domenica 31 agosto 2008

Boe Way Hta sotto attacco.

BOE WAY HTA ANCORA SOTTO BOMBARDAMENTO. MA SI RESISTE.



31 AGOSTO - Resiste la roccaforte Karen di Boe Way Hta, dove da ieri è iniziato un nuovo bombardamento da parte delle truppe birmane. Boe Way Hta era già stata colpita in maniera massiccia alla fine di giugno (in quell'occasione era morto un infermiere di Popoli), e da allora era rimasta stretta in una morsa, con l'esercito birmano e la milizia collaborazionista che ammassavano truppe in attesa della fine della stagione delle piogge, periodo poco propizio alle operazioni. Il 26 luglio vi era stato un nuovo tentativo di sfondamento delle difese Karen, ma la resistenza aveva avuto la meglio. Non era però terminata la manovra birmana. Numerosi nuovi reparti si erano concentrati nei dintorni della località, importantissimo centro della resistenza del popolo Karen. Per tutto il mese di agosto i combattimenti tra KNLA (esercito di liberazione nazionale Karen) e occupanti birmani si erano susseguiti, fino al bombardamento di ieri, condotto con 'uso di mortai pesanti da 120 mm. Volontari di Popoli erano al lavoro in un villaggio che dista qualche ora di marcia da Boe Way Hta, interessato però anc'esso dalle operazioni belliche. Mentre su Boe Way Hta cadevano le prime granate, gli uomini del Colonnello Nerdah Mya attaccavano infatti i soldati birmani del distaccamento di Maw Khee, allo scopo di creare disturbo alla manovra principale, e di alleggerire la pressione sul villaggio bombardato. Il personale sanitario di Popoli, nonostante la possibilità di evacuare la clinica Carlo Terracciano ha deciso di rimanere nella struttura, mettendosi a disposizione per prestare soccorso ad eventuali feriti. Al momento la situazione è tornata alla normalità nel settore di Maw Khee, e medici ed infermieri di Popoli hanno lasciato la clinica e si trovano ora al sicuro. Nelle prossime ore seguiranno L'evoluzione degli avvenimenti per intervenire, in caso di necessità, nelle zone maggiormente interessate dalla presenza di feriti. Va sottolineato come i birmani abbiano rastrellato ben duecento civili Karen da numerosi villaggi per utilizzarli come portatori di armi, munizioni ed equipaggiamenti e per costringerli a precedere le truppe lungo i sentieri minati che circondano Boe Way Hta.



Da www.comunitapopoli.org

venerdì 29 agosto 2008

Lettera aperta del presidente russo all'Occidente.

Dmitri Medvedev ha scritto ai capi di Stato dei più importanti paesi occidentali per cercare di spiegare le ragioni della Russia.


Nello spirito delle nostre relazioni di fiducia reciproca desidero informarLa che la Federazione Russa si trova di fronte alla necessità di prendere la decisione difficile - ma l'unica possibile, in queste condizioni - di riconoscere l'indipendenza e la sovranità dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia.

L'aggressione del regime di Mikhail Saakashvili contro l'Ossezia del Sud ha cancellato le vite di molti dei nostri cittadini, compresi i militari che facevano parte del contingente multinazionale per il mantenimento della pace. Avendo dato l'ordine criminale di attaccare l'Ossezia del Sud, Saakashvili contava di realizzare un'operazione lampo e di mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto di una "sistemazione" del conflitto tra la Georgia e l'Ossezia del Sud alle condizioni di Tbilisi.



Contemporaneamente, lui stava preparando un'azione militare anche contro l'Abkhazia. Questi piani si sono scontrati con la resistenza dei popoli dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia e sono stati stroncati dalle azioni decisive del rafforzato contingente di pace russo.

Da quando, all'inizio degli anni '90, il presidente georgiano Gamsakhurdia lanciò l'appello per una "Georgia per i georgiani" e abolì gli Stati autonomi dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud, ordinando di prendere d'assalto Sukhumi e Tskhinvali, la Russia fece tutto quanto in suo potere per impedire il genocidio e le pulizie etniche. La Russia, come mediatrice e pacificatrice, voleva arrivare a una soluzione politica dei conflitti. Allo stesso tempo, ci siamo sempre basati sul riconoscimento dell'integrità territoriale della Georgia.


Tuttavia la dirigenza georgiana faceva spesso saltare il processo negoziale rinnegando le intese precedenti. Faceva uso di ingegnose provocazioni politiche e militari violando gravemente il regime stabilito con il sostegno dell'Onu e dell'Osce nelle zone del conflitto. Tutto questo era accompagnato da azioni antirusse, attacchi ai militari del contingente di pace, arresti dei nostri ufficiali e deportazioni dei nostri diplomatici.

Non abbiamo raccolto le provocazioni, abbiamo dimostrato fermezza e pazienza, abbiamo cercato in ogni modo di far rinsavire il regime di Tbilisi, farlo tornare al tavolo delle trattative. Non abbiamo abbandonato questa nostra posizione di principio neanche dopo la proclamazione unilaterale dell'indipendenza del Kosovo.



Ciononostante la dirigenza georgiana non ha potuto e non ha nemmeno voluto apprezzare la nostra linea costruttiva, cadendo sempre più nella febbre militarista. Un ruolo chiaramente distruttivo è stato giocato dai protettori esterni di Saakashvili, che l'hanno aiutato a riarmarsi fino ai denti, favorendo di fatto le sue intenzioni aggressive e rafforzando la sua fiducia nell'impunità.

I nostri insistenti appelli a Tbilisi per la stipula di accordi sull'impegno al non uso della forza in Abkhazia e Ossezia del Sud sono stati respinti dalla dirigenza georgiana e ignorati dall'Unione europea e dalla Nato.

Nella notte dell'8 agosto 2008 Tbilisi ha fatto la sua scelta, iniziando la guerra contro il popolo sudosseto il quale - stando alle dichiarazioni di Saakashvili - è considerato una parte del suo Stato. Con il suo ordine criminale di iniziare la guerra, il presidente georgiano ha cancellato di propria mano tutte le speranze per il ristabilimento dell'integrità territoriale e la coesistenza pacifica di sudosseti, abkhazi e georgiani in un unico Stato. I popoli dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud si sono espressi più volte con referendum a favore dell'indipendenza delle proprie Repubbliche. Ciò che è successo in Ossezia del Sud e si stava pianificando di fare anche in Abkhazia ha fatto traboccare il vaso della pazienza.



