domenica 29 marzo 2009

ARRIVANO I NOSTRI!

Gli U.S.A. a colloquio con la giunta birmana. la Thailandia si propone come mediatrice in un negoziato tra Karen e governo militare. Prima o poi doveva accadere. Lo avevamo previsto e quindi non ci sorprendiamo. Nel mondo governato dalla logica dei poderosi flussi economici e commerciali, in questo "grande gioco" da villaggio (e mercato) globale, era soltanto questione di tempo. Un paese come la Birmania, demonizzato a parole da buona parte dei governi democratici occidentali, descritto come una fucina di nefandezze e di soprusi ai danni di movimenti libertari e di monaci buddisti, riceve ora le lusinghiere proposte del Dipartimento di Stato americano, e l"utile collaborazione del governo tailandese, per risolvere il problema del suo futuro assetto politico. Stephen Blake, direttore della sezione Sud Est Asiatico del ministero per gli affari esteri statunitense, ha compiuto due giorni fa una visita ufficiale nella nuova capitale del Myanmar, incontrando il suo omologo birmano per una serie di colloqui. I giornali governativi birmani descrivono l"incontro "cordiale e fruttuoso, inteso al deciso miglioramento dei rapporti bilaterali tra Myanmar e Stati Uniti". Pare si sia parlato di una lista di questioni di interesse comune tra i due governi, in vista delle elezioni in Myanmar, previste per il 2010. E" dello stesso giorno la proposta avanzata dalla Thailandia alla leadership della KNU (Unione Nazionale Karen) per l"avvio di negoziati con la giunta militare di Rangoon per il raggiungimento di un cessate il fuoco dopo 60 anni di conflitto. Ricordiamo che negli ultimi sei anni la Thailandia ha strangolato la resistenza Karen esercitando lungo i suoi confini un capillare controllo sui flussi di viveri ed equipaggiamenti diretti ai reparti dell"Esercito di Liberazione, arrestando comandanti militari e rappresentanti politici, consentendo alle milizie filobirmane coinvolte nel traffico di stupefacenti di sconfinare ripetutamente per colpire alle spalle i reparti della guerriglia, e infine espellendo dal paese tutti gli iscritti alla KNU. Una manovra diretta chiaramente all"indebolimento della resistenza contro i Birmani, con i quali Bangkok ha stretto negli anni accordi commerciali di grande importanza. Ora, con i Karen oramai allo sbando, la proposta tailandese suona come un ultimatum: o accettate il dialogo (a condizioni facilmente immaginabili) oppure ve la vedete con l"esercito birmano, senza più poter contare su una base logistica arretrata da cui poter, sebbene faticosamente, rifornire i resistenti. Era previsto, dicevamo. Lo si capiva da come la guerriglia Karen non avesse mai, e ripetiamo mai, ricevuto alcun supporto da qualsivoglia governo, tanto meno da quello statunitense, nonostante quello che sostengono improvvisati "esperti" di Birmania di cui abbiamo letto ultimamente supponenti analisi. Abbiamo letto dei Karen descritti come il braccio dell"imperialismo USA, come un cuneo inserito nel costato della Cina, ultimo baluardo contro l"omologazione planetaria diretta da Washington. Chi ha voluto andare a vedere con i propri occhi quel che succedeva in quella parte del mondo (mettendosi uno zaino in spalla e introducendosi clandestinamente in Birmania) ha avuto modo di capire quanto lontane dalla realtà siano a volte certe teorie, perfette soltanto se rimangono nell"alveo di uno studiolo, o nelle noiose sale che accolgono interminabili convegni di geopolitica. Cina, Stati Uniti, India, Russia, Thailandia, Israele, Singapore, Giappone, Gran Bretagna, Australia, Germania: questi paesi sono oramai parte del gioco birmano. Con le loro connessioni, le pressioni commerciali e diplomatiche esercitate in diversi modi sulla giunta di gerontocrati al potere a Rangoon, con le consegne di armi, gli accordi di importexport , le aziende multinazionali, sempre astute e fameliche, a riempire di regali i generali e i loro famigliari. Con l"enorme affare della droga, sempre più business per governi in cerca di liquidità. Fuori dai giochi, paradossalmente dovremmo dire se non conoscessimo invece come funziona il mondialismo, quelli che noi consideriamo i legittimi difensori dell"intoccabile diritto all"autodeterminazione. Quei Karen che avevamo deciso di aiutare sulla base della condivisione dei motivi della lotta da essi condotta: difesa dell"identità, rifiuto di ogni droga, preservazione del territorio dei Padri, tutela dei figli, mantenimento delle tradizioni. Oggi i Karen vengono sacrificati sull"altare degli equilibri economici. Non contano nulla. Anzi, disturbano gli operatori del mercato. Rallentano il progresso e la realizzazione delle "grandi opere". La pace che viene loro proposta, ammesso che di pace vera si tratti, implicherà una serie di rinunce rispetto agli ideali da essi perseguiti. E già all"interno della resistenza si acuiscono le differenze che opponevano l"ala politica a quella militare. Vi sono comandanti dell"Esercito di Liberazione che non vogliono sentir parlare di accordi. Non per ottuso rifiuto di alternative alla lotta armata. Ma perché sanno che i negoziati vanno condotti da posizioni di forza, e non quando si ha un cappio stretto intorno al collo. La rabbia nei confronti dei tailandesi monta tra i reparti Karen. Alcune unità sarebbero desiderose di combattere su due fronti: contro i Birmani e allo stesso tempo contro i soldati di Bangkok. La leadership politica, abituata a vivere lontana dai campi di battaglia, comodamente ospitata (finora) nelle cittadine tailandesi, spesso sorda nei confronti delle richieste dei combattenti, pare abbia invece un forte desiderio di concludere in qualche modo sessanta anni di esperienza rivoluzionaria. Il nuovo ordine mondiale sta sistemando anche questa faccenda. Tutti contenti, tutti con la loro fetta di torta. Tutti, tranne chi ha lottato armi in pugno, inutilmente, per 60 anni, per degli ideali fuori moda. Anzi, fuori mercato.



Franco Nerozzi, www.comunitapopoli.org

giovedì 26 marzo 2009

Solidarietà in Azione!







L’Associazione Culturale Tyr Perugia a sostegno della Comunità Solidarista Popoli, organizza punti di raccolta a Perugia e provincia nei bar e nei locali pubblici; ovunque troverai questo volantino potrai lasciare le linguette delle tue lattine per aiutare concretamente il Popolo Karen.




Le bombe birmane provocano ogni anno migliaia di menomati di etnia Karen, spesso bambini innocenti ed inermi.  La Comunità Solidarista Popoli, presente con le sue cliniche mobili nella regione dal 2001, può oggi intervenire direttamente su queste odiose mutilazioni.



Per ogni chilogrammo di linguette di lattine d'alluminio consegnato all'associazione è possibile acquistare una protesi da utilizzare a tal fine.



