venerdì 30 gennaio 2009

IRLANDA UNA E LIBERA [In ricordo delle vittime del Bloody Sunday]

A trentasette anni di distanza da quella maledetta domenica di sangue irlandese, inseriamo l'articolo uscito l'anno scorso sul Numero 0, Anno 0 di Controvento - Periodico interno d'informazione dell'Associazione Culturale Tyr Perugia -.



Il 30 gennaio 1972 un plotone di paracadutisti inglesi del primo reggimento spara su una folla di pacifici manifestanti a Derry: sono 13 i morti e molti i feriti di quella domenica di sangue. La manifestazione fu indetta per protestare contro la sostanziale mancanza di diritti civili, causata anche da pesantissime norme di polizia, come la reclusione preventiva senza termini temporali per il processo per chi era sospettato di essere un militante repubblicano.

Ogni anno questa data viene ricordata a Derry con una marcia di commemorazione alla quale, oltre a migliaia di irlandesi, partecipano rappresentanze da varie nazioni europee e da tutto il mondo. La strage, che viene ricordata come “Bloody Sunday”, non ha avuto colpevoli ufficiali, poiché fu premiata la tesi secondo la quale i militari avrebbero risposto al “fuoco dei dimostranti”, ma è invece acclarato che questi ultimi non erano armati. Ancora una volta nella travagliata storia Irlandese ci si trovò di fronte ad una distorsione della realtà, atta a nascondere le tragiche responsabilità del paese di sua maestà durante l'occupazione irlandese. Lo stesso paese che è a tutt'oggi “esportatore di democrazia” alla ruota dei loro degni cugini d'oltreoceano.

La tragedia del “Bloody Sunday”, segnò un ulteriore punto di svolta nella tragica storia della questione irlandese, consegnò infatti molti giovani patrioti repubblicani ad una scelta drammatica quanto inevitabile: rispondere con le armi, come i loro padri prima di loro, a chi, con le armi, negava loro la libertà e cercava lo sradicamento dell'identità del loro popolo.



Trentasei anni fa morirono tredici innocenti e non furono né le prime né le ultime vittime dell'oppressione di sua maestà a spese del popolo irlandese, un popolo fiero, che con sangue e sudore lotta da decenni per la libertà nella propria terra, per le proprie tradizioni e per la propria cultura.



Di tempo ne è passato; oggi la situazione nell’Irlanda del Nord è apparentemente normalizzata. Dopo più di trentotto anni di occupazione militare, il 31 luglio 2007 è stato formalizzato il ritiro delle truppe militari britanniche nelle sei contee (Aontroim, Ard Mhacha, An Dún, Fear Manach, Tír Eoghain, Doire) ingiustamente occupate.



Ora, a seguito delle elezioni svoltesi l’8 marzo 2007, a Belfast si è instaurato un nuovo governo di coalizione, composto dagli ex-rivali Ian Paisley (Democratic Unionist Party, protestante), e Martin Mc Guinness (Sinn Fein, “Solo noi” in gaelico, cattolico ed ex-militante dell’ Irish Republican Army).

Ma, chi minimamente conosce la situazione NordIrlandese, sa bene che è una pacificazione di facciata, realizzata all'insegna di un falso e ipocrita buonismo foraggiato e incoraggiato da chi preme solo per il mantenimento dello status quo, alla faccia di chi, in anni di dura lotta, è passato attraverso ingiustizie sociali, repressione poliziesca, ingiusti processi e carcerazioni, fino al sacrificio della Vita.



Ma nelle Sei Contee e in tutta l'Irlanda c’è ancora chi brandisce con orgoglio il vessillo della propria identià, in fede a quello che da sempre fu il motto dell’ I.R.A, Tiochfaidh àr là, (in gaelico, il nostro giorno verrà!). E' il popolo irlandese, quello vero, quello puro, quello ribelle, che con una tenacia d’altri tempi ancora lotta per la propria terra, per la propria gente e per la propria autodeterminazione; quello che non si è scordato di chi, con il sangue, ha lottato per vedere l’isola verde una e unita, senza padroni stranieri: coloro che non hanno mai dimenticato il fulgido esempio di Bobby Sands, che dichiarò, poco prima della morte dopo 61 giorni di sciopero della fame nella prigione di Long Kesh: “Non mi è difficile morire, perché morirò per i miei amici”.



Fiduciosi che ancora oggi questi valori siano vivi e radicati, non possiamo che rimanere al loro fianco.





Associazione Culturale Tyr Perugia


giovedì 29 gennaio 2009

Arrestato l'inventore dei «T-red».

Nei guai anche 63 comandanti di polizia municipale di tutta Italia.

L'uomo aveva progettato e distribuito i «semafori intelligenti», altri 109 gli indagati.



MILANO - Stefano Arrighetti, il progettista dei «T-Red», i sistemi di rilevazione automatica delle infrazioni commesse dagli automobilisti agli incroci semaforici, è stato arrestato dai carabinieri di San Bonifacio (Verona) in collaborazione con i militari della compagnia di Seregno (Milano) nell'ambito dell'inchiesta della procura di Verona sui cosiddetti «semafori intelligenti» che vede indagate altre 108 persone.



L'ACCUSA - Arrighetti, 45 anni di Seregno, amministratore unico della società Kria di Desio (Milano), è accusato di frode nelle pubbliche forniture. Secondo quanto si è appreso, Arrighetti avrebbe omologato solo la telecamera e non avrebbe chiesto e quindi mai ottenuto dal Ministero dei trasporti l'omologazione dell'hardware dell'apparecchiatura che fa funzionare l'intero sistema.



GLI INDAGATI - Tra i 109 indagati figurano 63 comandanti di polizia municipale tra cui quello di Perugia e di Mogliano Veneto (Treviso), 39 amministratori pubblici e sette amministratori di società private. Sono invece 80 i comuni del centro-nord Italia al centro dell'indagine nei quali sono state comminate decine di migliaia di contravvenzioni. Il provvedimento restrittivo che ha raggiunto Arrighetti è stato emesso dal gip scaligero Sandro Sperandio su richiesta del pm Valerio Ardito.



IL SEQUESTRO - I carabinieri di San Bonifacio hanno provveduto al sequestro preventivo dei T-red in 64 comuni di 24 province, ma il numero crescerà nei prossimi giorni. Le indagini, iniziate nel dicembre 2007, erano state avviate per accertare la conformità alla normativa vigente del sistema automatico di rilevamento delle infrazioni alla luce semaforica rossa, il T-red appunto. installato presso gli incroci del Veronese. A gennaio 2008, i carabinieri di Tregnago, Illasi e Colognola ai Colli, incaricati delle indagini, denunciarono un amministratore comunale, due comandanti di polizia locale e gli amministratori unici di Ci.ti.esse di Rovellasca, Maggioli di Santarcangelo di Romagna, Traffic Tecnology di Marostica e Open Software di Mirano per truffa aggravata e falsità materiale. A giugno le indagini furono estese anche ad altri 64 comuni dopo aver accertato che il T-red era difforme da quello omologato dal Ministero dei Trasporti di Roma dove Arrighetti aveva chiesto ed ottenuto l'omologazione solo per le telecamere dei T-red e non per le apparecchiature (come i relè, le spire ed altro chiamato tecnicamente hardware) contenute in un armadio di vetroresina posto nelle vicinanze delle telecamere..



Da: www.corriere.it

“Popoli” in lotta!

“Popoli” in lotta!

Di Anna Le Rose per Novopress


Nella palude che tenta di soffocarci esistono ancora personalità e soprattutto persone capaci di lottare e di tramutare le parole in Azione contro i mostri del Mondialismo e della Globalizzazione. Questo è l’esempio della Comunità Solidarista Popoli, che attraverso le parole del suo infaticabile presidente, Franco Nerozzi, ci ha raccontato la sua storia e i suoi progetti.



Prima di partire con la nostra chiacchierata, voglio ringraziarti Franco per aver concesso a Novopress questo spazio. Inizio subito chiedendoti, soprattutto per chi ancora non conoscesse questa realtà, come, quando, da quali presupposti e con che finalità nasce la Comunità Solidarista Popoli…



Sono io a ringraziarvi per l’opportunità che ci date. Far conoscere “Popoli” è per noi di vitale importanza. Per venire alla tua domanda: la nostra Comunità nasce da un gruppo di vecchi (anzi devo dire vecchissimi) amici che un giorno decidono di passare dalle chiacchiere e dalle sterili invettive (contro la società malata di egoismo, contro il mondialismo e i suoi servitori, contro l’edonismo imperante in un sistema votato alla religione del denaro e della futilità) ai fatti. Questi amici, in breve, pensano che potrebbe avere più senso mettersi fisicamente a disposizione di chi, senza magari aver letto nemmeno un testo dotto in vita sua, incarna di fatto la lotta al sistema mondialista.