In questi giorni i presidenti Bagapsh e Kokojty, sulla base della delibera dei loro Parlamenti, si sono rivolti alla dirigenza russa per la richiesta del riconoscimento della sovranità di Stato dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud. Il consiglio della Federazione e la Duma di Stato in modo unanime si sono espresse a sostegno di questo appello. Questa posizione è condivisa dalla stragrande maggioranza dei nostri cittadini. Basandosi sulla situazione che si è venuta a creare, tenendo conto della volontà espressa dai popoli dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud, attenendosi alle disposizioni dello statuto Onu e alla dichiarazione sui principi e il diritto internazionale riguardanti le relazioni amichevoli tra gli Stati, all'atto finale di Helsinki e agli altri documenti internazionali di parte, è stata presa la decisione del riconoscimento da parte della Federazione Russa dell'indipendenza della Repubblica di Abkhazia e della Repubblica dell'Ossezia del Sud. I rispettivi decreti saranno da me firmati il 26 agosto 2008.



Conto sulla Sua comprensione e sul Suo sostegno.

Inoltre spero che i 6 principi concordati a Mosca il 12 agosto per la sistemazione dei conflitti rimarranno in vigore per quanto riguarda l'adozione delle misure contro la riapertura delle attività militari. A tal fine faremo tutto il necessario, comprese la azioni coordinate con gli osservatori dell'Osce. Siamo pronti a concordare un regime efficace per la zona di sicurezza attorno all'Ossezia del Sud affinché sia posta una barriera contro le provocazioni e i nuovi preparativi militari. Saremo a favore di un ruolo dell'Unione europea in questi sforzi sotto l'egida dell'Osce.

giovedì 28 agosto 2008

Terra – Identità.

E' partita ieri la prima missione de l'Uomo Libero in Birmania.


La missione, coordinata con l'Associazione "Popoli" di Verona, ha lo scopo di verificare e sostenere lo stato dell'avanzamento dei lavori iniziati ad aprile di quest'anno.


Durante i 15 giorni circa di permanenza i volontari de l'Uomo Libero verificheranno e documenteranno infatti la realizzazione e lo stato d'arte della prima fase di “Terra – Identità” che prevede:



v la bonifica, la lavorazione e la semina di un terreno di circa 60 ettari come fonte di sostentamento primaria;


v la costruzione delle abitazioni per le famiglie di profughi Karen, che potranno così lasciare i centri profughi dove sono ora "ospitati" e ricostruirsi una vita;


v la costruzione, infine, di un edificio rurale che fungerà da magazzino e da ricovero per gli attrezzi, oltre che da luogo di ristoro per i contadini.



L'Associazione "Popoli" sarà impegnata invece sul lato della gestione delle cliniche costruite negli scorsi anni e nell'addestramento della popolazione locale.



Da: www.luomolibero.it


lunedì 25 agosto 2008

Tra le corde e il tappeto.

Forse stavolta i prepotenti di sempre hanno fatto male i conti. I colpi d'incontro dalla Russia si sprecano.


L'offensiva diplomatica, terroristica e militare scatenata dagli Usa e Israele, tramite il valvassino georgiano, contro la Russia, rischia di ritorcersi in modo davvero pesante sui guerrafondai. Dapprima i russi hanno spazzato via gli aggressori e sono penetrati con estrema facilità fino alla periferia della loro capitale, poi la UE, malgrado le frasi di circostanza, ha dato sostanzialmente ragione a Mosca. Washington, apparsa meno prudente di Tel Aviv, ha allora provato a spezzare il fronte europeo, e soprattutto ad aizzare la Nato contro la Russia.


Scudo antimissile in Polonia e inserimento della Georgia nella Nato (contro le solenni promesse fatte in merito al Cremlino da Bush e Clinton) sono le risposte alla risposta russa all'aggressione subita. Non è un mistero per nessuno che gli Usa, in enorme difficoltà sullo scacchiere mondiale e preda di una crisi finanziaria senza precedenti, accarezzino l'ipotesi di una guerra generalizzata e gettino benzina sul fuoco che essi stessi hanno acceso e che alimentano con particolare applicazione da nove anni in qua. Eppure le ulteriori risposte alle loro manovre bellicose rischiano di non essere proprio quelle che Casa Bianca e Pentagono si attendevano. Al loro proclama “congeleremo i rapporti con la Russia”, il ministro degli Esteri moscovita, Serghei Lavrov, ha ricordato che “è la Nato ad aver più bisogno della Russia che non il contrario. Specialmente in Afghanistan dove si gioca il futuro dell'Alleanza”. Ovvero, se gli Usa non faranno marcia indietro, il territorio russo non sarà più utilizzabile per i rifornimenti della forza multinazionale che veglia sulla lottizzazione tra le potenze industriali delle coltivazioni d'oppio e delle rotte delle pipelines, lottizzazione che ha un'importanza cruciale nel dominio mondiale. A questo primo diretto in faccia, che i russi avvertono che potranno tirare a chi li sta provocando con ostinazione e sfrontatezza, si aggiunge una minaccia almeno da knock down se non proprio da ko. Il 28 agosto, ovvero all'indomani della probabile ufficializzazione del'indipendenza di Abkazia e Ossezia del sud, è previsto un vertice dell'Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Sco) cui partecipano oltre a Russia e Cina le repubbliche centroasiatiche che fanno parte della zona cruciale per il dominio planetario secondo Brzezinski (ideologo della Trilateral, massimo esponente attuale della dottrina estera americana, consigliere, oggi, di Obama). La Russia è riuscita in questi anni a far sì che la penetrazione americana nell'area sia stata contrata e progressivamente rintuzzata. Dopo la cacciata degli americani dall'Uzbekistan questi ultimi conservano la base Nato in Kyrghizistan, una base dal valore strategico incommensurabile. Mosca lascia trapelare che la Sco potrebbe spingere per la sua chiusura; un eventualità che definire disastrosa per Washington sarebbe molto più che un eufemismo. E c'è di più. L'intero programma satellitare americano è a rischio. La Nasa ha programmato di rimuovere la flotta Shuttle e di sostituirla con le nuove navicelle Orione; ma serve un interregno di almeno un quinquennio, periodo durante il quale dovrebbe utilizzare, da accordo con Mosca, le Soyuz russe. Il “congelamento” renderebbe questa strada impraticabile. E solo il ricorso ai satelliti cinesi potrebbe, forse, togliere gli americani d'impaccio: ma, interessi economici a parte, non è affatto certo che Pechino sia disponibile per questa soluzione. Inoltre Mosca ha fatto sapere che è disposta a dotare la Siria di SS 20. Questo preoccupa Israele che già parla di una missione diplomatica distensiva al Cremlino. Morale della favola: nulla ancora è deciso, i giochi non sono certo fatti ma stavolta potrebbe finire proprio come la favola dei pifferai di montagna, che vennero per suonare ma furono suonati.