“La nostra patria è là, ovunque si combatta la stessa battaglia”.



Associazione Culturale Tyr Perugia

controventopg@libero.it

martedì 24 marzo 2009

PALESTINA LIBERA.

L’Onu accusa Israele: “A Gaza commessi crimini di guerra”



Nuove accuse all’esercito israeliano. L’offensiva nella Striscia di Gaza, iniziata il 27 dicembre e conclusa il 17 gennaio con 1300 vittime palestinesi e una ventina di soldati israeliani, è stata “un crimine di guerra” secondo il team di esperti della Commissione per i Diritti Umani dell’Onu a Ginevra, non nuova a esprimere severe condanne contro lo Stato ebraico. L’assunto da cui è partito il lavoro della squadra diretta da Richard Falk è che se in un teatro d’operazione “non è possibile distinguere tra obiettivi civili e militari, iniziare le operazioni (…) sembra costituire un crimine di guerra della maggiore gravità secondo il diritto internazionale”. Dopo l’Onu anche la sezione locale di Dottori per i diritti umani (Phr) punta l’indice contro l’operazione Piombo: “L’esercito ha violato i codici etici per aver attaccato personale medico; aver danneggiato strutture sanitarie e aver colpito indiscriminatamente civili non coinvolti nelle operazioni”.




La condanna della Commissione per i Diritti Umani dell’Onu giunge all’indomani di due inchieste realizzate dal quotidiano israeliano Haaretz che hanno suscitato accese polemiche, non solo in Israele, ma anche sui più importanti media internazionali. Nel primo caso il quotidiano ha pubblicato le testimonianze-choc di alcuni reduci, raccolte su una newsletter militare, che hanno ammesso inutili e reiterate uccisioni di civili e di famiglie palestinesi durante le operazioni militari. “Questi racconti” - ha scritto in questo caso Haaretz - “contrastano con le dichiarazioni dell’esercito secondo cui le truppe si sono comportante correttamente da un punto di vista morale durante l’operazione”. Indignata la risposta di Ehud Barak, il ministro della Difesa israeliano: “L’esercito israeliano è il più morale del mondo”. Non si è trattato, secondo Barak, di violazioni sistematiche dei diritti dei civili palestinesi, ma, al limite, di episodi isolati su cui è stata aperta un’inchiesta interna.



Nel secondo articolo, invece, il quotidiano israeliano punta l’indice contro le magliette che indossano decine e decine di reduci di ritorno dall’operazione. Magliette (vendute da ‘Adiv‘, il negozio di magliette nella zona sud di Tel Aviv) dove sono stampate immagini di bambini palestinesi trucidati, madri in lacrime sulla tomba dei loro figli, ragazzini con una pistola puntata alla testa, moschee bombardate. “One shot, two kills” (un colpo, due morti) si legge sulla t-shirt di un militare in borghese, ripreso di spalle dal quotidiano israeliano ‘Haaretz’, dove è stampata l’immagine di una donna araba incinta al centro di un mirino. Sotto la foto del corpo di un bambino palestinese, con accanto la madre in lacrime, campeggia la scritta “Better use Durex” (meglio usare il profilattico). “Scommetti che sarai violentata?”, è la domanda stampata sulla maglia di un altro soldato, accanto all’immagine di una ragazza piena di lividi.



Tratto da Panorama

Contro Facebook

Facebook ha 59 milioni di utenti - e due milioni di nuovi iscritti ogni settimana. Ma tra questi non troverete Tom Hodgkinson che rilascia volontariamente i propri dati personali; non ora che conosce la politica delle persone che stanno dietro questo sito di social networking.


Io disprezzo Facebook. Questa azienda statunitense di enorme successo si descrive come «un servizio che ti mette in contatto con la gente che ti sta intorno». Ma fermiamoci un attimo. Perché mai avrei bisogno di un computer per mettermi in contatto con la gente che mi sta intorno? Perché le mie relazioni sociali debbono essere mediate dalla fantasia di un manipolo di smanettoni informatici in California? Che ha di male il baretto?


E poi, Facebook mette davvero in contatto la gente? Non è vero invece che ci separa l’uno dall’altro, dal momento che invece di fare qualcosa di piacevole come mangiare, parlare, ballare e bere coi miei amici, mando loro soltanto dei messaggini sgrammaticati e foto divertenti nel ciberspazio, inchiodato alla scrivania? Un mio amico poco tempo fa mi ha detto di aver trascorso un sabato notte a casa da solo su Facebook, bevendo seduto alla sua scrivania. Che immagine deprimente. Altro che mettere in contatto la gente, Facebook ci isola, fermi nel posto di lavoro.


Per di più, Facebook fa leva, per così dire, sulla nostra vanità e autostima. Se carico una mia foto che ritrae il mio profilo migliore, e assieme metto una lista delle cose che mi piacciono, posso costruire una rappresentazione artificiale di me stesso, con lo scopo di essere sessualmente attraente e di guadagnarmi l’altrui approvazione. («Mi piace Facebook», mi ha detto un altro amico. «Mi ha fatto trombare»). Incoraggia inoltre una inquietante competitività intorno all’amicizia: sembra che nell’amicizia oggi conti la quantità, e la qualità non sia affatto considerata. Più amici hai, meglio sei. Sei “popolare”, nel senso che i liceali statunitensi amano tanto. A riprova di ciò sta la copertina della nuova rivista su Facebook dell’editore Dennis Publishing: «Come raddoppiare la tua lista di amici».


Sembra, però, che io sia piuttosto solo nella mia ostilità. Mentre scriviamo, Facebook sostiene di avere 59 milioni di utenti attivi, compresi 7 milioni dal Regno Unito, la terza nazione per numero di clienti dopo gli Usa e il Canada. Cinquantanove milioni di babbei, che hanno dato tutti volontariamente le informazioni della propria carta d’identità e le proprie scelte di consumatore a un’azienda statunitense che non conoscono. Due milioni di persone si iscrivono ogni settimana. Se proseguirà all’attuale volume di crescita, Facebook supererà i 200 milioni di utenti attivi nello stesso periodo dell’anno prossimo. E personalmente prevedo che, anzi, il suo volume di crescita subirà un’accelerazione nei mesi venturi. Come ha dichiarato il portavoce di Facebook Chris Hughes: «[Facebook] ha raggiunto una tale integrazione che è difficile sbarazzarsene».


Tutto ciò sarebbe sufficiente a farmi rifiutare Facebook per sempre. Ma ci sono altre ragioni per odiarlo. Molte altre ragioni.


