverso il lancio di progetti umanitari (emergenze, lotta alla povertà) e di sviluppo (costruzione di ospedali, dispensari, scuole, centri di formazione professionale) che contribuiscano al miglioramento delle prospettive di vita delle stesse popolazioni che si trovano in situazioni di difficoltà. La copertura finanziaria di tali progetti avviene attraverso auto finanziamento degli associati attuali e futuri, e tramite raccolte di fondi, da effettuarsi con l'organizzazione di manifestazioni di beneficenza, agendo quando possibile in sinergia con altre organizzazioni umanitarie regolarmente costituite che si trovino ad operare parallelamente agli obiettivi scelti dalla nostra Comunità.



CHI E’ IL POPOLO KAREN?



I Karen, una delle principali etnie che compongono il mosaico birmano (circa sei milioni su una popolazione di 44 milioni di abitanti), lottano dal 1949 contro il governo centrale di Rangoon per ottenere l'indipendenza e preservare la loro identità. Originari delle steppe della Mongolia e degli altipiani del Tibet, i Karen arrivano nei territori che oggi costituiscono la Birmania dopo una lunga migrazione durata duemila anni. Nella loro discesa a sud scoprono i grandi fiumi Irrawaddy e Salween che si insinuano attraverso gli ultimi contrafforti della catena himalayana. Primi abitanti delle vaste pianure situate all'estuario di questi fiumi, vi si insediano nel 730 Avanti Cristo vivendo in pace per due secoli, fino all'arrivo dei Birmani che invadono le terre dei Karen costringendoli a rifugiarsi sulle montagne al confine con il Siam (l'odierna Thailandia). Inizia lo scontro tra i due popoli. Le pianure conquistate dai Birmani sono fertili, le montagne dei Karen non offrono molte risorse. La frattura si fa via via più profonda nei secoli a seguire. Durante il periodo coloniale britannico avviene la cristianizzazione di una parte della popolazione Karen per opera di missionari battisti. L'eredità dell'evangelizzazione si evidenzia in un 30% di Karen tutt'ora fedeli al Cristianesimo. Quando nel 1947 l'Inghilterra lascia la Birmania, il primo responsabile politico del nuovo paese, il Generale Aung San, propone una costituzione che prevede entro i dieci anni successivi il diritto di ogni gruppo etnico a separarsi dall'Unione e di ottenere piena indipendenza. Il disegno non viene realizzato, perché Aung San viene assassinato durante un colpo di stato che porta al governo una giunta militare che ben presto provoca la reazione armata dei Karen e delle altre etnie. Da allora, i popoli delle montagne hanno combattuto senza sosta per l'indipendenza. I Karen hanno condotto la loro lotta rinunciando per ragioni etiche ai facili guadagni derivanti dal traffico di droga, a cui si oppongono con esemplare rigore.



Associazione Culturale Tyr - Perugia

Per informazioni: controventopg@libero.it

http://www.controventopg.splinder.com

http://www.comunitapopoli.org

domenica 20 aprile 2008

Humanitas.







L' Associazione l'Uomo Libero nasce come sodalizio culturale per poi estendere le sue attività al volontariato e alle iniziative umanitarie che, con il trascorrere degli anni, si sono a tal punto moltiplicate da trasformare il sodalizio in una vera e propria associazione umanitaria (dal 1993 l'Associazione l'Uomo Libero ha ottenuto l'iscrizione nell'apposito albo delle associazioni di volontariato istituito).

Le prime iniziative degne di nota risalgono al 1990, con i viaggi nell'est europeo, dopo la caduta del Muro di Berlino, tanta era la voglia di conoscere le realtà di quella parte d Europa "nascosta", sino allora, dietro la cosiddetta cortina di ferro. Ecco allora i viaggi in Romania, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia e soprattutto in Lituania dove la popolazione combatteva ancora sulle strade contro le truppe speciali dell' Armata Rossa sovietica.

Nel 1999 e 2000 "l'Uomo Libero" è intervenuta (raro esempio in Europa) anche nella Serbia bombardata a favore dell'"Ospedale speciale per la paralisi cerebrale e per lo sviluppo della neurologia infantile" di Belgrado, danneggiato dai bombardamenti Nato, donando un pullman e attrezz
ature/apparecchiature medico – sanitarie.

Nel 2002 parte "Don't cry for me Argentina" progetto di solidarietà con il popolo argentino, in collaborazione con la fondazione "Nuestra Famiglia" di Buenos Aires.


Il 2008 è l'anno della Birmania.


 


Altre info su: www.solstizio.org

sabato 19 aprile 2008

Arezzo per "Popoli".

Un passo avanti.