Di Gabriele Adinolfi, tratto da www.noreporter.org

venerdì 22 agosto 2008

Il flagello del personalismo.

Di Julius Evola.


Per un organizzarsi davvero efficace delle forze nazionalmente orientate una delle condizioni preliminari è il superamento del personalismo. Il personalismo è fra le disposizioni infelici del popolo italiano, specie nei suoi strati intellettuali, ed esso oggi persiste e si afferma anche fra i gruppi a noi idealmente più vicini, con effetti visibili e deprecabili di frazionamento, di dispersione delle energie, di distorsione.



Mentre l’esigenza del momento sarebbe la disciplina di forze coordinate in un blocco compatto, con al primo piano non gli individui, ma l’idea e l’azione in sé stessa, tuttora vige troppo spesso la tendenza ad andar per conto proprio, a costituire un proprio gruppetto usando le idee soprattutto per mettersi in mostra, per assicurarsi dei privilegi, per crearsi una certa sfera d’influenza. Così, anche se in proporzioni ridotte, tende a ripullulare la mala pianta del “gerarchismo”; il quale sia detto senza mezzi termini, costituisce l’antitesi di ogni vera gerarchia, la vera gerarchia non conoscendo personalismi, definendosi oggettivamente con l’autorità che procede dall’adeguarsi disindividualmente ad un principio e ad una funzione, e dal tenersi volentieri ognuno al suo giusto posto, senza scarti, tergiversazioni e manovre.



In pari tempo, vediamo oggi diffusa la mania della polemica, con lo stile di una reattività che quasi chiameremmo uterina. L’una cosa si tiene effettivamente insieme con l’altra: il personalismo e l’individualismo ne costituiscono parimenti la base. Per mettere in evidenza se stessi si sente il bisogno quasi isterico di attaccare l’uno o l’altro, di contrapporre formula a formula, parola d’ordine a parola d’ordine anche dove ad una disamina calma ed obbiettiva riuscirebbe facile mostrare che le ragioni di contrasto sono minime, che le contrapposizioni non son dovute all’aspetto dottrinale e intellettuale, ma essenzialmente ad un animus, ad un fattore irrazionale ed affettivo. Non si riconosce che, tutto sommato qui agisce semplicemente un “complesso di inferiorità”, perché chi è veramente certo del proprio valore e di quello della propria idea non sente il bisogno di attaccare a destra e a sinistra per “affermarsi”, non soggiace ad una incomposta reattività, non va in cerca di ogni possibile pretesto per dire la sua o per contrapporsi; procede invece per la sua via, secondo lo stile di una raccolta intensità e di un’azione indirizzata all’essenziale e al positivo, non all’accidentale e al negativo.



Come dicevamo, sono palesi gli effetti tutt’altro che costruttivi che oggi derivano da un orientamento del genere. Ad esempio, nell’ambito stesso della stampa d’intonazione su non diversa base noi vediamo nascere ora l’uno ed ora l’altro nuovo periodico, quasi sempre perché l’una o l’altra persona vuole assicurarsi una sua personale sfera d’influenza e di “giurisdizione”. Quali altri risultati non si conseguirebbero invece, quando queste singole possibilità venissero organizzate unitariamente, sulla base di una chiarificazione dottrinale fondamentale e, poi, di uno stile di disciplina d’impegno di impersonalità fattiva? Il sistema dei “gruppi” definiti da interessi di persone invece che da vere idee o con semplici parole d’ordine al posto di idee oggi da noi ha una efficienza tale, da ingenerare in moltissimi l’atteggiamento di un fondamentale sospetto. Così non si riesce quasi più a concepire che vi siano degli esseri liberi che vadano dritti per la loro via. Ci si chiede invece “chi sta dietro di lui”, si cerca di scoprire, al servigio di quali interessi, di quali “combinazioni”, di quali gruppi o gruppetti stiano le idee che uno difende, le cose che uno dice. Donde un naturale passaggio al pettegolezzo e alla diceria, la discesa ad un piano irrilevante di intrigo e di scandalismo, anche perché questo piano si presta meglio – di nuovo – a polemiche, attacchi e personalismi. Inutile, qui, addurre esempi che tutti conoscono. E’ inutile, anche, mettere in risalto quanto spesso un tale atteggiamento di sospetto e di intrigo distorce le cose e giova al giuoco degli avversari, facendo cadere tutto l’accento su quel che per taluno può essere solo un mezzo, per nulla il fine e il movente decisivo.



Sempre sulla stessa individualistica appartiene il settarismo e la concezione delle “contaminazioni”. Ad esempio, scrivere su di un foglio anziché su di un altro, è cosa che spesso crea automaticamente delle incompatibilità, dato appunto il sistema dei gruppi personalistici: vedere quali idee si difendano, accertare se uno scrittore resti o no coerente con se stesso, e solo ciò considerare come essenziale e serio – questo a molti riesce difficile. Si pretende, invece, che “si faccia gruppo”: anche quando non ce ne è proprio ragione, le finalità essendo le stesse una volta allontanate delle false “intransigenze”: FALSE, perché messe su soprattutto in funzione delle persone.



Le distorsioni cui abbiamo brevemente accennato sono deprecabili in qualsiasi clima politico. Ma nel momento attuale costituiscono un lusso che davvero non ci si dovrebbe permettere. La misura in cui esse potranno esser eliminate o ridotte in base ad una nuova serietà ed intensità, sarà anche quella di un progresso reale nel movimento della rinascita nazionale.



Tratto da: www.juliusevola.it

Nasceva a Berlino 106 anni fa la più grande regista di sempre.



Nasce a Berlino Bertha Helene Amalia (Leni) Riefensthal: ammiratrice del nazionalsocialismo e collaboratrice alle scenografie delle Olimpiadi di Berlino del 1936, fotografa, sarà la più grande regista cinematografica del XX secolo.

giovedì 21 agosto 2008

In mano russa segreti militari israeliani.