Facebook è un progetto ben foraggiato, e le persone che stanno dietro il finanziamento, un gruppo di capitalisti “di rischio” della Silicon Valley, hanno un’ideologia ben congegnata che sperano di diffondere in tutto il mondo. Facebook è una delle manifestazioni di questa ideologia. Come Paypal prima di esso, è un esperimento sociale, un’espressione di un particolare tipo di liberalismo neoconservatore. Su Facebook puoi essere libero di essere chi vuoi, a patto che non ti dia fastidio essere bombardato da pubblicità delle marche più famose al mondo. Come con Paypal, i confini nazionali sono una cosa ormai obsoleta.



Continua...


Fonte: The Guardian (ripreso da http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5266)

lunedì 23 marzo 2009

23 marzo 1919

Auguri!



Auguri a tutti i non-convertiti, i non-liquefatti, i non post-ideologici, a tutti gli adoratori di Caino, Lucifero, Erode,Nerone, Catilina,  a tutti coloro che odiano il maledetto termine "Nazional-popolare" (vero logo Mediaset).




A tutti gli eretici, a tutti i non-integrati, i non-biodegradabili, i non-redenti dal verbo, i non-marchettati,   a coloro che esaltano il peccato originale come unica chance di liberazione, a coloro che ricercano spregiudicamente le sintesi feconde di originaria risoluzione, a coloro che odiano dal loro profondo il termine " DESTRA " , a coloro che quel giorno sarebbero stati a San Sepolcro, che durante la marcia su Roma avrebbero volentieri aperto il fuoro sulle guardie regie, che avrebbero preso finalmente Roma con la forza.



A coloro che il 29 ottobre del 1922 avrebbero volentieri regolato i conti con la monarchia genocida sabauda, con la lobby vaticana, con l'arroganza degli agrari, con il sospetto tradimento degli industriali,  con tutti i piccoli medi e grandi cenacoli dacadenti  e borghesi che non hanno fatto mai ri-nascere la Patria sociale , la Nazione, L'Impero.



A coloro che durante il regime avrebbero fatto un bel regolamento di conti interno, a coloro che avrebbero anticipato il processo ed i punti di Verona dal 1928.



A coloro che non non vennero presi in ostaggio dnel 1948' "a destra" per conto di De Gasperi e Togliatti su ordine dell'occupatore atlantico; a coloro che sopravvisero all'idiozia anti-comunista del 1960 e del 1965 opponendosi al camaleontismo demo-borghese.



A coloro i quali a Valle Giulia tirarono le selciate dalla parte giusta, a coloro i quali a metà degli anni 70' ruppero gli schemi (anche tragicamente) e volarono liberi verso la post-modernità, a coloro i quali non si sono con-fusi, non si sono piegati, non si sono asserviti, non si sono liofilizzati.



Auguri a tutti coloro che adorano e vivono evocando magiche e "sinistre tentazioni".



Francesco Mancinelli, dal forum de "Il Fondo".

domenica 22 marzo 2009

MONDIALISMO PADRONE.

Nei giorni scorsi, mentre la resistenza Karen veniva cacciata dal territorio tailandese e privata delle sue basi logistiche arretrate, nella cittadina di Mae Sot, a ridosso del confine con la Birmania, si svolgeva una importante riunione, condotta dal Presidente della Camera di commercio della provincia di Tak , con la partecipazione di delegati commerciali e uomini d'affari tailandesi, birmani, cinesi e laotiani. Il congresso proponeva la costruzione di un ponte che dovrebbe collegare Mae Sot a Shwe Kokko, un villaggio birmano controllato dalle milizie collaborazioniste del DKBA, coinvolte da anni nel traffico di stupefacenti. Il nuovo ponte si aggiungerebbe a quello già esistente nella stessa zona, il famoso "Ponte dell'Amicizia", e sarebbe più resistente del primo, in modo da permettere il passaggio di camion pesanti e far aumentare così il flusso commerciale tra i paesi coinvolti. Secondo fonti della stessa Camera di Commercio, dagli scambi con la Birmania la Thailandia guadagna già, attraverso il passaggio di merci nella sola zona di Mae Sot, un milione di dollari al giorno. Con il nuovo ponte gli affari andranno ancora meglio. Si attende soltanto il benestare della giunta di Rangoon. E la Birmania ? La Birmania non può certo lamentarsi: nel 2008 ha visto un incremento del 93,06 per cento degli investimenti stranieri rispetto al precedente anno. La straordinaria impennata è dovuta essenzialmente ad ingenti investimenti nel settore minerario condotti da Cina e Singapore. Ma non dovrebbe stupire che tra i principali paesi investitori in Myanmar vi sia, oltre alla scontata Thailandia, alla Russia e al Vietnam, anche la Gran Bretagna, che occupa i primi posti della classifica. Inoltre, secondo voci interne alla Casa Bianca (raccolte dall'agenzia di stampa Inner City Press), un tenace lavoro lobbistico da parte di aziende petrolifere americane è stato condotto per diversi mesi nei confronti dei politici che fanno ora parte della nuova amministrazione statunitense. Lo scopo: convincere il governo USA che le sanzioni contro la Birmania non servono a nulla, e che è giunto il momento di riaprire agli investimenti in quel paese. Investimenti che fino ad ora premiavano soltanto la Chevron, ma che ora dovranno far sorridere altri manager paciocconi, sicuramente tanto sensibili (in quanto amici dell'entourage democratico) alle disgrazie delle minoranze. Comincia ad essere più chiaro il quadro complessivo della vicenda Karen : i paesi del Sud Est Asiatico non vogliono seccature con istanze fuori moda come l'autodeterminazione e la difesa dell'Identità. Così la pensano probabilmente anche le nazioni occidentali, preoccupate a rincorrere la locomotiva cinese, che gode nell'area di una posizione di predominio. Nell'ottica dello sfruttamento economico del territorio e delle risorse birmane tutti puntano sui cavalli più forti: la giunta di Rangoon e i suoi cani da guardia del DKBA, pronti a fare affari con gli amici dei generali. Anche le Nazioni Unite fanno sapere che da Rangoon arrivano segnali "incoraggianti": sempre l'agenzia Inner City Press, ha infatti citato un alto funzionario dell'ONU che sostiene che in aprile con ogni probabilità il Segretario Generale dell'organizzazione, Ban Ki - moon, si recherà in visita dai leader della giunta militare. Intanto, nell'est del paese, nuovi battaglioni di fanteria, supportati da reparti corrazzati, si avvicinano alle ultime aree controllate dalla resistenza. Riusciranno finalmente i Generali a "risolvere" una volta per tutte la fastidiosa questione della Rivoluzione Karen, che ostacola da ormai troppi anni i lucrosi affari di decine di Paesi?



Da: www.comunitapopoli.org

sabato 21 marzo 2009

Le bugie hanno le gambe corte...




Piombo fuso, soldati israeliani svelano:

«A Gaza vandalismo e civili uccisi»



Le testimonianze sul quotidiano Haaretz

Raid sulla Striscia, ma Tel Aviv nega



GERUSALEMME (19 marzo) - Civili palestinesi uccisi e loro proprietà deliberatamente distrutte a causa di regole d’ingaggio «permissive». Sono le dichiarazioni di alcuni soldati israeliani impegnate nell’operazione Piombo Fuso condotta dalle forze armate israeliane (Tsahal) a gennaio per colpire i santuari degli integralisti di Hamas nella Striscia di Gaza.