Editoriale RAIDO n. 35 (acquistabile da oggi - sabato - in libreria)





Per quanto ci riguarda siamo stati da sempre sostenitori di un’imprescindibile unione tra ciò che si pensa e le azioni che si compiono.

Il pensiero, cioè la visione del mondo che si richiama ai principi dottrinali, sacri e incorruttibili, vive e si concretizza nel momento in cui tramite l’azione trova applicazione su se stessi e nel mondo circostante. Un’azione che deve mirare a mettere “ordine” nel caos in cui si vive, soppiantando all’incoerenza propria all’uomo moderno, uno stile di vita retto e dignitoso.

Si possono studiare progetti, strategie politiche e sociali, ma senza l’applicazione concreta di queste ultime si rimarrà sempre nell’ambito fumoso dei buoni propositi e delle belle parole.

Nella nostra esperienza ci siamo sempre preoccupati di non incorrere in questo inconcludente modo di essere andando, volta per volta, a realizzare gli obbiettivi che ci eravamo prefissati come tappe di una crescita e di una qualificazione sia personale che comunitaria.

Migliorarsi ma soprattutto agire nel concreto, creando strutture visibili e funzionali, attività culturali e editoriali, senza per questo lasciarci coinvolgere o inglobare ciecamente nel mezzo prescelto o dall’azione stessa, è sempre stata assunta da noi stessi come prerogativa. Questo perché sin dai primi momenti in cui è nata la comunità di Raido eravamo ben coscienti che la “formazione” del militante e la tramandazione dei valori che volevamo testimoniare, sono il fondamento imprescindibile su cui costruire tutta l’esistenza e le azioni della propria vita. La nostra preoccupazione primaria è, e rimarrà sempre, quella di realizzare nel concreto le nostre aspirazioni e non di essere i cantori di un mondo immaginario che vive solo nei bei pensieri e di sogni irrealizzati e irrealizzabili.

Nel trascorrere dell’umido autunno e del freddo inverno, tempo di riflessione e raccoglimento, la nostra comunità ha definito un progetto di rinnovamento della struttura militante, senza per questo snaturare lo stile che ci ha contraddistinto in tutti questi anni.

L’occasione ci è stata offerta con il liberarsi dei locali attigui alla precedente sede, locali più ampi e meglio fruibili che offrono lo spazio opportuno per promuovere attività di vario, nuovo e più ampio genere.

In questi nuovi locali sarà possibile organizzare cineforum, concerti acustici, mostre, proiezioni, conferenze oltre a veri e propri momenti ricreativi e conviviali grazie ad una “zona franca” con tavolini e bancone che offriranno la possibilità di socializzare e di trascorrere del tempo in ottima compagnia e sana convivialità.

La più consolidata struttura della “libreria” è stata sicuramente migliorata offrendo una esposizione più articolata e più accurata di testi di cultura non conforme difficilmente reperibili in altre librerie, maggiormente potenziato è il settore musicale e audio-video, così come quello dell’abbigliamento. In aria di rinnovamento si è organizzato, inoltre, il settore delle spedizioni per offrire a coloro che non risiedono a Roma la possibilità di farsi recapitare in tempi brevi i materiali che l’associazione mette a disposizione (consultabili sul sito: www.raido.it).

Le attività più tradizionali sino ad ora organizzate, come conferenze e convegni, non subiranno nessuna battuta d’arresto anzi sin da subito sono state intensificate e incentivate, cambiando magari la forma, più fluida e aperta, ma non la sostanza.

Il nostro auspicio è che questa nuova struttura sia sempre valutata dall’esterno come realmente è, un mezzo creato e realizzato grazie ai tanti sacrifici dei militanti e simpatizzanti, o di chi semplicemente ha offerto il suo contributo seguendoci e apprezzandoci per la nostra coerenza.

Questa nuova struttura non vuole essere, quindi, solo la sede di chi vi milita, ma un luogo destinato a divenire punto di riferimento per quanti vogliono partecipare idealmente e concretamente alle molteplici iniziative che verranno periodicamente svolte.

Il nostro invito e il nostro augurio è che attorno a questa nuova iniziativa si crei una più ampia aggregazione, che diventi uno spazio aperto disponibile al confronto, alla convivialità, un luogo dove si respiri “aria pulita”, dove poter ragionare e progettare, agire e realizzare.

Con questa iniziativa lanciamo una nuova sfida che ci auspichiamo sia sostenuta e sviluppata soprattutto da tutti gli amici e simpatizzanti, perché è un dato di fatto come in questo momento esistano pochi spazi autonomi, senza padroni o finanziatori occulti e la nostra struttura ne è un esempio. Strategicamente è necessario da una parte salvaguardare e potenziare questo tipo di iniziative, mentre dall’altro è indispensabile realizzarne di nuove, per questo motivo siamo ben lieti e disponibili ad aiutare chi sia intenzionato a darne vita nel proprio territorio di residenza.