Sgradevole conseguenza dell’avventurismo di Sion in Georgia: materiale segretissimo dell’IDF (il glorioso Tshal) è caduto in mani «straniere». Lo rivela Haaretz; ha intervistato un soldato di un gruppo di elite sionista, andato a fare il mercenario in Georgia per una ditta privata, «Defensive Shield», allestita dall’ex generale di brigata Gal Hirsh - israeliano ovviamente - per «aiutare» i georgiani. Il milite del commando - soprannominato «Tomer» - è tornato molto preoccupato.



«Appena arrivato nella sala operativa», racconta Tomer, «ho visto un manuale di istruzioni di sicurezza dell’IDF che non avrebbe dovuto essere lì. C’erano anche CD del nostro esercito con la scritta ‘Confidential’, che documentavano le attività della nostra armata, gli organigrammi delle nostre unità speciali, e le generalità degli ufficiali».



La sala operativa non era sorvegliata, rendendo queste informazioni alla portata di chiunque. Di fatto, ai georgiani sono state regalate informazioni top secret che ora, probabilmente sono nelle mani dei russi. Ciò, secondo «Tomer», è dovuto alla mentalità da mercenari assunta dagli istruttori militari israeliani.



«Le ditte responsabili dell’addestramento avevano fretta di finire il contratto, onde cominciarne un altro e fare altri soldi». Inoltre, «si sapeva che il lavoro di addestramento doveva essere finito in fretta perchè i soldati (georgiani) dovevano essere presto impiegati nelle azioni reali». Una conferma aggiuntiva, se ce n’era bisogno, che era la Georgia a prepararsi all’attacco di sorpresa.



Tomer aggiunge: gli ufficiali georgiani dicevano ai loro soldati che l’addestramento serviva ad «aiutare la NATO in Iraq» (sic), mentre «l’obbiettivo reale erano l’Abkhazia e il Sud Ossezia».



Il generale Hirsh, responsabile israeliano dell’addestramento, si è fatto vedere molto poco, rincara Tomer. E secondo lui, i georgiani non sono stati preparati a dovere.



«Secondo gli standard nostri, i soldati avevano capacità qausi-zero e gli ufficiali erano mediocri, era chiaro che gettare questo esercito in un conflitto era assurdo». Molti dei suoi allievi, dice Tomer, sono morti negli scontri coi russi. «E’ dura: molti erano diventati amici, mi avevano invitato a casa loro...».



Il pensiero inespresso è: vuoi vedere che ora Mosca, per ritorsione, passerà le informazioni top secret, i nomi degli ufficiali, gli organigrammi e le metodologie dei corpi speciali ebraici, ad Hezbollah, o agli iraniani?



Ma la vera domanda è piuttosto come mai la Georgia abbia potuto diventare un vero e proprio protettorato israeliano. Non solo due ministri importanti nel govero di Saakashvili, come abbiamo già rivelato, sono israeliani di nascita (David Kezerashvili alla Difesa, Yakobashvili al ministero della Reintegrazione dei territori separatisti); ma, come rivela il Jerusalem Post, persino il primo ministro è un ebreo israeliano.



Si tratta di Vladimir «Lado» Gurgenidze, il quale, capo del governo di una nazione cristiano-ortodossa, alla vigilia dell’attacco «ha chiamato al telefono Israele per chiedere una benedizione speciale al più importante rabbino e leader spirituale della comunità haredi (i fondamentalisti ebraici più feroci), rabbi Aharon Leib Steinman»; così parlò il Jerusalem Post.



Non basta. Decine di generali israeliani, una volta in pensione, hanno fatto della Georgia la loro patria-di-vacanza; decine di migliaia di israeliani sono andati in ferie in Georgia, meta apparentemente privilegiata del turismo ebraico.



Lasha Zhvania, già ambasciatore della Georgia in Israele e poi eletto al parlamento georgiano, va ogni anno in Israele a trovare i parenti sparsi ad Haifa e Nethanya. E’ evidente che i legami d’affetto uniscono i due Paesi al disopra della convenienza politica. Perchè?



Facile, in fondo. La maggior parte degli «ebrei» (gli askhenazi, il 75% della comunità, che domina i sefarditi) vengono da lì; non dalla Palestina, ma dalle sponde del Mar Nero. Sono i discendenti dei khazari, che si convertirono in massa al giudaismo nell’ottavo secolo dopo Cristo. Il nome stesso del ministro della Difesa israeliano-georgiano, Kezerashvili, significa «figlio di khazaro».



Per un secolo e mezzo almeno, un vero impero dei khazari ha controllato le coste del Mar Nero, con centro ad Odessa, arricchendosi coi pedaggi e le esazioni estratte dalle carovane che percorrevano la Via della Seta. Grossi affari, che probabilmente entrano per qualcosa nell’acquisita identità «ebraica» di questi turco-mongoli.

Nel 965 il principe della Rus’, Sviatoslav di Kiev, condusse diverse azioni militari contro questo regno del taglieggio, il che portò al declino e alla scomparsa dell’impero khazaro; da qui, probabilmente, l’odio inestinguibile degli «ebrei» per i russi, che i veri ebrei (i sefarditi) manco potevano conoscere.



Il poeta persiano Khakani (1106-1190), che fu funzionario dell’impero persiano e svolse gran parte della sua carriera nel Caucaso, racconta dei «Devent Khazari», questa popolazione che aveva fatto della città di Darband la via di passaggio obbligata tra il Caucaso e il Mar Nero, una via attraverso cui, nei vecchi tempi, i khazari andavano in Georgia per saccheggiarla, e che alla fine usarono per rifugiarsi in Georgia contro gli imperi che li stringevano da ogni lato: musulmani, bizantini e russi.



Si sa che gli «ebrei» finiscono per affezionarsi ai Paesi che saccheggiano. Forse molti sono tornati nella loro vera patria (casa, dolce casa), e l’hanno armata fino ai denti per prendersi l’antica vendetta che covano contro Mosca.



Si sa che gli «ebrei» - insomma i khazari - non dimenticano mai niente, e non perdonano mai niente.


Di Maurizio Blondet, www.effedieffe.com

sabato 16 agosto 2008

I Karen tengono.

E' fallito un nuovo tentativo di conquistare la roccaforte Karen di Boe Way Hta da parte delle truppe birmane. L'assalto doveva iniziare con un attacco sferrato da uomini della milizia collaborazionista del DKBA (Democratic Karen Buddhist Army), spesso utilizzati dai birmani come apripista nelle operazioni contro la resistenza patriottica.