Le testimonianze. Fuoco a raffica nelle case, donne e bambini freddati da tiratori scelti per banali difetti di comunicazione fra reparti, disprezzo per i palestinesi in quanto tali, atti di vandalismo e scherno nelle loro abitazioni. Lo riferisce il quotidiano Haaretz secondo il quale si tratta di trascrizioni di un dibattito tenuto nell’ambito dei corsi del collegio di preparazione militare intitolato alla memoria d’Yitzhak Rabin: l’eroe di guerra divenuto premier degli

accordi di pace di Oslo.



Una mamma e i figli uccisi per errore. Un soldato ha riferito che una donna e i suoi figli furono uccisi per errore dal fuoco di un cecchino che non era stato informato in tempo («ci si era dimenticati di avvertirlo») che si trattava di persone a cui era stato permesso di uscire dalla casa nella quale erano state chiuse per giorni. «Lui ha visto che a camminare erano una donna e due bimbi - sottolinea il graduato -,… ma alla fine li ha uccisi. E non credo che ci sia rimasto troppo male perché, dopo tutto, aveva agito secondo gli ordini».



«La vita dei palestinesi vale meno di quella nostra». Gli ordini erano improntati all’idea che la vita dei Palestinesi, civili inclusi, sia «qualcosa di molto, ma molto meno importante delle vite dei nostri». Un commilitone rivela di aver avuto un diverbio con un superiore dopo che questi aveva ordinato di far fuoco su una persona che - «a 100 metri» dal reparto - appariva chiaramente «una donna anziana». E aggiunge di aver dovuto poi subire le proteste dei suoi stessi compagni al grido di: «Dovremmo ucciderli tutti, qui sono tutti terroristi». Un altro afferma di aver visto «scrivere morte agli Arabi sui muri delle case o prendere foto di famiglia e sputarci su. Solo perché potevano».



«Omicidio». Un altro graduato, citato stavolta da Yediot Ahronot, descrive il modus operandi della sua unità in questi termini: «Entrando in una casa, dovevamo sfondare la porta e sparare all’interno. E così avanti, una storia dopo l’altra». «Io - conclude - lo chiamerei omicidio».



Danny Zamir, direttore dei corsi del collegio Rabin, ha pubblicato su una newsletter ancor prima dei giornali le dichiarazioni. Amos Harel, analista militare di Haaretz le commenta quale segno del «continuo deterioramento» dei codici di condotta degli eredi della leggendaria Haganah sionista: «Dalla prima guerra del Libano, alla seconda, fino all’operazione Piombo Fuso» (chiusa con un bilancio di oltre 1400 morti, stando alle ultime stime di fonte palestinese). Per questo Harel chiede ai comandi di «prendere sul serio denunce che non possono essere tacciate di propaganda poichè non vengono più solo da testimoni palestinesi o dalla ’stampa ostilè».



Le dichiarazioni contraddicono le affermazione delle forze armate sul rispetto delle norme etiche. Un portavoce militare ha detto che le forze armate «non hanno informazioni a sostegno degli eventi denunciati, ne verificheranno la veridicità e se necessario apriranno pure un’inchiesta».



Raid a Gaza, ma Tel Aviv nega. Israele ha negato di aver compiuto questa mattina raid aerei su Gaza nei quali sarebbero morti due militanti palestinesi, esponenti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, gruppo militante vicino al movimento politico Fatah di Mahmoud Abbas. Inoltre in diverse zone della Cisgiordania, l’esercito israeliano ha arrestato  diversi dirigenti e parlamentari di Hamas.


Tratto da: www.ilmessaggero.it

venerdì 20 marzo 2009

ESSERE UOMINI PER ABBANDONARE LA CULTURA DELLA MORTE.








“Non lasciarsi andare, oggi è alla base. In questa società sbandata si deve essere capaci del lusso di avere carattere.” Julius Evola


Negli ultimi anni la corsa all’autodistruzione è divenuta incontrollabile. Il fenomeno della droga, una volta marginale, è ora un problema di e per tutti. Famosi attori, manager, operai, disoccupati e giovani liceali.  



Non lontana è la vicenda che ha visto protagoniste sedicenni perugine che pagavano hashish con quello che è stato definito ‘sesso estemporaneo’ e questo, tanto per chiarire, è davanti all’occhio di tutti in molte zone di Perugia sotto il silenzio totale delle istituzioni che, di volta in volta, quando conviene e ‘serve’, fanno esemplari e vistose retate.



Personalmente penso che il ‘problema’ della droga sia un ‘problema’ voluto al quale la società attuale non vuole mettere mano. Come se facesse più comodo che il ‘diverso’ sia silenzioso e accondiscendente ai problemi della vita moderna e che non agitandosi dovrà solo morire nel silenzio più totale. E’ bene sottolineare che il ‘tossico’ non cerca assolutamente la morte ma al contrario, cerca esperienze diverse, libertà, eccitazione e sicurezza interiore e per fare tutto questo, cerca l’illecito perché la sub-cultura gli indica questa strada come la più corta e semplice da percorrere. E’ una vittima perché vuole la morte senza saperlo e è colpevole perché va contro alla indoles – natura - dell’uomo.



Perugia è al trentunesimo posto come una delle città più spiate d’Italia, ogni telecamera è in grado di controllare 8250 cittadini e sono in funzione ventiquattro ore su ventiquattro. Cosa allora mai non potranno sapere le istituzioni locali e le forze addette su quello che succede nella nostra città? Torniamo al discorso di prima, le cose si sanno, ma fanno comodo e, quando fanno comodo, è meglio non vedere e tacere. George Orwell nel romanzo ‘1984’ e Aldous Huxley nel ‘Il mondo nuovo – Ritorno al mondo nuovo’ ci avevano ben avvisati di quello che stava per accadere nel futuro  - ormai presente – del controllo globale ma non per fini di sicurezza del nostro Popolo, della nostra gente ma per monitorare i movimenti delle persone e delle menti. Controllati, drogati e dunque maledettamente silenziosi.



Inoltre, bisogna analizzare il fatto che ci sono paesi che tramite il traffico della droga percepiscono cospicui guadagni.
I dati parlano chiaro: la narco-democrazia colombiana prospera più di cinque miliardi di dollari che rappresentano "il fatturato" annuale del famigerato cartello di Cali. O, tanto per fare un altro esempio, è il caso della Ex-Birmania, ora Myanmar, che nell’ultimo anno ha prodotto più di 500 milioni di anfetamine che vengono poi vendute al narcotraffico internazionale e i proventi vengono usati dalla giunta militare; che poi muoia una persona ogni venti minuti non importa a nessuno.