Da sempre, ma da oggi in modo particolare, siamo disposti a mettere a disposizione la nostra esperienza per chiunque ne faccia richiesta e ne abbia bisogno, con consigli pratici e metodologici. Questo nostro invito è una sollecitazione e, nello stesso tempo, una proposta a incrementare la creazione di nuove realtà che emanino uno stile di vita pulito, leale e coerente. Bisogna strappare da questo mondo subumano più giovani possibili, coinvolgerli nel lavoro militante, nel clima comunitario che si respira e si vive in una realtà tradizionale che vuole crescere, nei limiti delle proprie possibilità, e che miri a vivere la propria vita all’insegna di azioni coerenti e giuste.

L’aver dato vita a questa nuova iniziativa per noi è il segnale di una maggiore apertura e collaborazione con singoli e con realtà già formate, un campo d’azione sempre stimolante e proficuo.

Non è nostra intenzione fare proselitismo, né lanciare al vento parole d’ordine che non avranno futuro, ma contattare tutti coloro che sono simili per identità e riferimento dottrinario, creando nuove e più concrete sinergie che mirino alla formazione dei militanti del Fronte della Tradizione. Favorire e cercare punti in comune e non di divisione, organizzare iniziative culturali, ricreative e comunitarie in collaborazione tra varie realtà, aprirsi a un dialogo sincero e leale, sono le basi necessarie per proiettarsi nel futuro.

Per noi questa nuova struttura segna e rimarca un passo in avanti, un simbolo tangibile di una crescita della nostra realtà umana e non nascondiamo una certa felicità nell’averla realizzata, ma al contempo non dobbiamo e non vogliamo crogiolarci su questo risultato.

Le realtà umane d’ispirazione tradizionale, che cercano di non scendere a compromessi con il mondo moderno, sono coscienti della difficoltà di dar vita ad iniziative e strutture comunitarie, che sono paragonabili per analogia al piano esistenziale del singolo uomo, che deve risolvere il proprio sostentamento economico.

In scala, il progetto realizzato da una comunità ha un valore aggiunto rispetto a quello del singolo, perché si fonda sul contributo dei vari militanti che agiscono impersonalmente senza badare ai frutti, senza pensare alla vittoria o alla sconfitta, ma ponendosi al servizio incondizionato dell’Idea.

In conclusione possiamo evidenziare come le strutture comunitarie sono la linfa vitale per l’azione politica e culturale che si vuole intraprendere. Infatti, oltre ad impegnare il militante in situazioni che richiedono attenzione e responsabilità, determinando così una personale crescita e qualificazione, al contempo, consentono di avere un sostegno economico che contribuirà a coprire i costi che una normale attività comunitaria richiede.

In questo modo si eviterà di ricorrere ai finanziamenti occulti e di favore, per far fronte alle spese di mantenimento delle sedi o per organizzare eventi e attività varie, che alla lunga determineranno la totale indipendenza della comunità stessa.

Ecco perché aver dato vita a questa nuova iniziativa rappresenta un ulteriore contributo al nostro ambiente e alla nostra lotta e l’auspicio è che divenga un esempio da realizzare in altri territori nei confronti di coloro che vogliono contribuire al Fronte della Tradizione.


Tratto da


RAIDO - Contributi per il Fronte della Tradizione n. 35

Equinozio di Primavera 2008 (disponibile da oggi in libreria)

mercoledì 16 aprile 2008

Gabbo, il colpo di coda: lo spettro della “fatalità”.

25 settembre. Questa è la data in cui è slittata l’udienza preliminare a carico di Luigi Spaccarotella, l’agente della Polizia stradale che ha ucciso con un colpo di pistola il giovane dj e tifoso laziale Gabriele Sandri l’11 novembre scorso all’autogrill di Badia al Pino, sull’autostrada A1.

A distanza di cinque mesi dalla morte di Gabbo, con notizie di tutti i tipi che si rincorrevano, alla fine si è arrivati ad una data certa. L’udienza si terrà davanti al gup Simone Salcerini che deciderà se rinviare a giudizio il poliziotto davanti alla corte d’assise o avviare il rito abbreviato. I cinque mesi di tempo saranno utilizzati dal collegio di difesa del poliziotto per decidere quale strada percorrere: il rito abbreviato oppure la corte di assise. I legali del poliziotto stanno valutando anche una terza via da percorrere, ma in questo caso sarebbe decisivo il parere del Gip: rito abbreviato condizionato all’audizione di alcuni testi. Una via di mezzo per tentare di confutare le tesi dell’accusa con testimoni a favore che dovrebbero mettere in dubbio le dichiarazioni raccolte dal pm Ledda e alcune deduzioni delle perizie, in cui si parla di proiettile leggermente deviato dalla rete, ma esploso comunque “dritto per dritto, ad altezza d’uomo”. D’altra parte, bisogna aspettarselo che anche nel caso di Gabriele Sandri arrivasse la solita storia del proiettile deviato. Infatti, quando a sparare e uccidere sono le forze dell’ordine come prima cosa esce sempre fuori il “colpo sparato per sbaglio”, la “fatalità” o, appunto, la “deviazione” frutto di sassi che volano o di reti metalliche.