Ma proprio diversi miliziani del DKBA hanno fatto fallire l'aggressione, consegnandosi al  201° battaglione Karen pochi minuti prima dell'attacco.  Non sappiamo ancora se questi uomini abbiano disertato per paura dello scontro oppure perché sinceramente convinti che la loro collaborazione con le truppe di occupazione fosse una scelta disonorevole” ha commentato un ufficiale Karen raggiunto  telefonicamente in una postazione lungo il confine birmano-thailandese. “Chiariremo al più presto la loro posizione” Da diverse settimane i dintorni di Boe Way Hta sono teatro di scontri tra Karen National Liberation Army e truppe birmane.


Le abbondanti piogge della stagione monsonica hanno finora impedito un assalto massiccio alla roccaforte, ma le prossime settimane potrebbero rivelarsi decisive per il destino di questa posizione, che ospita la prima clinica che venne aperta da Popoli in territorio Karen sette anni fa.



Da: www.comunitapopoli.org

martedì 12 agosto 2008

«La Russia vada avanti, adesso deve cadere Tbilisi».

In merito alla crisi georgiana, il quotidiano "Il Giornale" riporta una interessante intervista al leader del movimento eurasista Alexander Dugin.



Chiede «la conquista di Tbilisi», mette il presidente georgiano Saakashvili di fronte a due opzioni: «O si consegna ai russi per farsi processare o deve morire». Alexander Dugin è il leader del movimento Eurasia, uno dei gruppi che sostiene la politica di ritrovato orgoglio nazionalistico. Conosce bene Putin, oggi primo ministro, che ascolta volentieri i suoi consigli. Dugin incarna, anche fisicamente, il prototipo dell’intellettuale russo. È alto, magro, ha gli occhi azzurri e si è fatto crescere la barba lunga, alla Solgenitsin. Porta sempre un voluminoso revolver, che esibisce alla cinta. La settimana scorsa era in Ossezia del Sud e oggi è in stretto contatto con i leader della regione secessionista. Su quel conflitto ha idee chiarissime (e bellicose), come dimostra in questa intervista concessa al Giornale.

La Russia non sta esagerando nell’Ossezia del Sud?

«Niente affatto, dovevamo intervenire, perché l’esercito georgiano ha aperto il fuoco sui nostri caschi blu, ma soprattutto perché conduce una politica di genocidio verso gli osseti. Hanno bombardato i civili, provocando almeno duemila morti e trentamila profughi, hanno fatto pulizia etnica nei villaggi. Non potevamo rimanere indifferenti».

Ma ora i georgiani si stanno ritirando, non basta?

«Assolutamente no. È stato il presidente della Georgia a cominciare questa crisi. È un nuovo Hitler, perché ha attaccato popolazioni innocenti e non armate. Era nostro dovere fermarlo per non ripetere gli errori della storia. Non c’è che una soluzione: conquistare Tbilisi e riportarla sotto il nostro controllo».

Eppure Saakashvili è stato eletto democraticamente...

«Guida un regime criminale, paragonabile ad Al Qaida o alla Germania nazista. Era da decenni che non si assisteva a un genocidio di queste dimensioni. Di fronte a sé ha due opzioni: o si consegna ai russi e accetta di farsi processare a Mosca oppure deve morire».

Eppure anche i russi sono intervenuti in Cecenia e non certo con i guanti. Lui no e voi sì?

«I massacri contro i civili in Ossezia del Sud sono documentati, mentre il nostro intervento in Cecenia era mirato contro i terroristi, non contro la popolazione civile. Qui i georgiani vogliono annientare un popolo».

Ma ora il conflitto rischia di allargarsi. Dopo la Georgia toccherà all’Ucraina?

«Sì, perché il governo ucraino si sta comportando allo stesso modo di quello georgiano. Ha riabilitato i nazisti ucraini, perseguita i russi ortodossi e appoggia Tbilisi nel genocidio nell’Ossezia del Sud. Ha addirittura mandato lì dei soldati, mentre al fianco degli osseti del sud ci sono volontari ucraini. Così non si può andare avanti».

Dunque guerra anche in Ucraina?

«La situazione lì è molto seria e la crisi sta per esplodere. Ci sono due popoli con due opzioni geopolitiche, due visioni del futuro. Da una parte i russofoni che hanno come riferimento il Cremlino, la religione ortodossa, l’Eurasia. Dall’altra gli ucraini che guardano agli Stati Uniti, all’Occidente, alla Nato. I primi stanno con gli osseti, i secondi con i georgiani. Come può il Paese rimanere unito? Le divisioni in Ucraina sono gravi, profonde, irreparabili».

Ma questo rischia di destabilizzare tutta la regione, non è preoccupato?

«Ribadisco non siamo stati noi ad iniziare questo processo. Certo, che sono preoccupato, ma ad essere aggrediti sono i russi e dobbiamo difendere i nostri diritti, a cominciare da quelli umani».

Che lei sappia, il Cremlino condivide le sue opinioni?

«Io parlo per me, ma credo che in questo momento un’ampia maggioranza dei poteri russi la pensi allo stesso modo».



Da: "Il Giornale".

La guerra in Ossezia del Sud.

Circa la situazione del conflitto in Ossezia del Sud, riportiamo questa analisi di Gabriele Adinolfi, apparsa su "Noreporter".





I coinvolgimenti mondiali; le cause; la posta.



La guerra che vede contrapposte Russia e Georgia in Ossezia del Sud può anche degenerare. Lo può perché sono in gioco gli interessi strategici di Russia e buona parte d'Europa da un lato, di Usa e Israele dall'altro. Lo può perché la crisi internazionale è tale che una possibile via d'uscita, almeno da parte americana, può essere individuata proprio in un conflitto mondiale.




Le guerre mondiali iniziano d'estate. La Grande Guerra scoppiò il 3 agosto, il Secondo Conflitto Mondiale fu dichiarato da Francia e Inghilterra alla Germania il 3 settembre.