Quali sono attualmente i Paesi in cui Popoli porta avanti la sua missione e perché avete scelto proprio questi?



Al momento siamo attivi in prima persona soltanto in Birmania, nello stato Karen, mentre abbiamo un progetto ancora in fase di ideazione in Afghanistan (Valle del Panjshir). Poi abbiamo iniziato dei sopralluoghi in Libano, per iniziare una attività a favore dei profughi palestinesi nel sud del Paese. Per finire, stiamo raccogliendo fondi da destinare alla popolazione di Gaza, vittima dei bombardamenti sionisti.

Abbiamo scelto queste realtà perché tra i principi ispiratori della nostra azione c’è quello della difesa dell’Identità. In Birmania i Karen lottano per mantenere la propria specificità a fronte del tentativo di sterminio condotto nei loro confronti dal regime di Rangoon. Nel Panjshir vivono la famiglia e i mujaheddin del Comandante Massoud, che si sono sacrificati per la libertà dell’Afghanistan, prima contro l’imperialismo sovietico, poi contro il tentativo Talebano di imporre una visione dell’Islam che non è quella tradizionale afgana. Opponendosi ai Talebani, va ricordato che Massoud bloccava anche i progetti del Dipartimento di Stato USA, che puntava sulla “normalizzazione” del Paese da parte degli uomini del Mullah Omar, allo scopo di consegnare alle multinazionali statunitensi importanti contratti legati allo sfruttamento delle risorse energetiche dell’area. I più stretti collaboratori del Comandante sostengono che ad armare la mano degli arabi che hanno assassinato Massoud siano stati i servizi americani, poiché avevano ricevuto da Massoud la dichiarazione della sua totale opposizione ad un intervento statunitense in Afghanistan. Per quanto riguarda i progetti in Libano e Palestina possiamo dire che soltanto chi è al servizio degli interessi sionisti può negare che la lotta per l’autodeterminazione dei Palestinesi sia sacrosanta. E che le vere vittime della questione mediorientale siano le popolazioni che vedono negato il diritto a vivere dignitosamente sulla loro terra.



Le missioni della Comunità sono tutt’altro che facili. Quali sono le difficoltà maggiori che s’incontrano?



Le missioni in territorio Karen presentano molteplici difficoltà. La prima è senza dubbio quella relativa alla sicurezza. I volontari che entrano a Kawthoolei (lo stato Karen) lo fanno clandestinamente. Sono considerati dalle autorità birmane dei “terroristi”, poiché agiscono in zone in cui è attiva la resistenza. Sono così esposti ai pericoli che esistono in una regione in guerra, in cui sono frequenti gli attacchi improvvisi da parte delle truppe governative contro i villaggi Karen. Ci si deve muovere sempre con la protezione dei guerriglieri, che cercano di garantire la sicurezza, almeno temporanea, durante le visite dei nostri medici alla popolazione dei villaggi e ai profughi nascosti nella giungla. Ci sono poi aspetti che definirei “minori”, riguardanti una certa scomodità della vita oltre confine, a cui non siamo molto abituati, noi “animali borghesi” che nelle nostre case abbiamo tutto a disposizione. Ma l’aspetto forse più difficile della nostra attività è quello relativo alla sostenibilità dei progetti che intraprendiamo. Mi spiego: dal 2001 i nostri progetti (costruzione e gestione di cliniche e di scuole, training al personale medico, costruzione di villaggi agricoli per i profughi che rientrano in Patria) proseguono senza sosta. Da questo punto di vista siamo molto soddisfatti, e i Karen ci considerano ormai una presenza indispensabile nel distretto in cui operiamo. Al tempo stesso però, a causa delle offensive birmane, siamo di tanto in tanto costretti a muovere le cliniche e le scuole (di fatto a spostare in aree più sicure farmaci, strumenti, pazienti e insegnanti). Questo potrebbe dare l’idea di una certa precarietà. Di fatto si tratta soltanto di essere flessibili operativamente, veloci nelle decisioni da prendere, e disponibili a seguire i consigli di chi vive quotidianamente in questo stato di guerra.



Viviamo in un mondo sopraffatto da un business apolide, narcomafie in continuo incremento, politiche assassine prive di scrupoli dove a dettare la trama dell’esistenza sono i mostri del Mondialismo e della Globalizzazione. La Comunità ha l’opportunità di osservare da un punto di vista quasi privilegiato gli effetti devastanti di tutto ciò in Paesi dove oltre a quest’aggressione è molto forte la resistenza ad essa. In Italia, come in tutto l’Occidente d’altra parte, esiste invece un’accettazione passiva e forse anche incentivante verso questi mostri. Cosa pensi a tal proposito?



Penso che ci sia un atteggiamento rassegnato di fronte a questa offensiva mondialista che hai ben descritto. Qui da noi si dà per scontato che il mondo sarà questo, e che non ci sia nulla da fare. A molti va bene così, sia chiaro. Andate un po’ a chiedere in giro, soprattutto alle nuove generazioni, quali sono le principali esigenze dell’ uomo globalizzato. Pensate che vi rispondano “la sopravvivenza della nostra cultura” ? Oppure “giustizia sociale” ? O ancora “la difesa delle nostra tradizioni” ? Fatta eccezione per alcuni ambienti che ritengo “sani” intellettualmente e spiritualmente, il resto della società globalizzata pone al primo posto della sua lista della spesa disvalori che ci sono stati imposti dalle volpi del mondialismo. E dobbiamo fare attenzione ad una cosa: proprio in quelle realtà in cui la resistenza al mondialismo è più accesa, l’attacco verrà portato con scientifica efficacia. Il caso più concreto che posso portare è quello che conosciamo in prima persona. La lotta dei Karen non si basa sullo studio di testi di approfondimento politico sull’autodeterminazione dei popoli, o sulla lettura delle opere di Evola. La lotta dei Karen è piuttosto primitiva dal punto di vista politico. E’ una resistenza naturale e spontanea ad una aggressione brutale condotta dal regime militare birmano. Il problema è che chi vuol trarre vantaggi economici dal sangue dei popoli è solitamente qualcuno che ha studiato nelle migliori facoltà del mondo i sistemi per raggiungere questo scopo. Vengono quindi utilizzati tutti gli stratagemmi possibili al fine di eliminare gli ostacoli che incontrano sulla loro strada.

Ecco che allora concetti come “identità” e “tradizione” vanno minati, privati di significato. Al loro posto si introducono parole d’ordine come “benessere”, “democrazia”, “partecipazione”. In pratica, chi sta facendo affari con un regime che garantisce miseria alla sua gente e impedisce qualsiasi confronto democratico e qualsiasi partecipazione, al tempo stesso lavora per indebolire la resistenza spontanea di chi desidera esclusivamente continuare a parlare la propria lingua, seguire le proprie tradizioni, coltivare la propria terra e difenderla dallo stupro delle multinazionali.

Il miraggio di una nuova Birmania, retta dal rassicurante sorriso di Aung San Suu Kyi, protetta dalle grandi democrazie occidentali, sembra tanto uno specchietto per le allodole, utilizzato per favorire l’affermazione di forze politiche birmane che un giorno continueranno a concedere alle multinazionali ciò che già i generali narcotrafficanti garantiscono al momento.

Nei campi profughi Karen inoltre, assistiamo ogni giorno all’emorragia di questo popolo. Organizzazioni occidentali favoriscono l’emigrazione dei giovani verso paesi “ricchi”, prospettando loro una vita in pace, agiata e piena di divertimenti.

I leader Karen sembrano incapaci di contrastare questo flusso migratorio, che porta fatalmente alla morte di ogni speranza di autodeterminazione.

La parte più “resistente” è ovviamente quella militare, quella che fa capo a comandanti come Nerdah Mya: chi è sul campo di battaglia ogni giorno, chi sta a contatto con la popolazione oppressa, chi non è “contaminato” dalle lusinghe e dalle mollezze della vita in esilio, ha ben presente quale sia la via da percorrere. Difendere il territorio, difendere la gente che ci vive, respingere il nemico, ottenere libertà. Infischiarsene di quello che si sta escogitando a Londra o a Washington. Infischiarsene di ciò che accadrà a Rangoon. Per i comandanti militari più lungimiranti, il messaggio da dare è chiaro. I Karen non saranno sudditi ne’ dei Generali, ne’ delle future oligarchie politiche. Mi pare una ottima sintesi del concetto di lotta al mondialismo.



