mercoledì 30 settembre 2009

COMUNICATO STAMPA 30-09-09

LIBERA STAMPA E GIORNALISMO PARTECIPATIVO NELLA REALTA’ LOCALE



Ad oggi la circolazione delle notizie, sui grandi media, è subordinata alla volontà dei "sistemi" che gestiscono i media stessi, cioè a ciò che ritengono giusto farci sapere o al contrario sottacere. Negli ultimi anni, però, grazie ad internet e alla diffusione di testate - on line e non - libere e non preconfezionate, la comunicazione e il metodo di diffusione e fruizione delle notizine si sta lentamente ma radicalmente rivoluzionando. Analizzare i fatti cercando un sempre maggior numero di fonti attendibili è ora possibile. Lo sviluppo del giornalismo partecipativo sta a dimostrare che una sempre più grande fetta dei lettori non vuole fermarsi più alla sommaria assimilazione passiva delle notizie, ma vuole approfondirne le fonti, integrarle e, talvolta, denunciarne le manipolazioni. Per parlarne e confrontarci su questo esteso e interessante argomento, il giorno 3 Ottobre 2009 alle ore 17.00 presso la sala S. Chiara in via Tornetta, 7 - Porta S. Susanna - l’Associazione Culturale Tyr Perugia organizza l’incontro sul tema: “Libera stampa e giornalismo partecipativo nella realtà locale”. Parteciperanno Ettore Bertolini, giornalista e direttore della testata on-line Tifogrifo.com, Maurizio Vignaroli, giornalista e direttore di Perugia Free Press, Leonardo Varasano, giornalista, collaboratore de Il Giornale dell’Umbria e Consigliere Comunale. Convinti che una diversa e libera informazione sia possibile ed auspicabile, invitiamo tutti i cittadini e gli organi di stampa a partecipare.



Per informazioni e contatti: controventopg@libero.it – 346.8872982




Associazione Culturale Tyr Perugia

www.controventopg.splinder.com

C'è sempre qualcuno più uguale degli altri.

Ma sì, è stato giusto consegnare Parlanti.



C'è sempre qualcuno più uguale degli altri.



Roman Polanski condannato in Usa per lo stupro consumato e comprovato di una minorenne, o meglio di una bambina, si era sottratto alla legge americana quando era cittadino statunitense. Arrestato in Svizzera ora che è cittadino francese è stato prontamente liberato per la mobilitazione transalpina.

Carlo Parlanti, un cittadino italiano, è stato giudicato e condannato in contumacia, a sua insaputa, perché la sua ex donna americana lo ha accusato di aver abusato di lei. L'accusa fa peraltro acqua da tutte le parti e l'accusatrice aveva già tentato il medesimo colpo ai danni del suo ex marito, americano, ma era stata dichiarata priva di qualsiasi credibilità. Cinque anni fa in Germania Carlo Parlanti venne arrestato, le autorità italiane nulla fecero per impedire che il nostro connazionale fosse consegnato agli Usa così come nulla fanno oggi perché gli vengano assicurate le cure mediche quotidianamente negate. Che sfortuna per Parlanti oltre all'essere un illustre sconosciuto l'avere anche a che fare con la Farnesina e non con il Quai d'Orsay.









Ma sì, è stato giusto liberare Polanski.



C'è sempre qualcuno più uguale degli altri



Prima pagina del Corriere della Sera: "Caia racconta i dettagli: metalmeccanico di Mirafiori in manette per stupro. La bambina al tempo dei fatti aveva 13 anni!" Bene, lo schifoso pedofilo ha quel che si merita!

Ma il corrierone te la racconta così: "Roman Polanski, una vita degna di un film", e giù coi racconti del bambino ebreo rinchiuso nel ghetto di Varsavia dai perfidi tedeschi. Che resiste, sopravvive, eroicamente diviene una star e molto meno eroicamente, a 46 anni, violenta una bambina di 13 anni dopo averla adeguatamente drogata.