Impressionanti sono le analogie con il casus belli dell'epoca. Danzica, città tedesca a statuto speciale, inserita in un territorio artificialmente assegnato alla Polonia con il Trattato di Versailles, non faceva che subire vessazioni e violenze. I soldati polacchi assassinavano, torturavano, mutilavano i civili tedeschi. La Germania cercò un qualsiasi accordo per salvare i Tedeschi in balìa dei pazzi genocidi. La Francia e l'Inghilterra colsero invece l'occasione per aizzare ulteriormente i polacchi. Volevano la guerra; del resto il Council of Foreign Relations, la branchia americana della britannica RIIA, ossia il vero e proprio governo privato della politica estera americana degli ultimi sette decenni e mezzo, si era costituito nel 1933 con lo scopo dichiarato di preparare la guerra alla Germania. Dopo l'ennesimo ultimatum disatteso, il 1 settembre 1939 Berlino intervenne a salvare Danzica; con sorprendente ipocrisia Parigi e Londra ignorarono le cause che avevano indotto il governo tedesco a intervenire e parlarono di “aggressione”, dichiararono la guerra alla Germania con la scusa di voler salvaguardare l'integrità territoriale polacca, salvo poi evitare di reagire all'invasione sovietica della Polonia dell'est, che oltretutto era, essa sì, etnicamente polacca. Da quel giorno in poi rifiutarono categoricamente qualsiasi trattativa di pace, anche le più favorevoli: volevano la guerra, l'avevano provocata e aspettavano soltanto che si concludesse con tutta la distruzione che avrebbe comportato e che i signori della pace avevano disegnato a tavolino.



Corsi e ricorsi



Corsi e ricorsi: da quando la situazione internazionale si è mossa rendendo gli interessi energetici ed economici europei – specialmente tedeschi, ma anche italiani – abbastanza complementari a quelli russi, i guerrafondai (nello specifico israeliani e americani) hanno armato secessionisti pazzi e fanatici, come quelli che hanno tenuto in ostaggio la scuola elementare a Beslan (Ossezia del nord) macellando bambini e genitori. Hanno creato un cuneo antieruopeo e antirusso di targa islamica (Kosovo, Bosnia, Cecenia) e hanno fatto infuriare il conflitto nella zona della Georgia.



Ostentando disarmante familiarità con la menzogna, i portavoce dei guerrafondai, come l'inossidabile Miss Rice, attribuiscono la responsabilità dell'accaduto alla Russia e tacciono quanto è avvenuto in queste settimane: attacchi alla Russia dalla Georgia con droni israeliani, bombardamenti dell'Ossezia del sud (la regione russa sottomessa alla Georgia: altra analogia con Danzica). L'8 agosto, mentre il mondo mentiva a se stesso celebrando le Olimpiadi della vergogna, i Georgiani macellavano con l'artiglieria un ospedale della capitale sud/osseta facendo numerose vittime tra malati e civili. Era il momento culminante di un'operazione aggressiva compiuta da Tbilisi con il sostegno e il suggerimento dei suoi alleati. Tbilisi si attende dai suoi protettori qualche cosa di più, visto che chiede agli Usa d'intervenire militarmente contro la Russia.



Perché la situazione precipita



Perché la situazione sta precipitando? Le ragioni sono innumerevoli; vanno ricercate innanzitutto nella continua perdita di terreno dell'egemonia americana, minacciata dalla crescita asiatica, dalla rinascita russa e dalla forza dell'euro. Per provare a salvaguardarla la Casa Bianca ha scatenato una serie di guerre preventive, inaugurando la serie nove anni fa contro Belgrado, ma i risultati non sono stati entusiasmanti. Peggio: gli Usa hanno addirittura perso il sostegno dell'Arabia Saudita che non solo è diventata una buona collaboratrice del Cremlino (vedi l'ultimo Orientamenti & Ricerca) ma ha frenato il sostegno islamico al cuneo immaginato in Europa dal partito atlantico, al punto che ben pochi paesi musulmani hanno riconosciuto la narco/repubblica del Kosovo. La politica di ricomposizione putiniana ha poi permesso a Mosca di non perdere, anzi di recuperare le influenze nell'Asia Centrale verso la zona chiave identificata dal santone della politica americana, il navigato Brzezinski. Qui la Russia ha finito con il coinvolgere strettamente gli interessi tedeschi tanto che all'ultimo vertice dei Paesi di Shanghai la Germania è stata presente mentre la Cina (che è più propensa a schierarsi fattivamente con Washington che non con Mosca) lo disertava. Intanto gli accordi energetici ad ovest sono sempre più stretti. Persino l'Italia parla oggi ufficialmente di una partenrship stretta con la Russia, cosa inimmaginabile solo pochi mesi orsono. E non è tutto: l'accordo promosso da Berlusconi con Putin, lo stesso accordo che due anni fa gli era costata la rielezione sventata da sospetto broglio, verte sulla costruzione del gasdotto South Stream che rende l'Europa indipendente dal monopolio atlantista. Tale gasdotto è in progetto e sembra aver vinto la concorrenza di quello di nome Nabucco, ideato da Israeliani e Americani che punta, al contrario, a staccare l'Europa dalla Russia e a mantenerla sottomessa. Ovviamente la propaganda che ci viene proposta afferma il contrario, e cioè che se quest'ultimo venisse edificato noi saremmo più indipendenti! Di certo è plausibile che i giornalisti, imboccati, neanche sappiano di cosa parlano; chiunque abbia un minimo di conoscenza in materia se afferma qualcosa del genere non solo è bugiardo ma è ridicolo. Il Nabucco in ogni caso passerebbe per la Georgia.



Guerra o pace



Non si tratta di tifare né d'identificarsi. Non si può neppur prender partito sulla base delle analogie storiche le quali – se ci riferiamo non già ai sistemi e alle idee ma ai comportamenti esteri – sono comunque sorprendenti: Usa e Israele hanno assunto i ruoli di Francia e Inghilterra, la Russia è nelle condizioni della Germania e la Cina veste i panni dell'Urss. Non è questo che conta, non lo è neppure la scelta dei modelli e degli spazi di libertà che, se non ci si lascia ipnotizzare dai luoghi comuni, sono comunque assai maggiori in Russia che in Usa o a Tel Aviv. Neppur si può parlare di giustizia ché, come ben noto, quando la situazione prende fuoco, raramente è da una parte sola.



Si deve allora ragionare in termine di interessi nazionali ed europei. Questi sono evidenti: se proprio la guerra dovesse infuriare bisogna augurarsi che la vincano i Russi. Poiché però la guerra serve soprattutto se non esclusivamente a permettere alla potenza declinante di mettere in discussione e in pericolo la nostra ricrescita dopo oltre sette decenni di sottomissione, quello che c'è da augurarsi è che si riesca ad imporre la pace; una pace che permetta a Mosca di garantire lo spazio vitale e l'incolumità agli osseti, da troppo tempo carne di macello designata da chi gioca a Risiko e a Monopoli mentre la gente muore. E che puntualmente si scandalizza e fa la morale a buon mercato facendo passare per brutale e malvagio chiunque ne ostacoli i piani di democraticissimo saccheggio.

mercoledì 6 agosto 2008

Hiroshima.