Identità e Tradizione contraddistinguono l’operato di Popoli. Osservando la nostra situazione sembra quasi un’utopia il recupero di tali punti di riferimento, ma forse proprio grazie all’esempio di popoli come quelli a cui la Comunità offre il suo sostegno, possiamo sperare in una riflessione che porti linfa e stimoli alla condizione occidentale. Credi che questo esempio concreto possa essere sprone per le nostre generazioni e coadiuvante di secoli di letteratura “d’area” che, ora più che mai, ha bisogno di essere accompagnata dall’azione?



Spero proprio di si, anche se il contesto in cui viviamo rende difficile la ricezione di questi messaggi. Se viene spacciata per vita reale quella infame paccottiglia di idiozie che esce dai mezzi di comunicazione tutti i giorni, è facile che molti resteranno insensibili di fronte a situazioni in cui è in gioco la vita e la dignità di milioni di persone. Insomma, chi freme e si dispera per le facili lacrime che Maria De Filippi ci propina dal teleschermo non potrà mai sintonizzarsi sull’onda di chi vuol fare dell’azione il naturale sbocco di spinte ideali di un certo livello. Per quanto riguarda “l’area”, va detto che sicuramente quel contesto offre un terreno molto fertile. Abbiamo avuto delle risposte di grande generosità. Giovani che sono partiti con noi e che poi, ed è questa credimi la parte più difficile dell’impegno con “Popoli”, si sono sacrificati per il duro, ma indispensabile lavoro di raccolta fondi e di propaganda. E meno giovani, che hanno ritrovato nel lavoro con la Comunità Solidarista quell’entusiasmo che anni di delusioni politiche avevano soffocato.

Se posso fare anche un appunto però, e credo che sia giusto essere chiari e sinceri proprio con quelli che crediamo amici o fratelli, bisogna dire che un po’ di retorica in meno e un po’ di concretezza in più, porterebbe a risultati straordinari. Riceviamo spesso messaggi di solidarietà che sembrano usciti dalla penna di Starace: e magari a queste ridondanti parole che ricordano il ventennio non fa seguito alcun sostegno “concreto”. I Karen, o i Palestinesi hanno bisogno di mangiare e di curarsi, per sopravvivere e resistere. Gli slogan alla “Credere. Obbedire. Combattere. “ non sono sufficienti.



Negli ultimi giorni ha suscitato interesse il tuo articolo provocatorio “Perché stiamo con Israele”. Raccontaci qualcosa in merito…



Una semplice (anche semplicistica, va ammesso) e immediata reazione ad una dichiarazione di Gasparri che in televisione lanciava un appello affinché si ponesse fine al “massacro dei bambini israeliani”. Direi che con un ispiratore di così grande talento l’articolo poteva già considerarsi fatto.

La cosa più sconcertante è che qualcuno mi ha scritto per dirmi che finalmente avevo messo la testa a posto e riconoscevo le ragioni di Israele. E non scherzava…



Rimanendo sull’argomento, l’Italia come sta accogliendo la campagna di sostegno per la popolazione palestinese della striscia di Gaza?



Risposta immediata da numerosissimi gruppi che si sono attivati, con “Popoli” e con “ Soccorso Sociale” con volantinaggi e raccolte fondi. E’ presto per dire quanto in concreto potremo offrire alla popolazione di Gaza. Ma siamo fiduciosi.



Approfitto di questa occasione per soddisfare una curiosità sulla quale probabilmente molti avranno riflettuto: data la natura della Comunità, ovvero la non appartenenza a quella cerchia di associazioni pubblicamente antifasciste ad esempio, come sono i rapporti con le altre realtà associazionistiche di aiuto umanitario e con le istituzioni?



Mettiamola così: chi ci conosce personalmente e chi vede quello che facciamo ci rispetta al di là delle differenze ideologiche, se di questo ha ancora senso parlare. Le istituzioni hanno per fortuna un approccio tecnico nei nostri confronti: valutano la bontà del progetto sottoposto. E rispondono di conseguenza, anche se (non siamo nati ieri) alcune amministrazioni tendono ad ascoltare con più disponibilità chi è considerato politicamente “vicino” ad esse.

Grandi organizzazioni umanitarie, inequivocabilmente schierate a sinistra, non hanno alcun interesse a mischiarsi con noi. E’ un peccato. In fondo non credo che i profughi Karen, se riusciranno a non morire perché riceveranno le nostre cure, saranno un domani elettori di Berlusconi. Una cosa ci tengo a specificare: “Popoli” non è antifascista, e quindi non è una organizzazione “di destra”.



Progetti futuri della Comunità?



In un blog che degli amici mi hanno segnalato, alcuni zelanti difensori dell’ortodossia mondialista (sedicenti antifascisti che passano le giornate a guardare cosa fanno i “mostri” in camicia nera e a proseguire l’opera di delazione inaugurata dagli sciacalli molti anni fa), ho trovato che “Popoli” starebbe costruendo in Birmania villaggi “etnicamente puri”, una sorta di laboratori in cui preservare la purezza della razza Karen . A parte il fatto che su questo argomento potrebbero chiedere informazioni al partigiano Giorgio Bocca, solitamente non perdo tempo con le chiacchiere postate sui blog da onanisti che si nascondono dietro l’anonimato. Ma questa volta credo che la cosa meriti un minuto. La dice lunga su come venga sempre rovesciata la frittata: il progetto di “Popoli” è quello di continuare a costruire villaggi per dare rifugio e possibilità di rendersi autosufficienti dal punto di vista alimentare alle vittime di una pulizia etnica. Per questi perditempo che sono già diventati ciechi insistendo con certe pratiche di autoerotismo, la nostra è un’ operazione di chiara matrice razzista. I commenti li lascio a voi…



Prima di concludere… C’è un messaggio che vorresti lasciare a chi ci legge? Soprattutto ai giovani che più degli altri hanno la possibilità e il dovere di agire…



Vorrei solo ricordare che da qualche giorno sulla testa del Comandante Karen Nerdah Mya, è stata posta una grossa taglia da parte dei narcotrafficanti che agiscono lungo il confine birmano-thailandese. Lottare onestamente e con dedizione per una causa significa rischio, fatica, privazioni e sacrifici. Chi vive in contesti meno problematici e dichiara di avere certi ideali ha il dovere, come hai giustamente detto tu, di agire. Non importa se lo fa aiutando “Popoli” o altre realtà dell’universo solidaristico che “l’area” ha espresso. Si lavora tutti per lo stesso obiettivo. L’importante è non mollare mai chi sta in prima linea.



Salutandoti e ringraziandoti ancora ti lascio lo spazio per fornire le informazioni necessarie per sostenere Popoli…



Tutti possono sostenere Popoli, organizzando manifestazioni di raccolta fondi (cene, concerti, incontri sportivi ecc.), oppure versando offerte tramite i nostri conti correnti.

Quello postale è il n° 27183326

Quello bancario, codice iban n° IT19R0518811703000000057192

Di grande, grandissimo aiuto è destinare e far destinare al maggior numero di conoscenti il 5 x 1000 della dichiarazione dei redditi. Come sappiamo non costa nulla, sono cifre già versate all’ufficio delle entrate, e vanno semplicemente assegnate a “Popoli” indicando negli appositi moduli il codice n° 03119750234

Ti ringrazio a nome della Comunità Solidarista per questa intervista e per lo spazio che ci avete concesso.

martedì 27 gennaio 2009

APRI GLI OCCHI, SE CE L'HAI.






Menachem Begin primo ministro d'Israele, 1977-1983: "[I palestinesi] sono bestie che camminano su due gambe” (Discorso alla Knesset di Menachem Begin Primo Ministro israeliano, riportato da Amnon Kapeliouk, "Begin and the 'Beasts'," su New Statesman, 25 giugno 1982);


Yizhak Shamir primo ministro d'Israele, 1983-1984, 1986-1992: "(I palestinesi) saranno schiacciati come cavallette... con le teste sfracellate contro i massi e le mura" (Yitzhak Shamir a quel tempo Primo Ministro d'Israele in un discorso ai coloni ebrei, New York Times, 1 aprile 1988;



Golda Meir ex primo ministro d'Israele, 1969-1974: "Non esiste una cosa come il popolo palestinese...Non è come se noi siamo venuti e li abbiamo cacciati e preso il loro paese. Essi non esistono” (Golda Meir, dichiarazione al The Sunday Times, 15 giugno 1969);



David Ben Gurion, famigerato direttore dell’Agenzia ebraica in Palestina e successivamente primo ministro e presidente dello stato di Israele che, nel maggio del 1948, rivolto agli ufficiali del suo stato maggiore ebbe a dire: “Dobbiamo usare il terrore, l'assassinio, l'intimidazione, la confisca delle terre e l'eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba” (Ben-Gurion, A Biography, by Michael Ben-Zohar, Delacorte, New York 1978);



DOBBIAMO CONTINUARE?

lunedì 26 gennaio 2009

Sotto assedio birmano il distretto Karen di Dooplaya, dove si trova una clinica di Popoli.