Il metalmeccanico avrebbe di che pentirsi. Un bel festino in carcere dopo un lungo

periodo d'isolamento; la gogna mediatica, i familiari che negano di averlo mai conosciuto, il circo dei politici ad invocare la castrazione chimica. Roman invece ha la Bellucci che s'indigna perché, in fondo, son passati trent'anni e l'uomo è cambiato. E con la Bellucci il letamaio radical chic a gridare sdegno per i diritti del Maestro violati.

Ma sì, liberato. Volete mettere i peccatucci di gioventù (46 anni) di un ex bambino del ghetto di Varsavia, perlopiù ricco e famoso, coi pericolosi ultras, i cittadini (razzisti!) che s'incazzano con gli extracomunitari che spacciano sotto casa? E se dietro la carcerazione di Polanski ci fosse quel pericoloso rigurgito di antisemitismo?

Libertà, fratellanza! Uguaglianza, talvolta.



Tratto da: www.noreporter.org

martedì 29 settembre 2009

Menzogna Afgana.

Dobbiamo piantarla con la menzogna che siamo in Afghanistan, oltre che per portarvi una democrazia di cui a quella gente non importa nulla, per combattere il terrorismo internazionale.



Gli afgani non sono mai stati terroristi, tantomeno internazionali. Non c'erano afgani nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle, non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda scoperte dopo l'11 settembre. C'erano arabi sauditi, yemeniti, giordani, egiziani, algerini, tunisini, ma non afgani. Nei dieci anni di durissimo conflitto contro l'invasore sovietico gli afgani non si resero responsabili di un solo atto terroristico, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori dal loro Paese, e se dal 2006 si sono decisi a ricorrere anche a quest'arma all'interno di una guerra di guerriglia è perché si trovano di fronte ad un nemico quasi invisibile che usa prevalentemente bombardieri, possibilmente Dardo e Predator, aerei senza pilota ma armati di missili, telecomandati da Nellis nel Nevada. Del resto non si può gabellare una lotta di resistenza che dura da otto anni, con l'evidente appoggio di gran parte della popolazione senza il quale non potrebbe esistere, per terrorismo. Gli stessi Pentagono e Cia, nei loro documenti, chiamano i guerriglieri "insurgents", insorti. Solo il ministro La Russa usa ancora il termine "terroristi".



In Afghanistan all'epoca dell'attacco alle Torri Gemelle c'era Bin Laden. Ma i Talebani, preso il potere, se l'erano trovati in casa e, dopo gli attentati in Kenia e Tanzania, era diventato un problema anche per loro. Tanto che quando Clinton nel 1998, attraverso contatti discreti, propose al Mullah Omar di uccidere lo sceicco saudita il leader talebano si mostrò disponibile. Inviò a Washington il suo braccio destro, Ahmed Wakij, che incontrò il presidente americano due volte, il 28 novembre e il 18 dicembre. Wakij propose due alternative: o gli americani fornivano ai Talebani alcuni missili per colpire lo sceicco oppure sarebbero stati i Talebani a dare agli Usa le coordinate esatte del luogo dove si trova Osama in modo che potessero centrarlo a colpo scuro. Ma nell'un caso e nell'altro la responsabilità dell'attentato dovevano assumersela gli americani perché Bin Laden in Afghanistan aveva costruito ospedali, strade, ponti, godeva di una grande popolarità presso la popolazione e il governo talebano non poteva assumersi la paternità del suo assassinio. Stranamente Clinton declinò l'offerta (Documento del Dipartimento di Stato, agosto 2005).

In ogni caso Bin Laden è scomparso dalla scena da anni. Si dice allora che, Bin Laden o no, l'Afghanistan è tuttora la culla del terrorismo quaedista, cioè arabo. La Cia ha calcolato che fra i circa 50 mila "insurgents" ci sono 386 stranieri. Ma sono uzbeki, ceceni, turchi. Non arabi. E poi che interesse avrebbero i terroristi internazionali a far base in un Paese presidiato da 110 mila soldati Nato, quando potrebbero stare nello Yemen, dove c'è un governo che li protegge, o mimetizzarsi fra la popolazione in Arabia Saudita, in Giordania, in Egitto per prepararvi in tutta tranquillità i loro eventuali attentati? Al Quaeda, ammesso che esista, è una realtà del tutto marginale in Afghanistan. Ma noi la prendiamo a pretesto per continuare ad occupare quel Paese.