63 anni fa un bombardiere americano sgancia nei cieli sopra il Giappone la bomba atomica, veniva rasa al suolo Hiroshima. Fu solo l'inizio...

martedì 5 agosto 2008

Se lo abbandoni sei te il bastardo!

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Leonardo Varasano uscito sul "Giornale dell'Umbria" il 28 Luglio 2008.


La disumanità di chi abbandona gli animali.


Un cagnolino meticcio, solitario e un po’ smarrito - si chiama Rischio e appartiene al figlio di Oliviero Toscani -, campeggia su uno sfondo di catrame, sovrastato da una domanda pertinente ed efficace: “Tu di che razza sei? Umana o disumana?”; poi di seguito un invito accorato (“Lasciami da un parente, lasciami da un amico, lasciami in una pensione, lasciami in un canile, ma non lasciarmi per strada”) e un monito severo (“Pensaci. Abbandonare un animale è un reato penale”). Con questo manifesto, apparso sulla stampa e lungo le principali strade italiane, il ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali cerca di contrastare il randagismo e l’abbandono dei cani.


Un simile appello - inserito in una più vasta campagna realizzata da Governo ed enti locali - è tristemente necessario. Nel nostro Paese, i cani randagi sono circa 600 mila: per un terzo ospitati in canili, spesso stracolmi e a rischio asfissia; per due terzi abbandonati al proprio destino, costretti a vagare alimentando rischi sanitari ed incidenti di vario tipo. “Un amico non si abbandona mai”, ricorda lo “Sportello a 4 zampe” della Provincia di Perugia. Eppure, ogni anno, i cani abbandonati in Italia - e non consola che negli Usa, per via della incipiente crisi economica, la situazione sia peggiore - sono 150 mila: uno ogni tre minuti, 20 ogni ora, 400 ogni giorno. La pratica di questo gesto ignobile si concentra, com’è noto, in estate. Il richiamo delle vacanze gioca brutti scherzi, causa smemoratezza ed ingratitudine. Auspicando la creazione, a Roma, di un cimitero per animali, Lino Banfi ha proposto che all’ingresso della struttura venga affisso un significativo quesito: “Vi abbiamo amato quanto voi avete amato noi?”. La domanda è appropriata. Vittima di un egoismo cieco, chi abbandona un cane (o un altro animale), oltre a compiere un gesto irresponsabile, dimentica l’affetto e i benefici incondizionatamente ricevuti. I nostri piccoli amici ci sostengono, ci accompagnano, ci sopportano anche quando siamo insopportabili e nessuno vorrebbe starci vicino; annusano il nostro umore, fiutano la nostra gioia e il nostro sconforto, ci ascoltano anche quando vorrebbero farne a meno, ci parlano con gli occhi; alleviano il nostro dolore, stimolano il nostro fisico (si pensi alla pet-therapy, l’attività del “terapeuta animale” nei confronti del “paziente uomo”); ridimensionano le tensioni casalinghe, smussano le liti. 


I cani - da noi, secondo l’Eurispes, ce ne sono circa 7 milioni, 500 mila in meno rispetto ai gatti - non sono giocattoli con cui trastullarsi ad orologeria per poi disfarsene a piacimento. Senza degenerare in esagerazioni maniacali - spesso figlie di un’inconsapevole misantropia -, ogni animale merita rispetto, attenzioni e cure. Un cane ben tenuto diventa facilmente l’alter ego del padrone, fin quasi alla simbiosi. “Era un cucciolo gracile, spaventato e affamato che le prime settimane, ogni volta che gli mettevo davanti la pappa, se la faceva addosso per l’emozione. Ora è un lupo nero dolcissimo, diventato il vero padrone della nostra casa”: così, con trasporto, Pietro Calabrese ha parlato di Pippo, il suo “meraviglioso bastardone”, sulle colonne di Magazine. Franco Zeffirelli, come ha raccontato al Corriere della Sera, ha invece sei cagnoline, tre delle quali raccolte in Romania, dove pare ci sia un eccidio di animali domestici.


Piaccia o meno, quello che è per antonomasia il migliore amico dell’uomo ha anche un ruolo sociale. Attorno a “fido” si dibatte (è recente la proposta di incentivi fiscali per mandare i cani in pensione quando si va in vacanza, mentre è annosa la disputa sull’accesso degli animali ai luoghi pubblici) e si legifera. Il legame con il proprio cane resiste perfino alle burrasche matrimoniali, tanto che per “fido” si lotta anche davanti al giudice: ha fatto scalpore il caso della coppia in crisi che ha ottenuto dal Tribunale di Cremona l’affido congiunto - attraverso una scrittura privata - di un boxer e di un meticcio aspramente contesi.


Il poeta Nazim Hikmet ricorda Satana, il suo fedele cane, così: “Era come l’uomo/molti animali son come l’uomo/perché hanno la bontà dell’uomo/inchinava il suo collo forte davanti all’amicizia/la sua libertà era racchiusa/nelle zanne e nelle zampe/e la sua cortesia/nella grande coda pelosa/Ogni tanto avevamo voglia di vederci/mi parlava dei grandi problemi/della fame della sazietà dell’amore”. Sia chiaro, anche se certi comportamenti di bipedi insensati tendono a farcelo dimenticare: “come” non significa “uguale”. All’animale-uomo, pur con le sue miserie, spetta - forse - la priorità.

sabato 2 agosto 2008

Strage di Bologna.

Nel ventottesimo anniversario della strage di Bologna, uno dei momenti più tragici della storia italiana del dopoguerra, decine e decine di vittime attendono ancora giustizia, e un innocente è tuttora prigioniero. Riportiamo l'articolo di Gabriele Adinolfi apparso su "Il Fondo" di Miro Renzaglia.