Sono quattrocento i soldati agli ordini della giunta militare di Rangoon che in questi giorni stanno stringendo d'assedio la roccaforte di Boe Wae Hta, un insediamento lungo il confine con la Thailandia che ospita uno degli ultimi focolai della resistenza Karen. I 70 volontari del colonnello Nerdah Mya scavano trincee dalle quali cercheranno di resistere all'attacco, considerato oramai imminente. Il distretto di Dooplaya, dove si trova Boe Wae Hta, è stato investito negli ultimi otto mesi dall'offensiva che l'esercito di Rangoon conduce con l'appoggio di miliziani collaborazionisti del DKBA (Democratic Karen Buddhist Army), un gruppo armato che si è separato dall'esercito di liberazione nazionale Karen alla fine del 1994. Il DKBA, fondato da ufficiali Karen che hanno ceduto alle offerte della giunta militare (regime meno duro da parte dei soldati birmani nelle aree controllate da questa formazione e l'impegno di minori violenze contro i civili in cambio di servigi nella lotta alla resistenza), accoglie tra le sue fila bande criminali dedite al traffico di stupefacenti. Molti dei capi banda sono comandanti di battaglione: la loro guerra contro Nerdah assume i caratteri della lotta per la conquista di territori in cui far fiorire le loro attività sotto l'ombrello protettivo dei generali di Rangoon. Come è noto, l'esercito di liberazione Karen conduce invece da sempre una intransigente guerra al traffico di droga. Esercito birmano e DKBA hanno posizionato mortai da 80 millimetri sulle alture che circondano Boe Wae Hta. Anche ieri sulla roccaforte sono caduti proiettili, che non hanno però provocato alcuna vittima. Il rapporto di forze farebbe prevedere una sicura vittoria delle truppe governative, ma i resistenti sostengono di essere in grado di mantenere la loro presenza nell'area, dovessero anche abbandonare le posizioni fisse e limitarsi ad una attività di guerriglia. La popolazione civile di Boe Wae Hta sta lasciando la zona. Centinaia di nuovi profughi si uniranno a quelli che le scorse settimane si erano riversati lungo il confine più a sud, fuggendo dagli attacchi birmani contro i villaggi sotto tutela del 103° battaglione Karen. Avevano lasciato di corsa le loro abitazioni, che erano state poi date alle fiamme dai soldati di Rangoon. In collaborazione con l'Associazione canadese "Benévole", stiamo proseguendo la distribuzione di cibo, zanzariere e coperte tra i profughi. Al momento la clinica di "Popoli" a Boe Wae Hta è ancora in funzione: 7 paramedici garantiscono l'assistenza sanitaria alla gente del posto che ancora non vuol abbandonare la sua casa.



www.comunitapopoli.org

Solidarietà al Popolo Palestinese.


Riceviamo e pubblichiamo l'interessante articolo dell'Associazione Culturale Zenit di Roma.






Per ventitrè giorni si è vissuta la stessa abitudine quotidiana: i media che ci aggiornavano del costante aumento delle vittime dell’operazione militare israeliana Piombo Fuso. Un rituale quotidiano che ci ha colpiti per la cinica ripetitività con cui si è innestato tra gli agi della vita borghese dei fruitori d’informazione, senza dar impressione di smuovere alcuna coscienza, di provocare alcuno sdegno. Desolante verso l’emergenza umanitaria l’indifferenza di chi è maggiormente coinvolto dall’inizio dell’ennesima edizione del Grande Fratello; patetiche le tavole rotonde in cui esimi intellettuali si rincorrevano in inutili discussioni; addirittura raccapriccianti le solerti prese di posizione al fianco dei carnefici sionisti da parte dei soliti esperti carrieristi della politica di partito.