Fa discutere però la scelta del perito balistico, il catanese Domenico Compagnini. Fa discutere, perché questo signore è lo stesso che si trova in tutte queste storie controverse come l’uccisione di Carlo Giuliani e Marta Russo. O ancora, ha seguito i casi della morte di Nicola Calipari e di recente lo troviamo anche nel processo alla brigatista Nadia Lioce. E purtroppo ogni volta che in Italia ci troviamo davanti alle “coincidenze” viene subito da pensare che ci sia qualcosa di strano sotto. Basta digitare il suo nome su un qualsiasi motore di ricerca per scoprire il suo curriculum.

Come si legge sul sito comedonchisciotte.org, Compagnini risulta uno fra i soli cinque periti balistici italiani che possono fregiarsi del diploma rilasciato dalla Forensic Science Society, l’unica certificazione di questo tipo a livello europeo. A rilasciare il titolo è la Strathclyde University, socia a sua volta dell’European network of forensic science institutes, che riunisce gli istituti forensi di 18 Paesi europei. Fra i suoi soci italiani, il Servizio Polizia Scientifica ed il Racis, da cui dipendono i reparti Ris dei carabinieri che troviamo regolarmente sulla scena del crimine.

Fin qui sembrerebbe un importante luminare del suo campo. E la sua fama non è stata appannata neanche da una storia, anche in questo caso, molto dubbia. Lasciamo parlare le dichiarazioni del superpentito Antonino Calderone, verbalizzate dalla Commissione parlamentare antimafia, presieduta all’epoca da Luciano Violante. “Una sera – ha raccontato Calderone - mi trovavo in una saletta d’aspetto dell’impresa Costanzo per parlare con uno dei nipoti (doveva affidare del lavoro alla mia impresa di movimento-terra). E’ venuto il dottor Domenico Compagnini che si occupa di balistica, tanto che aveva libero accesso ai documenti dei carabinieri, almeno allora, ora non lo so. (…) Mi ha detto: “Lei non sa niente?”. Ho risposto di no e lui ha aggiunto che erano stati emessi i mandati di cattura per mio cugino, Ferrera Giuseppe e tanti altri. Non gli ho detto che ce ne eravamo occupati ma mi sono chiesto come mai, dato che ci avevano assicurato di aver depennato i nomi. Di Ferrera Giuseppe non ne sapevo nulla. Ho informato De Luca di quanto mi aveva riferito il dottor Compagnini (con il quale ero in buoni rapporti, andavamo a caccia insieme e gli avevo regalato una pistola)”.

Ovviamente le dichiarazioni frutto del pentitismo non possono essere considerate la verità assoluta. Quello che stupisce, però, è che su questi ed altri dettagli forniti agli inquirenti da Calderone in merito al rapporto con Domenico Compagnini, l’inchiesta della magistratura non ha poi prodotto, nei confronti dell’esperto di balistica, nessuna imputazione. La storia, poi, non finisce qui. Sempre sul sito che prende il nome dal cavaliere di Cervantes, viene riportata un’Ansa del 2 novembre 1999: “La procura di Catania, a metà degli anni Novanta, chiese e ottenne l’archiviazione del fascicolo del perito balistico Domenico Compagnini, indagato nell’ambito dell’inchiesta sulla cosca Santapaola. A conclusione delle indagini Compagnini ha continuato ad essere nominato come perito d’ufficio in delicati processi come quello per l’uccisione dell’avvocato Serafino Famà, per il delitto del giudice Livatino e per l’omicidio del sindaco di Firenze Lando Conti, ucciso dalle Br nel 1986”. “Della sua abilità – si legge ancora - si servì anche il boss Benedetto Santapaola che lo nominò perito di parte nel processo per la strage in cui morì Carlo Alberto Dalla Chiesa”.

Ribadiamo, tutto questo può non significare nulla. Come i sassi che volavano in piazza Alimonda o la rete che guarda caso è stata colpita da Spaccarotella. Ma non si poteva forse nominare un perito, come dire, meno chiacchierato?



Articolo di Tommaso Della Longa, tratto da Rinascita.

lunedì 14 aprile 2008

Aspettando il banco delle Giovani Marmotte.