Ci troviamo davanti ad una situazione dove lo Stato che dovrebbe essere dalla parte dei cittadini, propone un silenzio assenso e non trova – o non vuole trovare – una soluzione definitiva ad un problema reale e dall’altro il nichilismo, ormai germogliato nella vita dei giovani d’oggi.



Cosa fare? Bisogna in primo luogo dare delle prospettive concrete ai nostri ragazzi, cambiare la cultura della morte con la cultura della vita, fargli trovare motivazioni per ‘costruirsi’ e non autodistruggersi. Bisogna, in poche parole, ‘trasformare’ le malattie in medicine.



E’ da questa falsa, falsissima libertà che si deve iniziare la vera lotta alla droga e alla decadenza.



Di Fabio Polese, uscito su Perugia Free Press 21 Marzo - 17 Aprile 2009

www.fabiopolese.splinder.com

giovedì 19 marzo 2009

Amica banca...



Quando uno sconosciuto viene improvvisamente a pretendere decine o centinaia di migliaia di € siete appunto stati "cartolarizzati", venduti a un usuraio. Ovviamente a vostra insaputa.


Ma consolatevi: venduti si, ma a "norma di Legge". Art. 58 D.Lgs 385/93.




Questo sito è dedicato alle "cartolarizzazioni", e quindi alla vendita dei crediti fatta dalle banche e dalle società finanziarie per un decennio, a partire dal D.Lgs 130/99 e con le regole definite dal D.Lgs 385/93, meglio conosciuto come "Testo Unico Bancario".




Queste due leggi, la 385/93 in particolare, creano una grave lesione nei diritti di chiunque abbia un debito nei confronti di una banca o una società finanziaria.



Gli effetti di questa pratica ora esplodono con la crisi finanziaria globale, e decine di migliaia di persone scoprono di esserci coinvolte a loro insaputa, per decine o centinaia di miliardi di €.




Se ne accorgono quando arriva una finanziaria sconosciuta a pignorare ed espropriare case, stipendi e conti correnti, e pretende "debiti" le cui cifre sono formate fuori da ogni controllo del debitore e in suo danno: al debito originale sono stati aggiunti interessi, spese, anatocismo senza che nemmeno lo sapesse.




In pochi giorni, si scopre di essere stati letteralmente venduti come "bestiame finanziario", prima per eludere il fisco per decine e decine di miliardi di €, e poi come "debitori garanti" dei famosi "Titoli Tossici".




Questo vuole essere un lugo dove si diffonde informazione sulla vicenda, si possono verificare i documenti, si discute e ci si organizza per difendersi. E' necessario perchè ad affrontare da soli lo strapotere delle banche e delle finanziarie ci si suicida-




E questo strapotere deriva da leggi che hanno sostituito le leggi precedenti che vietavano questa truffa colossale.


 


http://nuke.abusibancari.org/

IMMIGRAZIONE, UNA RISORSA… PER CHI?

L’immigrazione è generalmente considerata una risorsa, io invece la considero una sconfitta, anzi una duplice sconfitta.


Una sconfitta per i paesi d’origine che si dimostrano incapaci di assicurare un futuro ai loro figli costringendoli ad abbandonare la propria terra, i propri affetti, le proprie abitudini per cercare fortuna, dopo aver rischiato a vita a bordo di una carretta del mare, in paesi spesso inospitali. Come accadeva ai nostri nonni, quando con la valigia di cartone legata con lo spago in mano, leggevano esterrefatti all’ingresso dei bar della Svizzera interna cartelli con scritto: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.



Rappresenta una sconfitta per i paesi di approdo per gli inevitabili conflitti sociali che ne derivano quando, come nel nostro caso, il fenomeno raggiunge proporzioni di massa. Il telegiornale lo vediamo tutti i giorni e cos’è se non un bollettino di guerra? Questo accade perchè insieme agli immigrati che sbarcano a frotte sulle nostre coste con i migliori propositi ve ne sono tanti altri che giungono a noi con l’intento di delinquere. Come si fa a distinguerli? Non c’è l’hanno mica scritto in fronte che sono malviventi…. A questi si aggiungono coloro che un lavoro non lo trovano o che lo perdono e che, inevitabilmente, finiscono nei circuiti delinquenziali. Non è un caso che metà della popolazione carceraria sia costituita da extracomunitari. Non che gli italiani siano dei santarelli, tutt’altro e i fatti di cronaca lo dimostrano, ma agli spacciatori italiani si aggiungono gli spacciatori albanesi, agli stupratori italiani si aggiungono gli stupratori rumeni, alla mafia italiana si aggiunge quella cinese, russa e albanese. Senza contare la recrudescenza di rapine e furti nelle abitazioni nonostante la militarizzazione del territorio con telecamere ad ogni angolo di strada e forze di polizia, carabinieri, militari, vigili, vigilantes e ronde più o meno padane a presidiare i quartieri, (neanche durante il Fascismo c’era una presenza così massiccia e capillare di forze dell’ordine eppure, allora, si poteva dormire con le finestre aperte, mentre ora siamo costretti a barricarci in casa con allarmi e porte blindate…).



A questo punto dobbiamo domandarci a chi giova l’immigrazione, che molti si ostinano a considerare una risorsa, valutato l’altissimo costo sociale ed anche economico che tutti noi siamo chiamati a sostenere. Anche gli immigrati infatti si ammalano e vanno curati a spese dello Stato, le case popolari non bastano e ne vanno costruite di nuove anche per loro, davanti agli uffici degli assistenti sociali la coda dei disperati è sempre più scura. Adesso gli immigrati regolari versano i contributi, ma domani anche loro andranno in pensione e saranno a nostro carico.



La realtà è che l’immigrazione più che una risorsa per l’Italia è una convenienza per molti, come dimostra il paradosso che stiamo vivendo: da un lato italiani disoccupati o in cassa integrazione, famiglie alla disperazione e giovani senza futuro e dall’altro immigrati che invece un lavoro lo trovano. In tutti i settori della nostra economia dall’industria ai servizi, dall’artigianato all’agricoltura, troviamo stranieri che fanno gli stessi lavori degli italiani.



Perfino al sud, dove la disoccupazione è cronica, nella raccolta del pomodoro sono utilizzati quasi esclusivamente immigrati che accettano di lavorare dodici ore al giorno sotto il sole cocente di luglio per trenta/quaranta euro. E fanno pure i razzisti, infatti i cosiddetti caporali, anch’essi immigrati, ingaggiano solo i loro connazionali.



Al mercato, dietro le bancarelle si vedono sempre più facce orientali. Nelle case dei ricchi i domestici filippini sono d’obbligo (fanno tendenza). Fate caso ai camionisti, autotrasportatori e padroncini, vi accorgerete che sono quasi sempre stranieri. Elettricisti, idraulici, imbianchini, cuochi, manutentori e magazzinieri parlano spesso lingue a noi incomprensibili….E siamo solo all’inizio.