In merito a questi venticinque giorni di orrore ed ipocrisia, ci riesce difficile mantenere una lucidità tale da poterne scrivere a riguardo, tanto è lo sgomento di cui siamo rimasti oggetto. Sgomento che non può che tangere le nostre coscienze colpite innanzitutto dalle cifre nude e crude di questa feroce aggressione ai danni della popolazione di Gaza: 1320 palestinesi morti (ai quali vanno aggiunti svariati dispersi i cui cadaveri stanno pian piano riemergendo dalle macerie) dei quali ben 410 sono bambini; ben 16 strutture ospedaliere colpite e diverse strutture dell’ONU, oltre 5350 i feriti. Tutto ciò in 23 giorni… Da sole queste cifre basterebbero per farci indignare, per farci condannare un atteggiamento così eccessivamente violento e indiscriminato, al di là d’ogni analisi politica e culturale. Ma c’è dell’altro, c’è della carne vergognosamente grassa che alimenta ulteriormente le fiamme della nostra rabbia: la dimostrazione palese, incontrovertibile dell’unilateralità mediatica che, insensibile all’emergenza umanitaria causata da questo attacco, si è schierata in modo lampante dalla parte dei carnefici sionisti, senza se e senza ma. L’alzata di scudi è stata trasversale e severa nel momento in cui un’inchiesta giornalistica di Santoro durante il suo programma RAI Anno Zero ha tentato di far luce sulle sofferenze della popolazione di Gaza. Un disimpegno dalla censura che ha provocato un inverecondo coro unanime di condanna. Per meglio capire e stanare il subdolo meccanismo mediatico messo in atto al fine di legittimare la prepotenza criminale di Sion proviamo a ricostruire la vicenda, partendo dagli antefatti. Nell’agosto 2005 il governo israeliano decide per il ritiro dei propri coloni dalla Striscia di Gaza, ivi stanziatisi dopo l’occupazione a seguito della Guerra dei Sei Giorni (1967). Un lembo di terra passa così tra le mani palestinesi che possono godere di sovranità, seppur limitata dalla minaccia  militare israeliana sempre viva, da parte dei rappresentati di Al-Fatah, partito fondato da Arafat nel ‘59. Dopo due anni di governo vengono indette nuove elezioni che vedono la netta vittoria del partito paramilitare Hamas, adorato evidentemente dalla popolazione che l’ha eletto a sua guida, ma inviso e dalle potenze occidentali filo-sioniste e dallo stesso Al-Fatah, oramai divenuto un fido strumento del “popolo eletto” dopo lo sdoganamento dagli originari propositi rivoluzionari. Avversione che si traduce fin da subito in ostilità bellica da parte di Al-Fatah prima e di Israele in modo autoritario dopo, rendendo difficile la governabilità ad un movimento democraticamente al potere, e in embargo da parte dell’Unione Europea, così da lasciare ad uno stato di grave difficoltà la popolazione di Gaza. Il 1 marzo 2008, a seguito di una massiccia offensiva sionista contro Gaza, viene mediata dall’Egitto una tregua tra Hamas ed Israele consistente nella fine del lancio di razzi Qassam da parte palestinese e l’alleggerimento del blocco di viveri da parte israeliana. L’osservanza di questi patti è stato il primo motivo di discussione su chi fosse la causa della recente operazione Piombo Fuso. Per diversi giorni stampa e TV ci hanno tentato di convincere che la tregua fosse stata rotta da Hamas attraverso il ripristino dei lanci di razzi. Grave affronto a cui il fiero Israele non avrebbe potuto sottostare e a cui avrebbe deciso di rispondere furiosamente per poter sfiancare gli scorretti terroristi di Hamas. Nulla di più falso. Dopo giorni in cui questa menzogna è stata elargita su vasta scala, l’opera di controinformazione iniziata via internet ha potuto godere di una consistenza tale da rendersi manifesta e inoppugnabile, costringendo Israele all’ammissione. E’ bene premettere innanzitutto che durante l’arco di questa tregua 49 palestinesi sono rimasti uccisi dal fuoco israeliano. Inoltre Israele non ha rispettato il blocco promesso: invece dei 450 camion di aiuti umanitari giornalieri promessi, ne faceva passare solo qualche decina, aggravando le condizioni di vita di una popolazione che sopravvive in gran parte grazie agli aiuti umanitari. Ma il non plus ultra della scorrettezza avviene il 4 novembre, quando l’attacco di Israele muove all’interno della striscia uccidendo sei miliziani di Hamas teoricamente impegnati a far passare armi attraverso un tunnel collegato con l’Egitto. A seguito dell’ennesimo sopruso, di una tregua non rispettata che rende allo stremo un popolo già straziato da fame e umiliazione, Hamas decide lo scorso dicembre di non rinnovare questo fallace accordo e di riprendere il lancio di razzi verso Israele. La minaccia rappresentata da missili che in nove anni hanno ucciso 10 persone a seguito di 8621 lanci (proporzione ridicola), ha spinto Israele ad iniziare l’operazione militare Piombo Fuso. Mirata ufficialmente verso obiettivi militari, quest’offensiva si è rivelata fin da subito un’atroce carneficina ai danni di civili, vuoi per l’assenza di rifugi, vuoi per quelli che ufficialmente vengono definiti errori. Ma nessuno può giustificare, pur con la massima predisposizione, l’utilizzo di armi non convenzionali rispetto agli accordi di Ginevra che regolano le operazioni belliche: il fosforo bianco, consentito solo per illuminare i bombardamenti data l’eccessiva infiammabilità degli obiettivi che colpisce, è stato invece gettato sulla popolazione civile. Ma c’è qualcosa che è ancora più abominevole dei limiti oltrepassati di una convenzione. E’ l’utilizzo delle cosiddette Dense Inert Metal Esplosive (DIME), quelle bombe di recente scoperta (per questo non ancora vietate ufficialmente) sperimentate sulla popolazione palestinese: hanno l’atroce capacità di spezzare corpi rendendoli brandelli anche a distanza di un paio di metri e di provocare ingenti ferite a distanza di lunghi raggi. Gli effetti di questi efferati strumenti di morte sono quelle immagini che ci hanno scossi profondamente e la cui pubblica denuncia è stata censurata dai media. Una strage di bambini così violenta e ingiustificata ha goduto del sostegno dei politici di tutto il mondo o quasi (a condannare Israele, soltanto la Bolivia di Morales ed il Venezuela di Chavez), tramite la loro complice copertura che stride terribilmente con i valori di pace, democrazia e via via cianciando su questa linea di cui si sciacquano la bocca ad ogni occasione ritenuta opportuna i venditori di fumo che celano dietro le tante patetiche sigle politiche il loro trasversale asservimento a Sion. Non ci siamo mai vergognati di esprimere la nostra fiera estraneità a quel sudicio coacervo di squallida ipocrisia e di appiattimento verso il basso qual è la democrazia; ma ora sentiamo di gridarla ancora più forte, al cospetto di quanti continuano ignominiosamente ad enfatizzare Israele quale “unica democrazia del medio-oriente” o, peggio, a presentarlo quale avamposto di civiltà europea, dissipando quei valori di solare gerarchia ed alta spiritualità che contraddistinguono il retroterra culturale del Vecchio Continente. Ora è tutto finito, l’operazione Piombo Fuso è terminata, i militari israeliani che avevano occupato Gaza City si sono ritirati in contempo con un importante avvenimento. Oltreoceano, in un contesto scenico e kitsch tipicamente americano, il nuovo presidente del maggior alleato israeliano, l’Obama tanto agognato, può insediarsi quindi senza imbarazzi di sorta e spostare con la massima serenità i riflettori sulla propria persona e sulle aspettative che le vengono riposte. Possono ricominciare gli asfissianti sermoni conditi dall’artificiosa quanto inattendibile patina di speranza. Il tempo scorre inflessibile e nuovi succinti motivi d’interesse catturano le attenzioni dell’opinione pubblica. Il sangue, i morti, le sofferenze a Gaza restano un ricordo di questi giorni di cui si può anche perder memoria lungo il frenetico susseguirsi di mere preoccupazioni cui ci pone innanzi la progredita civiltà capitalista. In piena regola col principio usa e getta, domani ci verrà servito un nuovo prodotto di cui scandalizzarci. Magari un bel prodotto di storia piuttosto che d’attualità, un dogma intriso di emotività che possa pesarci sulle coscienze come un grosso monolite, tale da strappar lacrime e da renderci estremamente cauti nel condannare le azioni criminali, genocida di Israele, quale legittimo focolaio del “popolo eletto”. Azioni che persistono da sessantuno anni di occupazione del suolo di Palestina, azioni su cui ora il grande Luna Park dell’informazione ha spento i riflettori, ma che potrebbero ripetersi in un futuro più o meno prossimo nella loro medesima atrocità e causare un olocausto dei palestinesi poiché impunite, prodotto scellerato di una prepotenza esclusivista che non conosce condanna. Nessun tribunale internazionale prenderà provvedimenti contro Israele. Nessuna Carla Del Ponte, lo scrupoloso giudice che condannò e tutt’oggi perseguita i vertici della Serbia di Milosevic, potrà muovere accuse verso quei generali dalla stella di Davide che hanno causato questo crudele eccidio ai danni di civili. Due pesi due misure, questa la vostra infida giustizia piena fin dal midollo di ipocrisia sedicente democratica. Noi continueremo a ricordare, non limitandoci ad azioni tese a sensibilizzare le coscienze su quanto avvenuto ed a contribuire concretamente con l’invio di viveri verso le popolazioni della Striscia di Gaza, ma estendendo la nostra attività alla semplice quanto opportuna battaglia di civiltà che risponde al nome di controinformazione. Al fianco di Gaza, dei palestinesi, delegittimati con la prepotenza ad una sovranità nazionale che orgogliosamente reclamano con le armi nonostante l’inferiorità, ed ai suoi degni rappresentanti di Hamas che, al di là della menzogna mediatica, appaiono come angeli a difesa della propria patria. Pronti ad accorrere in soccorso dei connazionali anche a costo della vita. Esemplari sacerdoti di zelo militante (Hamas significa appunto “zelo”), figli del popolo e garanti delle sue esigenze. Coraggiosi guerrieri ma anche lucidi politici che hanno dimostrato sapersi sedere ad un tavolo a trattare una tregua e rispettarla. Fedeli alla parola data, da uomini d’onore. Uomini d’onore appunto, proprio come uno dei loro capi che ha preferito morire in un bombardamento aereo piuttosto che lasciare la propria abitazione dove viveva con quattro mogli e numerosi figli. Nizar Rayyan ha scagliato così la coerenza di un miliziano di Hamas al cospetto dei volantini d’avvertimento di Israele e delle sue bombe. Anche raccontare di questi gesti d’onore e martirio è controinformazione da tener viva…


venerdì 23 gennaio 2009

PERUGIA PER IL POPOLO PALESTINESE.