Con il termine inglese bank runs si identifica una richiesta contemporanea e massiva di rimborso dei depositi presenti presso un determinato istituto di credito. Le scene che abbiamo visto l'estate scorsa innanzi alle filiali della Banca Northern Rock rappresentano un tipico esempio di bank runs ovvero traducendo letteralmente una corsa alla banca per prelevare il contante ivi depositato. L'attuale congiuntura che stanno vivendo i mercati finanziari del pianeta (innanzi alla peggiore crisi economica dal dopoguerra ad oggi, secondo Alan Greenspan) sollevano non poche considerazioni e perplessità in merito ai sistemi di tutela dei depositi attualmente in essere per contrastare e gestire gli effetti di una crisi strutturale dell'intero sistema creditizio. Consideriamo a riguardo che alcune delle più grandi banche del mondo (ed in teoria anche le più solide e sicure) sono state recentemente in prossimità di un default finanziario, prospettiva impensabile fino a cinque anni fa.



Tralasciando l'analisi macroeconomica già trattata in altre occasioni, ritengo interessante soffermarmi sui modi e tempi messi in essere dal nostro paese nell'eventualità che si verifichi un caso Northern Rock anche in Italia. A riguardo infatti il nostro paese prevede per legge la presenza di un organismo di garanzia che possa contribuire al mantenimento della stabilità finanziaria evitando appunto comportamenti di bank running, il nome di questo organismo viene riportato solitamente sull'intestazione di ogni estratto di conto bancario: a proteggere i depositi dei risparmiatori e correntisti italiani ci pensa il cosiddetto FITD ovvero il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi. Il nome in sè dovrebbe già rassicurare chi sta leggendo. In teoria dovrebbe essere così. Ma siamo certi che anche una sua estrema applicazione pratica non consenta il salvataggio di quanto depositato? Cominciamo con una buona notizia. L'unica, purtroppo, a mio giudizio. L'Italia detiene l'assicurazione con l'importo maggiore (103.000 euro) all'interno dell'Unione Europea a copertura dei depositi presenti presso i suoi istituti di credito. Altri paesi europei sono molto meno virtuosi di noi, in Francia, per esempio, la copertura è di 70.000 euro, in Germania di 20.000 euro e nel Regno Unito circa 45.000 euro. Per una volta tanto l'Italia eccelle sugli altri.



Quello che dovremmo conoscere non è tanto il massimale assicurato dall'organismo di garanzia (che non ha fatto altro che recepire una direttiva comunitaria la quale imponeva un minimo di garanzia di almeno 20.000 euro), ma le modalità di intervento del fondo di garanzia per far fronte alla stabilità e solidità del sistema bancario italiano. Tanto per iniziare, sappiate che questo fondo non è un contenitore di liquidità e risorse finanziarie o meglio ancora non è una cassaforte che detiene oro, euro, immobili e preziosi, come nell'immaginario collettivo si pensa tutt'oggi. Niente di tutto questo. Nella fattispecie infatti il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi è un consorzio obbligatorio di diritto privato a cui aderiscono le circa 300 banche presenti nel territorio italiano (tranne le banche di credito cooperativo che hanno a loro volta un proprio fondo di tutela dei depositi). Un eventuale intervento di questo fondo a copertura di un default finanziario di un istituto di credito italiano si configura pertanto come un intervento congiunto in comune partecipazione da parte di tutte le altre banche che aderiscono al fondo attraverso l'immissione di liquidità e/o fondi nel sistema o nella banca sventurata ormai in crisi o insolvenza manifesta. In buona sostanza questo fondo è privo di risorse proprie. Il fondo, che dovrebbe chiamarsi consorzio e non fondo a mio modesto parere, si preoccupa di coordinare, a livello di tesoreria, gli accantonamenti contributivi di cui ogni banca deve rispondere in base al volume dei suoi depositi e ad uno specifico livello di rischio. Questo tipo di approccio presuppone una lentezza di intervento nell'effettuare eventuali rimborsi nel caso del fallimento di un soggetto bancario, a causa della necessità di raccogliere i conferimenti da parte delle varie controparti bancarie, sottolineando invece una preoccupante inefficacia in caso di crisi strutturale dell'intero sistema bancario.


Questa considerazione infatti permette di intuire come agisce il fondo a livello pratico: se una banca fallisce, tutte le altre intervengono per sorreggerla attraverso il ricorso a fondi propri appositamente accantonati (o almeno che dovrebbero essere stati prudentemente accantonati). Mentre nel caso di una crisi strutturale del sistema (quella menzionata da Alan Greenspan), quindi per esempio due grandi gruppi bancari che si trovassero in situazioni analoghe a quelle della Northern Rock, il fondo risulterebbe sostanzialmente incapace di intervenire. Questa incapacità deriverebbe da uno stato di insolvenza che colpirebbe con effetto domino una moltitudine significativa di banche aderenti al fondo incapaci a loro volta di sostenere le prime in default.