Le altre motivazioni con cui cerchiamo di legittimare la nostra presenza sono: riportare la sicurezza e la stabilità nel Paese, la lotta alla corruzione dilagante, alla disoccupazione, alla droga.



È del tutto evidente che la situazione di insicurezza e di instabilità è provocata proprio dalla presenza delle truppe occidentali perché quel popolo orgoglioso e fiero, che ha cacciato inglesi e sovietici, non tollera occupazioni, comunque motivate.



Stabilità e sicurezza ci sono state nei sei anni del governo talebano. E qui bisogna fare un passo indietro altrimenti non si capisce niente né del fenomeno talebano nè di ciò che accade oggi in Afghanistan. Dopo la sconfitta dei sovietici, i leggendari comandanti che li avevano combattuti, gli Ismail Khan, gli Heckmatyar, i Dostum, i Massud, e i loro sottoposti, in lotta per la conquista del potere, si erano trasformati in bande di taglieggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio. La crescita del movimento talebano fu dovuta a questo. I Talebani, appoggiati dalla popolazione che non ne poteva più di quei soprusi, combatterono e sconfissero i "signori della guerra" e li cacciarono dal Paese riportandovi l'ordine e la legge, sia pure un duro ordine e una dura legge, la shariah. Nell'Afghanistan del Mullah Omar, come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto, si poteva viaggiare tranquilli anche di notte. In quell'Afghanistan non c'era disoccupazione perché il Mullah, sia pur con qualche moderata e mirata concessione all'industrializzazione, aveva mantenuto l'economia di sussistenza. Non c'era corruzione per il semplice motivo che i Talebani facevano impiccare i corrotti. Infine dal 2000 non c'era neppure più traffico d'oppio perché il Mullah aveva troncato la coltivazione del papavero (si veda il diagramma pubblicato dal Corriere il 12/6/2006: nel 2001, anno in cui rileva la decisione presa nel 2000, la produzione di oppio crolla quasi a zero, oggi l'Afghanistan produce il 93% dell'eroina).



E allora cosa dovremmo fare? Sbaraccare e "lasciare che gli afgani sbaglino da soli". E invece restiamo. Le ragioni le spiega, senza pudore, Sergio Romano sul Corriere (19/9): gli Stati Uniti devono salvare la faccia, i Paesi alleati mantenere il loro "prestigio internazionale". E così per la nostra bella faccia continuiamo ad ammazzare uomini, donne, bambini afgani a decine, forse a centinaia di migliaia perché dei morti afgani nessuno tiene il conto quasi che non avessero anche loro, come i nostri "ragazzi", padri, madri, spose, figli. Non sono morti uguali ai nostri. Non appartengono alla "cultura superiore".



Di Massimo Fini, tratto da: www.ariannaeditrice.it

domenica 27 settembre 2009

Alessandro Bruschetti. Futurismo aeropittorico e purilumetria.

5 settembre – 1 novembre 2009


Nell’anno del Centenario della nascita del Futurismo l’Umbria dedica un’importante mostra monografica ad uno dei più noti futuristi umbri della seconda generazione: Alessandro Bruschetti.



Come per altri grandi eventi la mostra, Alessandro Bruschetti futurismo aeropittorico e purilumetria, è articolata in più sedi. A Palazzo della Corgna di Castiglione del Lago, Perugia, saranno presentate circa settanta opere datate fra il 1928 e il 1977 che ripercorrono tutto l’itinerario estetico dell’artista e l’evoluzione del suo linguaggio, mentre a Palazzo Baldeschi al Corso di Perugia, sede espositiva della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, si focalizzerà l’attenzione sull’ampio tema del Sacro, anch’esso declinato dall’artista in vari linguaggi, con circa quaranta di opere.



Questa mostra è la prima retrospettiva monografica dopo quella Antologica dedicatagli dalla Regione Umbria, a Perugia, seguita alla  morte dell’artista avvenuta nel 1980.