BLONDET A PERUGIA



È un Maurizio Blondet deciso e pregnante quello che ci introduce alla recente ennesima tragedia che giunge dalla Palestina. L’incontro organizzato dall’Associazione Vento di Terra, colpisce nel segno, e mostra la chiara intenzione di voler manifestare ufficialmente la propria solidarietà totale e senza riserve al popolo Palestinese. Questa volta, l’arroganza dell’Entità Sionista, Stato coloniale e teocratico, sin dal 1948, ha superato qualunque possibile immaginazione: armi non convenzionali, armi proibite da numerose convenzioni mondiali, come bombe al fosforo e cluster bombs, sono state pesantemente scagliate sulla popolazione civile. Quello che forse più indispone sia il gradito ospite, caporedattore del periodico multimediale Effedieffe (www.effedieffe.com) sia gran parte del pubblico presente, è la disinformazione ed il sempre più nitido progetto di mistificazione, volto a porre come indiscutibili due cardini, due concetti centrali assolutamente fasulli: anzitutto, la rottura della tregua, che non è avvenuta per causa di Hamas, come quasi tutti i giornalisti asserviti al potere avevano inizialmente asserito, ma che era stata predisposta da Israele già a metà novembre; in seconda battuta, la parificazione tra i due fronti in guerra, in grado di porre fantasiosamente sullo stesso livello i due eserciti, nella mente del pubblico occidentale. Quello che sorprende è che un razzo kassan è facilmente fabbricabile con qualche tubo e un po’ di dinamite, ha una potenza minima e può al più squarciare un metro quadro di un marciapiede. Questi attacchi, comunque non di poco conto, erano la chiara reazione al precedente e provocatorio atteggiamento del Governo Olmert, il quale non ha atteso un attimo a richiamare l’attenzione del patetico seguito mediatico, proprio al punto giusto, tralasciando le sue gravissime responsabilità. Tutti hanno assistito a questo ennesimo scontro, proprio a partire da questo momento, in coincidenza delle festività natalizie, senza sapere nulla dei due mesi precedenti: creare favole è un’arte tipica dei sionisti, che basano le loro teorie stesse proprio su favole chiaramente desunte da una mitologia biblica che lascia ormai a bocca aperta, per la ferocia con cui viene reinterpretata alla luce dei crimini. Eh, sì. Parliamo proprio di crimini: Israele usa armi non convezionali contro il popolo Palestinese, che, oppresso da sessanta anni in casa sua, è costretto a veder morire i suoi figli e le sue donne, in nome della Torah. Hamas, non può stare a guardare e cerca di difendersi come può: le poche armi a disposizione non consentono attacchi immediati, ma di certo non giungerà alla resa. Una resa che coinciderebbe con il riconoscimento di uno Stato, quello sionista, comunque teocratico, pericoloso e coloniale, che – cosa principale – non ha mai definito con sicurezza i suoi confini territoriali, lasciando pesanti dubbi sulle sue pretese invasive. Colpire i civili, ed in ispecie i bambini, è forse l’atto più infame e vigliacco che possa esistere in un conflitto: Israele addirittura si sta preparando ad una difesa sul piano internazionale. Se ciò fosse ancora una volta confermato, avremmo la dimostrazione completa della verità. Israele sa benissimo cosa ha combinato e sa a cosa rischia sul piano internazionale: ovviamente, da chi si è permesso di violare ben 73 risoluzioni Onu nella sua sessantennale storia, e di violare numerosi trattati sui diritti umani e sul riarmo atomico, ci si attende almeno l’esperienza superiore in questo ambito. Staremo a vedere. Ma ormai il conto delle vittime sale: sale in maniera terrificante, come sale in maniera spaventosa il numero dei rischi psicofisici legati alle armi utilizzate contro la popolazione della striscia di Gaza.



Associazione Culturale TYR Perugia

giovedì 22 gennaio 2009

GAZA, VIOLAZIONI DELLA TREGUA.

Un bambino palestinese ferito da proiettili israeliani.





Gaza - Infopal. Proseguono le violazioni israeliane del cessate il fuoco. Oggi pomeriggio, fonti mediche hanno riferito che a Gaza un bambino palestinese è stato ferito alla testa da una pallottola sparata dall’esercito di occupazione israeliano.



Le fonti hanno riferito che l’esercito, appostato alla frontiera est della città di Gaza, ha aperto il fuoco contro dei cittadini palestinesi, colpendo il bambino alla testa.



Il piccolo è stato ricoverato nel reparto di cura intensiva dell’ospedale ash-Shifa. Le sue condizioni sono molto gravi.



Parallelamente, le forze di occupazione posizionate lungo la frontiera est della città di Khan Yunes, a sud della Striscia, hanno aperto il fuoco contro i cittadini e i contadini di Wadi as-Salqa e di Khuza’a. Non ci sono notizie di vittime.


Tratto da: www.infopal.it

Strisce Blu: un abuso.

Nella nostra città, e lo sappiamo bene, tante sono le cose che non vanno. Senza ora dilungarci a parlare del minimetrò - che non è altro che una funivia dove la montagna non c’è, o almeno io non la vedo -, della chiusura quasi totale al traffico del centro storico, che indebolisce e in alcuni casi addirittura ha fatto chiudere storiche attività perugine, del nuovo piano della mobilità – PUM – che è stato bocciato subito dai cittadini, oggi voglio spiegarvi, dal popolo per il popolo, come si può e si deve non sottostare alla logica comunale del parcheggio a pagamento: le strisce blu. Nell’ultimo anno sono stati aggiunti, oltre a quelli già esistenti, più di novecento parcheggi con obbligo di pagamento nelle zone limitrofe al centro storico, in quartieri popolari come via dei Filosofi, Elce e via S. Elisabetta – davanti all’Università -. Il problema è che questi parcheggi a pagamento sono irregolari, poiché violano l’articolo 7 comma 6 del Codice della strada dove si legge: “Gli spazi adibiti al parcheggio a pagamento devono essere localizzati al di fuori della carreggiata”, e soprattutto lo stesso Codice dispone che nella stessa zona dove vi sono parcheggi a striscia blu deve corrispondere lo stesso numero di parcheggi a striscia bianca, – ovvero gratuiti -. Le iniziative portate avanti fino ad ora, soprattutto nei periodi pre messa in opera, hanno certamente sensibilizzato ma non hanno certo fatto si che tali parcheggi a pagamento venissero modificati secondo i criteri di legge. L’unica arma a nostra disposizione sono i ricorsi e, da monito, si ricordi la questione dei T-Red: dopo proteste, programmi televisivi dedicati ma soprattutto ricorsi su ricorsi, sono stati finalmente sostituiti. Fare ricorso è semplicissimo e il tempo da perderci è poco. Il modulo è scaricabile dal sito www.controventopg.splinder.com o può essere richiesto alla e-mail controventopg@libero.it, si compone di due pagine che vanno compilate con i dati del verbale, quello che vi verrà recapitato a casa dopo 60 giorni da quando avrete trovato l'avviso sulla vostra macchina. Per non incorrere in vizi di forma è bene farne poi tre fotocopie e firmarle in originale tutte e quattro, non dimenticando di inserire come allegato la copia del verbale stesso. Il tutto può essere spedito tramite raccomandata A/R o portato ad personam all’ufficio del Giudice di Pace di Perugia, in via Baglioni numero 11. Il ricorso sarà così completo e basterà aspettare la convocazione del Giudice di Pace per la comunicazione della sentenza che decreterà – se il ricorso è stato fatto con criterio - l’annullamento del verbale. Ora sta a te non farti fregare da una giunta comunale che vuole solamente speculare sui propri cittadini tra il silenzio totale dei complici mass-media.



Fabio Polese, Associazione Culturale Tyr Perugia



Tratto da "Il Monolite", inserto de "Il Megafono",

scaricabile in pdf su: http://www.fileden.com/files/2009/1/15/2268554/Monolite3.pdf

mercoledì 21 gennaio 2009

Siete più forti voi.








Giunta a quota 1315,  la conta dei morti Palestinesi durante i bombardamenti sulla Striscia di Gaza è purtroppo ancora provvisoria. Sono 5500 i feriti, alcuni gravi, mentre ancora si recuperano cadaveri in decomposizione sotto le macerie. Il rischio di malattie è alto. “In questo momento ci sono le condizioni ideali per la diffusione di malattie” ha avvertito Margareth Chan del Consiglio esecutivo dell’Oms, mentre il portavoce dell’ Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi denuncia che mancano strutture adeguate  ad accogliere così tante persone.



Nonostante la presenza del ministro degli esteri italiano Frattini, risultano  inoltre irrisorie  le scorte di cibo che riescono ad arrivare a sfollati e senzatetto, tra cui intere famiglie private di tutto. Magazzini contenenti provviste per la popolazione furono già distrutti durante i massicci bombardamenti del 15 Gennaio, quando vennero centrati dall’artiglieria sionista anche i locali dell’ospedale di Quds  a Gaza City.



Ma quella che ad oggi rappresenta l’azione più sconcertante e odiosa commessa dal governo israeliano ai danni di un popolo intero è l’uso di munizioni al fosforo bianco, proiettili all’uranio impoverito e cluster bombs, le micidiali bombe a grappolo.



Una tale accusa, dapprima formulata  da parte dell’ Unrwa,  è oggi ribadita dalla stessa AmnestyInternational, che ha raccolto prove inconfutabili dell’uso di armi al fosforo bianco in una delle aree più densamente popolate del pianeta. Altrove abbiamo descritto le conseguenze letali e terribili di tali armi proibite da tutte le convenzioni internazionali: nel corso della presente conferenza verranno sicuramente mostrate le poche immagini che sono giunte in Occidente a raccontare, senza i veli della censura, la indicibile brutalità di questa aggressione militare.



Guerra’, si fa per dire, combattuta sopra tutto contro donne e contro bambini - considerati forse, dal governo israeliano, i “terroristi” di domani da abbattere.



Le immagini che abbiamo finora visionato mostrano un terrore abissale nei volti e negli sguardi di decine di bambini. Mostrano donne affrante e uomini umiliati. Mostrano anche rabbia: l’indicibile prova  che ha segnato le vittime di questa violenza disumana, sarà la tragica stimmate di una generazione prossima di nuovi combattenti.