Se gli immigrati un lavoro lo trovano e gli italiani no cosa significa? Che siamo diventati un popolo di lazzaroni? Che i nostri giovani non hanno più voglia di lavorare? Che consideriamo degradante perfino fare l’operaio? Sicuramente c’è del vero in queste affermazioni: molti italiani più che al lavoro ambiscono al posto, molti disoccupati lo sono solo per il fisco, molti figli piuttosto che sporcarsi le mani preferiscono farsi mantenere dai genitori… ma bastano queste considerazioni a spiegare un fenomeno, quello dell’immigrazione più o meno clandestina, regolare o irregolare che sia, in forte e continua crescita?



La verità è che gli stranieri, come accennato nel caso della raccolta del pomodoro, a prescindere dal tipo di occupazione, sono preferiti sempre di più agli italiani. I nostri imprenditori scelgono gli immigrati per il semplice motivo che costano meno e rendono di più. Sono disponibili a lavorare in nero, non fanno storie quando gli si chiede di lavorare 10/12 ore al giorno per poche centinaia di euro, per dormire si accontentano di una branda in una fabbrica abbandonata o sono disposti a lasciare parte del loro magro compenso al datore di lavoro per un posto letto in un tugurio, se cadono dall’impalcatura nessuno se ne accorge, nei laboratori clandestini dove si produce per le grandi firme i cinesi vivono e dormono sul posto lavoro….tutte condizioni indegne per un paese civile, ma accettabili per chi proviene dall’Africa più nera o dai balcani squassati dalla guerra o dalla Cina dei campi di lavoro e che fanno la fortuna dei tanti, tantissimi imprenditori italiani senza scrupoli e coscienza.



Gli extracomunitari che trovano un’occupazione regolare sono invece preferiti agli italiani perché si dimostrano più bravi, più volenterosi e maggiormente motivati: sanno che se perdono il lavoro si giocano il permesso di soggiorno e questo li porta a sopportare qualunque sopruso e a qualsiasi richiesta del padrone italiano rispondono sempre di si.



Perfino negli ospedali troviamo infermieri stranieri. Questo non perché gli italiani considerino il lavoro nelle corsie degradante, basta andare in Svizzera dove sono pagati meglio per capirlo, ma perché le assunzione avvengono tramite gare d’appalto affidate alle cooperative che per abbassare i costi utilizzano infermieri dell’est, diplomati e spesso laureati. Lo stesso accade nell’edilizia dove una volta i dialetti più diffusi erano il meridionale e il bergamasco adesso è invece una babele di lingue. La distribuzione dei volantini e delle rubriche telefoniche, che in passato permettevano ai nostri ragazzi di arrotondare la paghetta e, in alcuni casi, di mantenersi agli studi, è affidata esclusivamente agli immigrati.



Fino a qualche anno fa gli industriali del nord poteva scegliere tra un lavoratore lombardo ed uno meridionale. Adesso hanno di fronte un lombardo, un meridionale ed un extracomunitario. Chi si offre a meno?



Il partito di Bossi ha sponsorizzato un film sulle 5 giornate di Milano, per le comparse chi pensate abbiano utilizzato, giovani padani? Neanche per sogno, un migliaio di rumeni ingaggiati direttamente nel loro paese. La giunta provinciale di Varese a guida nordista non ha battuto ciglio quando, per i mondiali di ciclismo dello scorso anno, il ricco mercato dei gadget è stato affidato a ditte cinesi invece che alle industrie del nord (e poi tappezzano le nostre città con manifesti con cui denunciano l’invasione dei prodotti made in China).



Anche in questo caso le ragioni del soldo prevalgono su tutto, anche sulla fede padana.



A Milano intieri quartieri sono in mano ai cinesi che hanno acquistato, pagando in contanti e senza battere ciglio, appartamenti e attività commerciali. Da chi comprano immobili e negozi se non da quegli stessi italiani che poi si lamentano per la loro presenza?



Per non parlare di Malpensa dove tutto passa attraverso pseudo cooperative che per attività manuali quali catering, pulizie e facchinaggio utilizzano quasi esclusivamente extracomunitari, gli unici in grado di accettare condizioni di lavoro da terzo mondo.



Quando i nostri industriali, partiti e sindacati lanciano l’allarme occupazione, quando il governatore di Bankitalia Draghi si straccia le vesti per i contratti a termine che non saranno rinnovati, quando il governo con i nostri soldi sostiene l’industria dell’auto e la cementificazione del territorio….quando gli uomini che contano ci esortano a creare nuovi posti di lavoro a chi si riferiscono, agli italiani o agli immigrati?



Tutti noi siamo chiamati a fare sacrifici, ma a quale scopo, per dare un futuro ai nostri giovani, per dare un lavoro ai nostri disoccupati o per sostenere l’immigrazione ad esclusivo vantaggio di certi imprenditori?



Il buon senso ci porterebbe considerare gli italiani prima degli immigrati, come una madre in caso di difficoltà aiuta prima suo figlio e poi il figlio di uno sconosciuto, invece la convenienza politica e le ragioni dell’economia - sempre più dominata dalla finanza e dalla logica del puro profitto - vanno da tutt’altra parte e stridono con i bisogni di un popolo in difficoltà.



Alla base di questo fenomeno, solo in apparenza contraddittorio, vi sono convinzioni ideologiche e vantaggi economici che mettono d’accordo tutti: i partiti, da destra a sinistra, gli imprenditori e anche la Chiesa. A farne le spese sono, come al solito, gli italiani.



Per la destra il principio cardine del capitalismo - il fatidico libero mercato - porta i nostri politici e imprenditori che si riconoscono pienamente in questa ideologia, a non fare distinzione tra italiani e stranieri. Per loro i lavoratori sono solo dei mezzi di produzione, una sorta di articoli di magazzino da usare quando servono e da eliminare quando diventano un costo. Se sono stranieri tanto meglio, rendono di più, costano di meno e si cacciano più facilmente e poi li fanno sentire moderni, democratici e altruisti….quasi, quasi dei benefattori.



Come faccia la destra di Fini a conciliare il suo decantato principio di identità nazione con la massiccia immigrazione è poi un mistero.



La sinistra, legata al mito della società multietnica, non pare interessata alle sorti dei nostri operai altrimenti si batterebbe per eliminare questa concorrenza sleale ai loro danni. Non lo fanno, gli eredi di Marx, per diluire la nostra identità e perché sono nostalgicamente legati al mito dell’uguaglianza: tutti uguali di fronte alla miseria. E poi pensano, o meglio si illudono, di indottrinarli facilmente per colmare i vuoti nelle fila dei loro tesserati.