LA STRAGE NON E’ FASCISTA. CIAVARDINI E’ INNOCENTE


Anche ventotto anni fa capitava di sabato. Ero in vacanza per pochi giorni con un amico. Di soldi all’epoca (all’epoca?) non se ne vedevano molti; sicché dormivamo nei prati vicino alla macchina e ci andavamo a lavare di straforo nei bagni dei camping la mattina dopo. Quel mattino mi svegliai con una sensazione pesante, di un qualcosa che incombe. E in effetti la prima sorpresa non fu divertente. A San Remo, mentre dormivamo sul prato proprio accanto all’auto parcheggiata, avevano forzato il baule e ci avevano ripuliti di tutto, ivi compresi gli scarpini da calcio nuovi ed intonsi che mi portavo dietro perché ogni estate, in un modo o nell’altro, si riusciva a metter su una squadretta per un campionato di due o tre giorni. Quel sabato non sapevo ancora, però, che le vicissitudini mi avrebbero impedito di giocare tornei e indotto ad abbandonare la mia squadra, la SS Falange, che con il mio vecchio compagno di liceo avevo istituito e che vantava buoni risultati per i campetti romani, ivi compresi un paio di tornei prestigiosi vinti, in incontri non davvero di basso livello perché vi partecipavano giocatori di categoria e persino un ex terzino del Taranto e il romanista Scarnecchia (sempre da avversari però). Malgrado la brutta sorpresa la sensazione angosciosa permaneva, sentivo come una minaccia fatale. Pensai a mia madre che era in volo dalla Tunisia a Roma, di ritorno da un meeting di lavoro. Temetti di avere avuto la premonizione di una sciagura aerea. Ma verso l’ora di pranzo riuscii a telefonarle a casa. Sono stupido pensai. Quindi mangiammo (la solita focaccia ligure con un sorso di spuma) e ascoltammo la radio in macchina, visto che l’apparecchio estraibile aveva dormito in sacco a pelo con noi ed era quindi superstite al furto. Seguivamo le Olimpiadi di Mosca, in cui, anche per via del boicottaggio americano, i nostri atleti si coprivano di onori. E fu così che compresi che quella premonizione si riferiva al mio futuro. Notizia di decine di morti veniva dalla stazione di Bologna dove, ancora si diceva, era esplosa una caldaia. Pensai subito: è terrorismo, è terrorismo di stato e se la prenderanno con noi.


Quel massacro ebbe tante conseguenze: in primis il passaggio rapidissimo allo stato d’emergenza, già di fatto pronto dal dicembre precedente, e l’avvio del consociativismo trimalcionico. L’occasione fu colta al volo per centuplicare l’azione disgregante sulle opposizioni e particolarmente su quelle più facilmente demonizzabili, perché espulse a priori dalla comunità “democratica”: i fascisti.


Quel massacro portò allo scompaginamento del nostro gruppo, tutto sommato giovanile assai, con diciottenni reclusi per quattro anni e mezzo e a volte gettati in pasto a guerre carcerarie tra mafie prima di venire assolti e senza scuse. Portò alla disperazione e all’esasperazione. Gonfiò le file dello spontaneismo armato e segnò una cesura storica. Chiudeva il ciclo variegato quanto si vuole del neofascismo per aprire la lunga stagione dei trasformismi, un po’ integralisti, un po’ ecologici, un po’ neobarkeleyani, che avrebbero oscurato e appesantito l’area dei decenni successivi. Segnò molte vite: esili, ergastoli, morti. E finì col creare una doppia e grottesca reazione dei giovani “dannati”. Per rifiutare l’accusa infamante di stragisti essi caddero un po’ troppo spesso nella tentazione di accettare il falso e terribile dogma comunista delle stragi fasciste e attribuirono con disinvoltura lo stragismo alla generazione che li aveva preceduti affrettandosi a prenderne le distanze. Eppure questo sforzo comprensibile ma non lodevole non li mondò dall’infamia. Tanto che l’unica strage che abbia come colpevoli ufficiali persone che, per caso o per vocazione, appartengono al mondo della destra radicale, è proprio quella di Bologna e tra i colpevoli - di comodo! - vede proprio chi tutto fece, ivi compreso il “ricotruzionismo storico”, per togliersi di dosso quell’accusa. Ma la vita non ha segreti: è quando si teme particolarmente qualcosa che la si suscita ed è quando ci si scalmana e si scalpita per evitarla che la si produce.


Che la strage di Bologna non sia fascista non è un segreto per nessuno, così come non lo è il fatto che alcuni vogliono che resti comunque fascista. Sulle cause e sugli autori si è detto di tutto e il contrario di tutto. Io, che ho la cattiva abitudine di leggere dietro le righe e di capire dove certi vanno a parare, sono contrario a ricostruzioni di comodo che ritengo del tutto inutili per Luigi Ciavardini e per i due che sono stati condannati con lui, ma sono a piede libero. Ho ben più che il sospetto che esse servano solo a rafforzare un partito politico trasversale e, magari, a favorire qualche carriera. Nei limiti del possibile mi sono fatto un’idea di quel massacro, ma è chiaro che non può essere certa né esaustiva. Quel che però non si capisce (no?) è come mai non s’interroghino in proposito quegli ufficiali dei servizi segreti già condannati per le costruzioni di false piste e non si domandi loro come fecero ad usare, nelle loro trappole infami, lo stesso esplosivo di Bologna prima che la perizia stabilisse qual era. Né come mai la prima pista fu confezionata tre settimane prima della strage.


Sembra poi (sembra?) che nessuno voglia mettere davvero il dito sulla piaga e ripetere, come fece a suo tempo l’onorevole Formica, capogruppo craxiano alla Camera, che il nostro Paese (non più Nazione) non ha sovranità, che per una clausola semisegreta del tempo del gran voltafaccia sabaudo/badogliano ha accettato di essere luogo di occupazione totale ma discreta. Così ci potrebbero parlare non già delle troppo facili e poco impegnative azioni libiche e palestinesi compiute nell’espressione geografica di cui parlò Metternich, ma delle più articolate azioni sovietiche, ceche, bulgare, francesi, tedesche e soprattutto dei due principali soggetti della strategia della destabilizzazione: Inghilterra e Israele. E si potrebbe concludere che la naturale politica mediterranea dell’Italia causò una serie di reazioni belliche non convenzionali e, soprattutto, da parte degli “alleati”.


Tutto questo avverrà, forse, tra una cinquantina d’anni. Prima magari passerà un’altra verità, tarocca, che servirà a coprire quella vera capovolgendola; ed è per questo che sono molto restio e sospettoso nei confronti di chi oggi presenta rivelazioni sconvolgenti. Intanto un innocente è prigioniero; non solo è bollato di un crimine infame ma è recluso. Contro di lui non c’erano neanche gli indizi per rinviarlo a procedimento ma è intervenuta la ragion di Stato (esiste uno Stato in Italia?) e, benché chiunque, da Cossiga ad Andreotti, sappia con assoluta certezza che è innocente nessuno fa alcunché per liberarlo. E questa, tra tutte le vergogne e tra tutte le atrocità che stanno dietro Bologna è la più vergognosa atrocità, è la vergogna più atroce.


Gabriele Adinolfi




Da:
Il Fondo