La ritorsione spietata e sproporzionata rispetto all’offesa ricevuta, colpevolmente programmata dal governo israeliano, prepara l’avvento di nuove primavere di sangue sulle terre martoriate della Palestina - e consegnerà nuovamente all’odio e alla guerra intere nazioni.



I criminali bombardamenti di case, di intere colonne di prigionieri inermi, il vile cecchinaggio sul personale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa condotto da Tsahal, i medici uccisi nell’esercizio del proprio dovere, le scuole dell’Onu colpite con dentro famiglie di sfollati, le madri costrette a partorire figli prematuri nelle ambulanze bersagliate – tali immagini sono e resteranno scolpite nella memoria ‘genetica’ di una popolazione già provata da oltre un anno di embargo.



Si voleva trasporre il dramma palestinese dal legittimo piano politico a quello umanitario: da risolversi non attraverso un processo politico ma con i convogli delle istituzioni caritatevoli.



Per arrivare a questo occorreva screditare e rigettare ogni istanza politica avanzata dai legittimi rappresentanti della causa palestinese, da una parte. Sterminare il popolo, colpevole di avere votato Hamas in  libere elezioni  svoltesi sotto controlli  internazionali,  dall’altra.



In Italia, e nel resto dell’Occidente “democratico”,  la causa palestinese non interessa ormai più a nessuno - in primis non interessa a quelli che anni orsono l’avevano ridotta ad una moda da centro sociale.



E tutti, senza eccezione,  si sono schierati infine dalla parte di Israele: uomini politici, intellettuali, giornalisti, uomini e donne della strada. Tutti.



Si è quindi riusciti bene, mi pare, nello scopo davvero perseguito e che Israele ha finalmente raggiunto.



 Ma sarà un tale esito foriero di pace o di sconvolgimenti e conflitti diffusi e sempre più sanguinosi? Ci auguriamo che lo sia, nonostante l’esperienza storica e la conoscenza dell’uomo ci indurrebbero a non essere  troppo ottimisti.



 Ma che almeno i vincitori mostrino ora compassione verso gli sconfitti e li trattino con decoro e senza infierire oltre: facilitando le operazioni di soccorso umanitario, facendo arrivare viveri, mettendo a disposizione i loro ospedali.



Con i Palestinesi dovranno continuare a convivere comunque, sarà bene pensarci.



Articolo di Mario Cecere.

martedì 20 gennaio 2009

1300 morti: “raggiunto l’obiettivo”

Era la notte del 3 giugno del 1968.

Un giovane ingegnere belga, Roger Coudroy, cadeva dietro le linee degli occupanti sionisti in Palestina, alla testa di un commando di al Assifah, il braccio armato di al Fatah. Fu, quella, la prima azione armata dei fedayn palestinesi nelle terre appena occupate - a giugno, nella cosiddetta guerra dei sei giorni - da Moshe Dayan e dalle truppe di Tsahal. E fu lui, Roger, militante di “Giovane Europa”, l'emblematico primo martire della guerriglia contro gli israeliani.

Ma la notizia della sua morte fu censurata dalla “stampa libera” occidentale, prona alle direttive di disinformazione planetarie che dalla fine della seconda guerra mondiale a tutt'oggi regolano e gestiscono le informazioni amplificando quelle politicamente corrette e celando quelle scomode.

Rendere nota l'uccisione di Roger Coudroy, 33 anni, fino a qualche mese prima dipendente della filiale Peugeot nel Quwait, avrebbe introdotto, già quarant'anni fa, un elemento di squilibrio negli schemi entro cui la persuasione occulta e palese - da Jalta in poi - aveva sapientemente costretto il significato della lotta di liberazione nazionale palestinese.

La lotta per una Palestina libera, infatti, è stata subito dipinta come una ribellione di “straccioni”, di esseri razzialmente e culturalmente inferiori, di plebe che non accetta la “democrazia”, di “terroristi”.

Rimossi gli antefatti plurimillenari di un conflitto tra un popolo lì residente - i filistei, i falestin, i palestinesi - e un altro popolo - l'ebreo, gli israeliani - deciso a cacciare via quegli abitanti e ad insediarsi in una terra “promessa da Dio”, nessuno sottolinea come tale rapina sia stata decisa nel 1945 a Jalta da Stalin, Roosevelt e Churchill e applicata dalle Nazioni Unite con un vergognoso piano di spartizione. E non soltanto viene rimosso ogni riferimento alle stragi di arabi - dal massacro di tutti gli abitanti, 250, uomini, vecchi, donne e bambini, del villaggio di Deir Yassin nel 1948 da parte del poi-premiato-con-il-nobel-per-la-pace Menachem Begin, alle stragi di Sabra e Chatyla volute da Ariel Sharon, all'attuale mattanza di Gaza perpetrata da Olmert e dalla Livni - ma nessuno ricorda le oltre 70 risoluzione dell'Onu di condanna di Israele e che lo stato sionista si è rifiutato sempre di applicare. Come pure si rimuove il fatto che Hamas abbia ottenuto, nel 2006, una vittoria elettorale schiacciante o che da oltre sei mesi la striscia di Gaza sia diventata un campo di concentramento assediato dalle truppe sioniste e sottoposto ad embargo per ogni genere di prima necessità…

Al contrario. Secondo la disinformazione Israele è il Paese Democratico per eccellenza, mentre Hamas è un gruppo terroristico. Israele, il Buono, vigila, per conto del Grande Padre di Washington, sulla pace nel Vicino Oriente. I mille e passa morti di Gaza sono dunque soltanto un “effetto collaterale” della sua difesa dai razzi Qassam o Grad (che di pericoloso hanno soltanto il nome).

Quindi l'unica soluzione è che i palestinesi si affidino al signor Abu Mazen (un politico passato sul libro paga di Tel Aviv e il cui mandato di “presidente” palestinese è stato prolungato a divinis nonostante la sconfitta elettorale) e da questi ricevino l'elemosina di un mini-stato senza sovranità ampio più o meno come un cinquantesimo della Palestina intera.

Chiamano questo obiettivo con lo slogan-rapina: “due Popoli, due Stati”: una trappola nella quale cadono mani e piedi soprattutto quelli che, nostalgici delle ‘epopee’ marxiste, rimuovono la criminale complicità dell'Urss nella tragedia palestinese e tentano di strumentalizzare la “nakba” per riesumare i cadaveri dei loro partiti.

Ma una sacrosanta lotta di liberazione nazionale non può essere fermata da uno slogan.

Forse per questo a Tel Aviv hanno pensato di risolvere tutto con uno sterminio. Seguendo le orme dei governi della “Nuova Israele” che nel 1800 “risolse” la questione indiana estirpandola alla radice dagli Stati Uniti d'America.

Male che vada, Olmert e la Livni potranno sempre concorrere al prossimo Nobel per la Pace.



Articolo di Ugo Gaudenzi, tratto da www.rinascita.info

OBAMA: L’UOMO NUOVO DELL’ALTA FINANZA.