In questa eventualità solamente un intervento pubblico potrebbe essere in grado di salvare l'intero sistema bancario. Per l'ennesima volta compare lo spettro del prestatore di ultima istanza che attualmente in Italia ed in Europa non è ancora molto ben identificato ovvero il soggetto che per ultimo dovrebbe essere in grado di mettere una pezza finale al buco che si è venuto a formare. A riguardo allora ognuno di voi tragga le dovute considerazioni sulla base di quanto proposto recentemente in occasione del meeting Ecofin svoltosi in Slovenia, all'interno del quale i banchieri centrali dell'Unione Europea hanno proposto un memorandum of understanding dal quale si evince la totale assenza di interventi con denaro pubblico a sostegno dell'azionariato delle banche in eventuali default finanziari. Pertanto consiglio a tutti di aprire il prima possibile un conto di deposito presso il Banco delle Giovani Marmotte in quanto grazie alle fideiussioni di Zio Paperone potremmo contare su una banca solida ed in grado di resistere anche ai take over ostili da parte di Rockerduck: grazie alle competenze di Qui, Quo e Qua, finalmente saremmo in grado di costruire un innovativo ed inattaccabile sistema bancario.



Di Eugenio Benetazzo

www.eugeniobenetazzo.com/tour.html

www.youtube.com/eugeniobenetazzo

sabato 12 aprile 2008

SCARICA, STAMPA E DIFFONDI.

Il numero di Aprile di Controvento:







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Occultamento delle notizie ai tempi di internet.

L’articolo che vi proponiamo è un perfetto esempio di quella che sembra essere diventata l’informazione nell’era delle telecomunicazioni e della globalizzazione. Il concetto è semplice e lo ritroviamo nel finale dell’articolo: nell’era di internet le notizie non possono essere nascoste - non ancora almeno -, dunque cosa fare? Chi ha interesse a che le notizie siano occultate paradossalmente non fa altro che lasciare andare le notizie, magari fornendole ricche di particolari a loro uomini di fiducia, a patto che essi stessi sminuiscano la loro credibilità inserendo qua e là elementi assurdi, che non stanno né in cielo né in terra. La tecnica è semplice ed efficace, l’effetto è quello desiderato: una parvenza di democraticità ed un apparente pluralismo dell’informazione ma, al tempo stesso, la totale inutilizzabilità delle fonti e di tutte quelle notizie che invece avrebbero motivo di essere visti da tutt’altra prospettiva e di essere molto più seriamente prese in considerazione. (da www.azionetradizionale.com)



L’occultamento delle notizie ai tempi di internet; ovvero l’ingegneria genetica dell’informazione. A cura del Prof. Paolo De Bernardi per www.disinformazione.it - 9 aprile 2008




David Icke, ex giornalista ed ex deputato verde inglese, è un “complottista”, e cioè egli ritiene, con una documentazione riportata in più di 15 volumi, che il mondo occidentale sia occultamente dominato da una élite in grado di direzionare gli stati nazionali e i grandi organismi internazionali (come ONU, Banca Mondiale, Banche centrali e ovviamente stampa e televisioni). Questa élite, dice Icke, è satanista e pedofila: pratica sacrifici umani e si esprime con simbologie esoteriche (i grandi attentati degli ultimi anni, dopo l’11 settembre, in Inghilterra, come in Spagna o in Algeria ricorrono col numero 11, oppure sono agli antipodi di settembre, cioè in marzo). Essa di fatto governa la politica e la storia. Icke fa i nomi di alcuni che starebbero ai vertici: banchieri e petrolieri come i Rotschild, i Rockefeller e un ex segretario di stato influentissimo come Kissinger. Ciò che accomuna, ad esempio, questi tre nomi è il fatto che sono ebrei; quindi Icke è blandamente accusato di antisemitismo.