La Chiesa, infine, per un mal compreso senso di solidarietà. Se per una madre suo figlio viene prima di tutti ed è disposta a qualunque cosa per il suo bene, per la Chiesa, che ha una visione sovranazionale e non si riconosce nel concetto di Patria, non vi è differenza tra italiani e stranieri. Sono tutti figli di Dio, quindi ben vengano i nuovi diseredati che si aggiungono ai nostri sofferenti, con la differenza che i nuovi venuti una fede già ce l’hanno, e non è quella cattolica….e poi, diciamola tutta, per alcune associazioni umanitarie come la Caritas che percepiscono fior di quattrini dallo Stato per l’assistenza agli immigrati, l’immigrazione rappresenta un bel business.



Su queste considerazioni, che già di per sé basterebbero per squalificare i nostri politici e a comprendere l’affanno della Chiesa, sovrasta l’ideologia capitalista.



Il capitalismo appunto, malattia infantile di un’Europa alla deriva. Nato trecento anni fa dalla mente perversa di un economista fallito, certo Adam Smith, si esprime attraverso il principio del libero mercato. Libero mercato è la ricerca a tutti i costi della convenienza economica, a prescindere da qualunque considerazione di ordine etico, sociale, di interesse nazionale o di semplice buon senso.



Il capitalismo - da non confondere con la libertà d’impresa e con la proprietà privata che sono sempre esistiti in quanto insiti nella natura umana e che hanno contribuito allo sviluppo delle civiltà, quelle vere - ha un solo obiettivo, il profitto ed una sola regola, il mercato.



“Meno stato e più mercato”. Questo slogan demenziale ha portato, solo per fare alcuni esempi, a distruggere le nostre arance, le migliori del mondo, per importare gli agrumi da Israele e dalla Spagna, a multare i nostri allevatori per poi acquistare il latte dalla Francia, a chiudere le fabbriche in Italia per spostare la produzione all’estero, ad abbandonare interi settori manifatturieri per importare gli stessi prodotti da Cina, Pakistan o India, ed ora ad assumere immigrati.



E lo Stato? Tace e acconsente, anzi si compiace perché il principio del libero mercato è rispettato. Non fa nulla se dipendiamo sempre di più dall’estero, che non abbiamo più una nostra economia e che ci siamo legati a filo doppio a quella americana.



Dipendenza economica significa anche dipendenza politica, ne sono la riprova le 113 basi militari americane (alcune nucleari) sul nostro territorio e mantenute con i nostri soldi, gli oltre 10mila soldati italiani all’estero a sostenere, a nostre spese, le guerre volute da Bush, la nostra politica estera scodinzolante e il peso politico internazionale praticamente nullo.



L’Italia, anche nel recente passato, ha invece dimostrato di saper camminare con le sue gambe e di non aver bisogno d’immigrati per prosperare. Durante gli anni trenta si è modernizzata ed ha primeggiato in tutti i settori dell’economia, nella tecnica e nella ricerca, nei difficili anni della ricostruzione ha saputo risalire la china fino a diventare una potenza economica. Tutto questo grazie allo spirito d’iniziativa ed alla voglia di fare dei nostri imprenditori che credevano nella loro attività, perché consapevoli che facendo grande la loro impresa facevano grande l’Italia e grazie all’impegno dei nostri operai e impiegati che vedevano nella fabbrica la loro seconda famiglia. Lavoravano duro, ma con la tranquillità del posto fisso e la certezza della pensione. Agevolati in questo dai governanti dell’epoca il cui unico obiettivo era il bene dell’Italia e degli italiani.



Se oggi, come vogliono farci credere, la nostra economia dipende dagli immigrati è perché la nostra classe imprenditoriale ha perso la sua coscienza sociale e il suo amor di Patria per abbracciare l’ideologia capitalista. Con il pretesto della “competitività sui mercati internazionali” (bella frase) i nostri capitani d’industria, a seconda della convenienza, assumono mano d’opera immigrata per abbassare i costi, trasferiscono all’estero la produzione, oppure si convertono in semplici e redditizi importatori dalla Cina. In altri casi (vedi Cirio e Parmalat) usano gli utili d’impresa per avventate speculazioni di borsa che trascinano nel baratro aziende sane. Scandaloso è il comportamento della Fiat che dopo aver usufruito per decenni di aiuti di Stato sposta la produzione dei suoi modelli di punta in Polonia e Brasile. L’Indesit, altro esempio eclatante di questi giorni - ma l’elenco potrebbe continuare a lungo - incassa il sostegno del governo alla vendita di elettrodomestici e come ringraziamento chiude il suo stabilimento in Italia, licenzia gli oltre 600 lavoratori e riapre in Polonia. E il governo? E i nostri politici di destra e di sinistra? E i sindacati? Non hanno nulla da dire? La stessa opinione pubblica, sempre più rassegnata e resa apatica, non reagisce, allarga le braccia e continua a subire.



Anche il sud del mondo non va certo meglio, sta infatti soffrendo anch’esso le conseguenze nefaste del capitalismo globalizzato. Dopo le rapine delle potenze coloniali dei secoli scorsi, nei Paesi dei terzo mondo privi di risorse naturali si era avviata un’economia di sussistenza, semplice e primitiva, ma che garantiva a quelle popolazioni stremate dalla fame perlomeno la sopravvivenza e creava i presupposti per un successivo sviluppo. Quello che si produceva in agricoltura, pastorizia e pesca serviva principalmente a loro e solo le eccedenze venivano esportate.



Poi sono arrivate le multinazionali che con il pretesto degli aiuti umanitari hanno imposto le monocolture e la scandalosa produzione dei biocarburanti (coltivazioni per ricavarne benzina e gasolio) destinate esclusivamente all’esportazione. Tutto ciò di cui quelle popolazioni avevano bisogno e che in precedenza producevano in proprio viene ora importato, naturalmente dalle stesse multinazionali e pagato a caro prezzo.



E qui entrano in gioco il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale prodighi di prestiti subordinati alla completa trasformazione dell’economia di sussistenza in economia di mercato per l’esportazione. In più, parte di quel fiume di dollari che legano a filo doppio quei paesi condannandoli a pagare per sempre tassi d’interesse usurai, finiscono nelle casse dei dittatorelli di turno che li usano per acquistare armi, vendute naturalmente dagli occidentali e così quei dollari ritornano da dove sono venuti. Rappresentativa è l’immagine del bambino africano denutrito con al suo fianco il miliziano ben pasciuto, che spara all’impazzato a bordo di una camionetta. Manca il cibo, ma non le armi, manca l’acqua, ma non la benzina per i militari.



Non va meglio per i paesi del sud più progrediti. Sono diventati anch’essi preda del capitalismo mondializzato che impianta fabbriche per la produzione dei soli beni di largo consumo per l’occidente, il resto deve essere importato a caro prezzo e, anche in questo caso, il cerchio si chiude ad esclusivo vantaggio delle multinazionali. Questa è quella che gli economisti chiamano globalizzazione e che molti confondono con la libera circolazione degli uomini e delle idee, quando invece la globalizzazione o mondialismo altro non è che l’estensione planetaria del libero mercato, gestito dalla multinazionali e controllato dall’alta finanza.