Ai poveri illusi filo-obamiani della politica nostrana, non basterebbe molto per individuare e conoscere le intenzioni di quest'uomo, tanto in politica interna quanto in politica estera. Si sa, i candidati atlantici, prima di ogni elezione, sono soliti ricevere sostegni e regali: regali apparentemente immotivati, quasi inspiegabili. A dire il vero, da diversi anni, da moltissimi anni, i generosi donatori e sostenitori sono sempre i soliti nomi "mai troppo noti" (anzi, solitamente abilmente in grado di restare in disparte e lontano dalle luci dei riflettori mediatici). E' così che dall'apparente innocenza di questo afro-americano integrato e 'self-made', spuntano fuori amicizie "impensabili" e connivenze peculiari. Chi può dire di conoscere George Soros e la sua storia personale? Non molti. Per i più informati e per i più malfidati (che solitamente alla fine ci prendono), è facile già comprendere la portata di un tale nome; per i meno ferrati in argomento, basti pensare che questo magnate dell'alta finanza è forse uno degli uomini più potenti e pericolosi degli ultimi trenta anni. Ai più ultimamente noto per il suo poi rientrato interesse di acquisto del pacchetto societario della A.S. Roma, Soros, facoltoso ebreo ungherese, è costantemente nel backstage di ogni operazione finanziaria di portata mondiale. Noi italiani, dovremmo ricordarcelo bene, al largo del Porto di Civitavecchia, a bordo del Panfilo Britannia, nel 1992, mentre supervisionava gli allora finanzieri Prodi, Tremonti, Padoa Schioppa e compagnia mercantile, impegnati nella svendita del patrimonio industriale nazionale alle multinazionali estere. Sempre pronto ad eseguire e ordinare svendite e privatizzazioni, si è col tempo consolidato nel mondo come icona "umanista e filantropa", con il malcelato obiettivo di favorire la globalizzazione e la progressiva scomparsa degli Stati nazionali. Profondamente influenzato da Karl Popper, suo insegnante, e sostenitore di una libera e globale economia di mercato che sia al contempo “equa e solidale” (mi domando come sia possibile, nda) è passato fondamentalmente alla storia per il Mercoledì Nero del 16 settembre 1992, giorno nel quale Soros divenne improvvisamente famoso quando vendette allo scoperto più di 10 miliardi di dollari in sterline, approfittando della riluttanza da parte della Banca d'Inghilterra sia di aumentare i propri tassi di interesse a livelli confrontabili con quelli degli altri paesi (il Sistema Monetario Europeo) sia di lasciare il tasso di cambio della moneta fluttuante. Alla fine, la Banca d'Inghilterra fu costretta a far uscire la propria moneta dallo SME e a svalutare la sterlina, e Soros nel processo guadagnò una cifra stimata in 1,1 miliardi di dollari. Da quel momento fu conosciuto come "l'uomo che distrusse la Banca d'Inghilterra". Andando avanti, giunge voce di un altro nome importante tra i promotori pesanti della candidatura di Obama. Parlo di Zbigniew Brzezinski, ebreo polacco, illustre politologo. E qui la paura fa proprio 90, perchè oltre a conoscerlo indirettamente nell'ambito della questione russa, quale supporter delle rivolte pilotate in Georgia e Cecenia in funzione anti-Putin, sappiamo di trovarci di fronte al co-fondatore della Trilateral Commission (un organismo economico transnazionale dai poteri decisionali spaventosi… roba che il G8 è una partita di briscola al confronto…) già Segretario di Stato sotto la presidenza di Jimmy Carter e autore di "The Grand Chessboard" (tradotto: “La grande scacchiera”), un piano per la conquista mondiale ad opera degli Stati Uniti in cerca delle ultime risorse energetiche rimaste sulla Terra. Le sue recenti posizioni di critica nei confronti di quello che lui definisce “l’eccessivo conservatorismo ebraico che censura ogni critica allo Stato israeliano”, lo hanno messo in luce quale persona dalle visioni moderate ed aperte. Una nuova e sospetta veste – questa – che sicuramente cozza e molto con il suo atteggiamento politico da sempre “estremista” e occidentalista, in politica estera. Quello che preoccupa in questo contesto è che l’establishment di Obama ha imbarcato ben quattro suoi figli: Mark Brzezinski (direttore degli Affari russi ed eurasiatici al Consiglio della Sicurezza Nazionale sotto il Presidente Bill Clinton ed uno dei principali promotori della rivoluzione arancione del 2004 in Ucraina); Ian Brzezinski (attualmente Vice Segretario di Stato aggiunto per gli affari NATO ed europei e sostenitore dell'indipendenza del Kosovo, dell'espansione della NATO in Ucraina e Georgia e dei missili ABM in Polonia); Mika Brzezinski, commentatrice politica alla MSNBC autrice dell’intervista a Michelle Obama grazie alla quale il candidato afro-americano ha inaugurato la sua raccolta di simpatie trasversali, e Matthew Brzezinski, amico strettissimo di Ilyas Akhmadov, "ministro degli esteri" ed ambasciatore negli USA dell'opposizione cecena. Abbiamo per di più sentito parlare il neo presidente Obama in proposito di un ventilato ritorno della cosiddetta N.I.R.B. (la National Infrastructure Reinvestment Bank). I più ferrati in storia americana, si ricorderanno questo piano economico-finanziario quale volano della politica "etica" da parte del vecchio Partito Democratico di Franklin Delano Roosvelt, che intese promuovere (almeno sul piano prettamente teorico) un progetto di "welfare generalizzato e diffuso nella società". Quello che Barak Obama non precisa è che con quelle parole, fa netto riferimento alla più recente versione corretta e rivista (potremmo pure dire, stravolta) di quel piano. E con ciò mi riferisco al piano Rohatyn-Rudman e al progetto N.I.C. (National Investment Corporation). Ritroviamo infatti Felix Rohatyn magicamente fra i sostenitori del presidente neo eletto. Ma chi è Felix Rohatyn? Si tratta anche in questo caso di un banchiere, e di un enorme speculatore internazionale, noto e passato alla storia anzitutto per aver foraggiato all’epoca l’orribile regime cileno di Pinochet, con cui il Cile fu “punito” per l’onestà del suo Presidente Allende, autore di fondamentali nazionalizzazioni energetiche. Ma Rohatyn è pure conosciuto, in secondo luogo, e più recentemente, per un episodio nello specifico, tra i molti che lo vedono coinvolto: il fallimento dell’azienda Delphi Corporation, all’epoca leader nel settore della componentistica meccanica. Dagli atti del Tribunale Fallimentare del distretto meridionale di New York risulta che è sua la responsabilità diretta del piano di delocalizzazione della grande impresa della componentistica dell'auto Delphi Corporation, con la conseguente rovina dei posti di lavoro adeguatamente retribuiti e garantiti dai contratti sindacali. Dai documenti risulta che la Rohatyn Associates e la Rothschild Inc., ambedue rappresentate personalmente da Felix Rohatyn, avviarono l'affossamento della Delphi e la sua “globalizzazione tramite fallimento”, come fu definita il 24 aprile del 2005 dal settimanale Business Week e come denunciato dal senatore democratico Lyndon La Rouche, che propose un piano di nazionalizzazione di una parte dell’industria dell’automobile, per salvare i dipendenti e mantenerne vivo il prestigio industriale, in opposizione a quello che definì come il pericolo di un nuovo sinarchismo, proprio attraverso la figura di Felix Rohatyn, con la creazione di nuovi regimi politici fantoccio che in qualche maniera favoriscano l’alta finanza. Ovviamente l’accusa di La Rouche risente anche di un alone fantapolitico chiaramente di parte e probabilmente forzato nella sua interezza generica, ma resta indiscutibile che nella specifica situazione, questo piano di delocalizzazione e chiusura per fallimento della Delphi è un precedente terribile, un caso emblematico a livello internazionale, che ha messo in moto fallimenti e chiusure nel settore dell'auto e in altri comparti industriali. Henry Reichard, il capo della delegazione sindacale recentemente scomparso, lo ha definito “la fine dell'auto” e delle classi medie americane. Assieme a George Schultz (altro finanziere britannico), Rohatyn si è fatto tra l’altro promotore, nella prima metà del 2007, di una campagna per portare il sindaco di New York, l'ebreo americano Michael Bloomberg, alla Casa Bianca, cercando di opporlo ad Hilary Clinton e a La Rouche, che in quel periodo parevano i candidati democratici favoriti per le presidenziali, nonché i più ferrei sostenitori di un ritorno al piano roosveltiano del "forgotten man", letteralmente dei “dimenticati”. Si trattava di una serie di provvedimenti volti a favorire lo sviluppo sociale di quella enorme fetta di popolazione rimasta fuori dai vantaggi dell'industrializzazione ed emarginata rispetto alle sacche di ricchezza. Questo piano di impronta spiccatamente socialista non deve essere piaciuto alla grande finanza, tanto da agitarne i pescecani per fomentare una pressione fortissima sulla scelta delle candidature. Con Bloomberg alla Casa Bianca, indubbiamente gli interessi dei potenti finanzieri sarebbero stati messi al sicuro. Evidentemente però, il crescente distacco dell’elettorato dagli ambienti neo-con e repubblicani in genere, e l’insoddisfazione nei confronti di Bush a causa delle drammatiche guerre prolungate, e dell’enorme crisi economica che ha investito gli Stati Uniti negli ultimi diciotto mesi, costituivano un’arma elettorale dal potenziale enorme per i democratici. Dunque, per questi magnati deve essere stato molto più semplice puntare a piazzare un “proprio” uomo in quel Partito: un uomo che dovesse superare in maniera non certo agile la folta concorrenza. Un uomo che sapesse conquistare in poco tempo la fiducia della gente, in maniera trasversale. Come? Puntando sulla apparente freschezza e novità, puntando sull’originalità, puntanto sulla spettacolarizzazione ancor più esasperata della propaganda. E chi, meglio di un uomo giovane, di colore, affermato avvocato, padre di famiglia, e perfetto emblema di quel mondo globalizzato e livellato verso cui stiamo velocemente andando, poteva raccogliere in sé tutti quei requisiti?



Articolo di Andrea Fais.