 


Senonché il complottista, con fare da new age demenziale, esprime un amore universale, che “perdona tutti” anche i propri nemici, e infatti a p. 551 di E la verità vi renderà liberi1[1] scrive un capitolo dal titolo “Ti amo dottor Kissinger”, alla fine di un libro che documenta come questo signore sia, all’interno dell’élite che domina il mondo, uno dei peggiori nemici dell’umanità, tanto per le guerre e colpi di stato organizzati (Cile, Libano, ecc.), quanto per i provvedimenti malthusiani ai danni dei paesi più poveri (vaccini defertilizzanti, virus manipolati geneticamente veicolati nell’aria e nel cibo, spargimenti di uranio impoverito). Icke dispone di una mole enorme di materiale di non facile reperibilità; e sono proprio quelle informazioni di cui tanti seri ricercatori vanno a caccia, ma con fatica. Dispone di informazioni dettegliatissime su: guerra di Panama, Hitler, colpo di stato in Cile, storia e politica di Inghilterra e Usa, guerra del Golfo, rapporti Usa-Urss, conosce tutto su Consiglio delle relazioni estere (CFR), Trilaterale, Bilderberg, Club di Roma, storia della massoneria, la vicenda di Lady D., Mitterand, Sinn Fein, Merovingi, storia del Cristianesimo, storia della Bibbia, storia dei popoli antichi (egizi, sumeri, ecc), attentato di Oklahoma, attentato a Kennedy, questione Iran-Contra, guerra Vietnam, Mossad; sul caso Moro e la P 2, lui ne sa molto di più di noi italiani; es: “il 10 novembre 1982 la corte sentì una testimonianza sconvolgente da una persona molto vicina a Moro, Corrado Guerzoni.


 


Egli affermò che un politico delle alte sfere statunitensi aveva minacciato Moro che se non avesse cambiato la sua linea politica, avrebbe dovuto vedersela con loro…Anche la moglie di Aldo Moro, durante la sua deposizione, disse che ’una figura politica statunitense di alto livello’ aveva detto a suo marito ‘O abbandoni la tua linea politica o la paghi cara’. Chi fu l’uomo di cui fece il nome Corrado Guerzoni in Tribunale? Henry Kissinger. Di questo si parlò molto sui giornali italiani, ma non una sola parola apparve sul New York Times o sul Washington Post” (E la verità vi renderà liberi, p. 321). Egli ha perfino le prove del silenzio della stampa americana del tempo; cosa che ad una verifica –è da scommetterci- deve risultar vero. Inutile dire che dispone di informazioni proibitive su Calvi, Sindona, il Vaticano, Gelli, ecc. E’ indicativo che su queste cruciali e delicate vicende della storia italiana non indichi la fonte da cui le trae. A lui tutta questa roba viene fornita, con ogni verosimiglianza, dai Servizi; il tipo non ha neppure la faccia dello studioso e del ricercatore, gobbo e occhialuto, che passa le giornate a raccogliere e catalogare documentazione. Anzi, lasciatemi dire che ha tutta l’aria di uno che in vita sua non ha mai lavorato sul serio. E quei Servizi non solo gli danno accesso alle più proibitive informazioni, ma anche gli consentono di stare anni a scrivere migliaia e migliaia di pagine senza doversi preoccupare di sbarcare il lunario, consentendogli, inoltre, di recarsi tranquillamente da un angolo all’altro del mondo a fare conferenze (con finti gruppetti di protesta fuori la sala, che lo accusano di antisemitismo).


 


Icke è usato dall’élite che lui denuncia affinchè quelle informazioni (di molte delle quali chiunque può verificare la fondatezza) non vengano utilizzate e non siano citate da alcuno. In che modo si compie questo? L’autore, dopo aver esposto quella mole di documenti e quella credibilissima ricostruzione (a cui molti ricercatori, per uno o più aspetti,stavano arrivando) la scredita, accreditando se stesso come paranoide. E allora eccoti verso la fine del libro (Figli di Matrix, p.336) il capitolo dedicato alle “regine che mutano forma” , dove dà piena attendibilità a testimonianze di chi afferma aver visto la regina Elisabetta e suo figlio Carlo trasformarsi in giganteschi lucertoloni intenti a mangiare carne umana. Icke stesso dice di aver visto il presidente Bush trasformarsi per un attimo in lucertolone durante un’intervista; e accredita anche quelle testimonianze di donne che avrebbero avuto rapporti con persone che durante l’atto si sarebbero trasformate in lucertoloni.



(Continua...)


mercoledì 9 aprile 2008

Sessant'anni fa il massacro di Deir Yassin.