Non è un caso che le due più grandi crisi, quella del ’29 e quella attuale, siano di origine finanziaria e che siano partite dall’America, sede delle maggiori corporations e dei grossi gruppi che controllano il mondo. In entrambi i casi operazioni di borsa avventate e bolle speculative fuori controllo hanno causato danni irreparabili alle economie reali di tutti i paesi.



Interessante, riguardo alla crisi del 1929, è il caso dell’Italia che fu appena sfiorata da quel ciclone. In quegli anni tutte le economie occidentali di stampo capitalista furono colpite da una recessione spaventosa che portò alla disoccupazione di massa - basti pensare ai 6milioni di disoccupati della Germania e al tasso di disoccupazione dell’America che passò dal 4 al 25% mentre i tre quarti dei contadini furono ridotti alla fame – all’iperinflazione che obbligò la Repubblica di Weimar ad emettere una banconota da 5miliardi di marchi, che tuttavia non bastava per acquistare il pane (chi aveva la fortuna di trovarlo), all’aumento impressionante della violenza di strada, suicidi, alcolismo, famiglie alla disperazione e giovani allo sbando.



L’Italia invece ne rimase indenne, questo perché il regime fin dal suo avvento si adoperò per gettare le basi di una solida economia nazionale finalizzata, per quanto possibile, all’autosufficienza, soprattutto in campo alimentare e riparata dai grandi giochi internazionali di borsa (vedi il rafforzamento della lire sulla sterlina, la cosiddetta quota novanta). Ricordate la tanto sbeffeggiata campagna per il grano? Ebbene servì a ridurre la dipendenza dall’estero, a risanare terre incolte e a dare lavoro ai nostri contadini, anche se si sapeva benissimo che importare il grano dall’Argentina costava meno.



Un vasto piano di opere pubbliche e di risanamento ambientale contribuì ad assorbire la disoccupazione e a rilanciare l’economia e, cosa non secondaria, a sottrarre manovalanza alla Mafia che fu costretta, anche grazie al pugno duro del Regime, ad espatriare in America dove trovò, non a caso, terreno fertile (salvo poi ritornare in Patria a “liberazione” avvenuta).



Ma fu soprattutto lo Stato Sociale a mettere al riparo i nostri lavoratori dai contraccolpi della crisi internazionale. Istituiti come l’INPS, l’INAL, l’Istituto Case Popolari, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, l’assistenza sanitaria gratuita e la scuola pubblica accessibile a tutti, gli assegni familiari, la scala mobile per l’adeguamento dei salari, i contratti collettivi di lavoro, le ferie pagate, la liquidazione, le colonie estive per i figli degli operai e altro ancora permisero di limitare i danni e a dare serenità agli italiani, nonostante la soppressione dei partiti.



Altri Istituti come l’IRI e il CNR aiutarono le industrie in crisi a riconvertirsi. Il controllo dello Stato sulle banche e la nascita di grandi istituti bancari come il Credito Italiano fecero il resto. Tutti interventi estranei ai principi dell’economia di mercato e in contrasto con i dogmi del capitalismo.



Lo Stato Sociale fascista fu poi malamente ripreso da Roosevelt con il cosiddetto New Deal che, applicato in un contesto capitalistico come quello americano, non sortì alcun effetto, infatti la depressione si protrasse fino al 1940 e solo l’entrata in guerra, con il conseguente impulso derivante dall’industria degli armamenti, permise all’America di uscire dalla crisi. Ancora oggi la produzione delle armi esportate in tutto il mondo (a sostegno della democrazia, si dice) rappresenta una voce primaria per l’economia USA.



Ora ci risiamo, ancora una volta il giocattolo degli economisti si è rotto e tutti ne facciamo le spese. Solo che non siamo negli anni trenta, quel poco di Stato Sociale rimasto è degenerato nell’assistenzialismo e i nostri politici, sindacati e imprenditori non sanno vedere oltre il capitalismo, per giunta assistito e parassitario.



Come uscirne? Basta superare l’ideologia e tornare al buon senso, agendo da subito sulla leva fiscale per incentivare l’assunzione dei nostri disoccupati: meno contributi a chi assume italiano e più tasse a chi impiega mano d’opera straniera e maggiori sanzioni per chi l’utilizza in nero. Vedrete che, a parte l’accusa di razzismo dei soliti ben pensanti con la pancia piena, il fenomeno degli sbarchi andrà a ridursi perchè verrà meno la motivazione, ossia la possibilità di trovare facilmente e comunque un’occupazione.



Agevolazioni a chi produce in Italia e maggiori oneri per chi importa dall’estero a scapito delle nostre aziende (vuoi la felpa fatta in Cina? La paghi di più). Accordi internazionali bilaterali di cooperazione e libero scambio tra governi e senza la mediazione delle banche per importare ciò che ci manca, o che non siamo in grado di produrre, ed esportare ciò in cui eccelliamo. Superamento delle assunzioni a termine, sostegno all’apprendistato e introduzione del principio di partecipazione dei lavoratori agli utili delle grandi Aziende con l’ingresso di una rappresentanza sindacale nel Consiglio di Amministrazione. Mutuo sociale per il diritto alla proprietà della casa, abitazioni realizzate direttamente dalle Regioni, senza fini speculativi e senza le costose intermediazioni di banche e agenzie immobiliari.



E i soldi? I soldi ci sono, basta saperli usare. Sapeste quanti ne sono sprecati in opere inutili e spesso incompiute, quanti soldi gettati al vento per farci belli agli occhi del mondo o per compiacere i vari Gheddafi, quanti quattrini versiamo ogni anno all’Europa, fondi che solo in parte ci vengono restituiti sotto forma di finanziamenti per progetti spesso di dubbia utilità, quanti soldi se la lotta all’evasione fosse condotta seriamente…e per carità cristiana mi fermo qui.



Se poi il nostro esercito di politici, governanti e amministratori di società pubbliche rinunciassero solo ad una parte dei lori lauti stipendi, spesso immorali e ingiustificati, si libererebbero ulteriori risorse, oltre a dare un segnala forte di vicinanza agli italiani che soffrono a causa delle loro scelte sbagliate (dubito però che da quest’orecchio i nostri politici ci sentano).



Vogliamo uscire e in fretta da questa crisi? Allora finiamola una volta per tutte di pensare a ricette ideologiche vecchie e superate, che hanno creato solo danni, ingiustizie e grandi profitti per i soliti noti e adoperiamoci per costruire una solida economia nazionale in un rinnovato Stato Sociale. E solo allora, avendone nel frattempo creato i presupposti economici, potremo pensare alle popolazioni del sud del mondo che stanno sicuramente peggio di noi.



Gianfredo Ruggiero, presidente Circolo Excalibur - Varese