Sono passati solo pochi mesi da quando, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite hanno approvato, con la Risoluzione 181, il piano di suddivisione della Palestina storica, ancora sotto Mandato Britannico, tra una minoranza ebraica, fatta prevalentemente di immigrati, e la maggioranza autoctona araba. Solo per Gerusalemme ed il suo circondario viene decisa l'attribuzione all'ONU di un Mandato Internazionale. Anticipando il momento in cui, a metà maggio, le truppe britanniche dovranno abbandonare il suolo della Palestina, le organizzazioni militari ebraiche dell'Haganah e del Palmach, come pure i gruppi terroristici ebraici dell'Irgun, del Lehi (di Menachem Begin) e la Banda Stern (di Yitzhak Shamir), cominciano fin dal 6 aprile 1948 ad attuare il Piano D (o Daleth), il cui fine è di realizzare, con la violenza ed il terrore, la "pulizia etnica" del territorio, eliminando o allontanando la popolazione originaria araba, in modo che quella terra divenga, alfine, "senza un popolo", tale cioè da poter ospitare il "focolare nazionale" di un "popolo senza terra". Coerentemente con tali obiettivi, il 9 aprile 1948, alle prime ore dell'alba, tra le 2 e le 4, favorite dal buio della notte, le forze dell'Irgun e del Lehi, con il benestare ed il coordinamento dell'Haganah, attaccano il villaggio di Deir Yassin situato nella zona internazionale della periferia nord-occidentale di Gerusalemme. Assenti gli uomini giovani e validi, nel villaggio circondato sono rimasti solo vecchi, donne e bambini. Quello che ha subito inizio a Deir Yassin è un'orgia di sangue, di violenze e di barbarie. Coloro che si affacciano, ignari, alle porte vengono assassinati all'istante. Entro le case, dalle finestre e dalle porte, vengono lanciate bombe incendiarie. Corpi di bambini, di vecchi innocenti e di donne, feriti o morenti, resteranno per ore a bruciare sui pavimenti sconvolti o sulla polvere della strada. Sui rastrellati si sfogherà poi la brutale ferocia degli aggressori. Verranno allineati in lunghe file per essere fucilati sul posto o per essere seviziati. Dopo l'intervento delle truppe dell'Haganah per vincere la resistenza nella parte occidentale del villaggio, inizia la "pulizia etnica" definitiva. Gli assassini, senza distinzione di appartenenza o di sesso, si scagliano sui sopravvissuti, sui feriti, facendone scempio. Il secondo giorno dell'assalto è completamente dedicato a questo eccidio. Ma'er Pa'el, militare di coordinamento dell'Haganah per Deir Yassin, ha dichiarato di aver visto donne ebree, di bell'aspetto, con coltelli in mano, lorde del sangue delle loro vittime, ebbre di gioia per aver fatto "pulizia". Coloro che cercano di fuggire dal villaggio accerchiato, vengono caricati su camion: gli uomini da una parte per essere fucilati in una cava, le donne e i bambini da un'altra, per essere portati su camion a Gerusalemme est, e le donne essere violentate. Circa 250 palestinesi innocenti vennero massacrati con una ferocia indescrivibile. Dopo aver raccolto informazioni da testimoni e da superstiti, la Delegazione Britannica a Gerusalemme, che pure non ha fatto alcunché per impedire l'eccidio, il 20 aprile 1948 , nella persona di J. Fletcher-Cocke, comunica al Primo Segretario della Commissione delle Nazioni Unite per la Palestina, il dr. Ralph J. Bunche, che: "la morte di circa 250 arabi, uomini,donne e bambini, durante questo attacco è avvenuta in condizioni di estrema crudeltà". "Donne e bambini sono stati denudati, allineati, fotografati e poi massacrati con armi automatiche, mentre i sopravvissuti sono stati sottoposti a incredibili e perfino maggiori bestialità"."Coloro che sono stati fatti prigionieri hanno subito degradanti brutalità". "Sebbene l'Haganah non sia stato in grado di impedire questo scempio, essa ha dato copertura ai terroristi responsabili di queste efferatezze". "Il 13 aprile è apparso evidente che l'Haganah ha ottenuto il possesso del villaggio dai terroristi e l'operazione è stata perciò sospesa". "Il Governo della Palestina ha riferito che il 14 aprile non è ancora possibile accedere a Deir Yassin". " Un rappresentante della Croce Rossa Internazionale, [il franco- svizzero Jacques de Reynier-n.d.t.] che è entrato a Deir Yassin il giorno 11 aprile, ha detto di aver constatato che circa 150 corpi di arabi, uomini, donne e bambini, erano ammucchiati in una cava, mentre altri 50 corpi sono stati trovati vicino ad una fortificazione". Nel 1969, il ministro degli esteri israeliano pubblicò un depliant in inglese nel quale si negava che il massacro di Deir Yassin fosse mai avvenuto. Attualmente, al posto della Deir Yassin scomparsa, delle sue case e del cimitero distrutto, c'è un ospedale psichiatrico, il Kfar Shaul Psychiatric Hospital, e le costruzioni moderne di un insediamento ebraico. Vicino al sito dove sono ancora accumulate le pietre delle rovine di Deir Yassin si trova il Memoriale dell'Olocausto, lo Yad Vashem, a cancellarne ancor più oltre che la vista, anche la memoria della tragedia palestinese. Chi ricorda più, infatti, i martiri innocenti che furono massacrati tra quelle rocce?



Articolo di Mariano Mingarelli