L’evento è stato reso possibile dal contributo del Comune di Castiglione del Lago e da quello della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e si avvale del patrocinio della Regione dell’Umbria, Provincia di Perugia, Comune di Perugia e Fondazione Accademia di Belle Arti di Perugia.



Il progetto scientifico è degli Archivi Gerardo Dottori e in particolare di  Massimo Duranti, autore della prima monografia sull’artista. Organizzazione e realizzazione della mostra a cura di Andrea Baffoni, Caterina Bizzarri, Francesca Duranti, e Antonella Pesola.



L’inaugurazione dell’evento si terrà sabato 5 Settembre alle ore 11,30 a Palazzo Baldeschi al Corso di Perugia e a Palazzo della Corgna di  Castiglione del Lago alle ore 17,30.



In occasione della mostra, la casa editrice Gangemi di Roma pubblicherà una monografia sull’artista con saggi di Massimo Duranti, Andrea Baffoni, Caterina Bizzarri, Francesca Duranti e Antonella Pesola che analizzano l’attività dell’artista spaziando dagli esordi figurativi alla stagione futurista, a quella della purilumetria e del Sacro, nonché alla sua ricca attività di restauratore e di freschista. La monografia conterrà inoltre ricchi ed inediti apparati biobibliografici e documentari pubblicando circa 600 opere (di cui 200 a colori), molte delle quali inedite.



Alessandro Bruschetti è, dopo Gerardo Dottori, il più importante pittore Futurista umbro.



Nato a Perugia nel 1910, si forma presso l’Istituto d’Arte e l’Accademia di Belle Arti della stessa città; nel 1931 si trasferisce a Roma, per seguire i corsi dell’Istituto del Restauro e consegue l’abilitazione all’insegnamento.



Durante la permanenza nella Capitale entra in rapporti col Movimento futurista dopo che Marinetti vede il suo Dinamismo di cavalli e ne decreta ufficialmente l’ingresso nel gruppo. L’incontro lo aveva combinato il concittadino  Gerardo Dottori, conosciuto a Roma, con il quale stringe da subito un fecondo sodalizio. Espone per la prima volta nel 1931 alla II Mostra Sindacale di Perugia e nel 1935 allestisce la prima personale da Bragaglia, a Roma. Nel 1933 partecipa alla Mostra Nazionale Futurista a Roma e all’Omaggio futurista a Umberto Boccioni a Milano. E’ presente così a tutte le più importanti manifestazioni artistiche: alle Biennali di Venezia  (1934, 1936, 1938 e 1942) e Quadriennali di Roma del 1935 e 1939. A livello internazionale partecipa alle mostre di aeropittura ad Amburgo e Berlino del 1934 e di Istanbul e Vienna del 1935. Nello stesso anno torna a Perugia dove inizia un’intensa attività di restauratore, che lo porta fra il 1938 ed il 1940 a Castiglione del Lago, impegnato nei restauri dell’affresco della Madonna delle Grazie, nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena. In tale occasione conosce Maria, la sua futura moglie, donna forte e risoluta che lo aiuterà nei momenti difficili. Con lei pochi anni dopo si trasferisce a Città di Castello e successivamente a Monza, dove stringerà amicizia con altri esponenti del Futurismo milanese come Andreoni, Acquaviva, Belloli, Crali con i quali espone in varie rassegne. Aderisce a Futurismo-Oggi di Benedetto nel 1967.



A Monza risiederà per molti anni senza però perdere mai  contatti con la sua città natale dove tornerà in effetti a vivere dall’inizio degli anni Settanta.



Nell’ambito del Futurismo Bruschetti è noto soprattutto per aver sviluppato uno stile aeropittorico di ascendenza dottoriana con caratteristiche tuttavia di maggiore analiticità, come sottolineato dallo stesso Marinetti che, appena conosciuto, lo inserì a pieno titolo nel Movimento. Egli era infatti dotato di una grande abilità pittorica ed aveva sviluppato una tecnica in base alla quale la stesura pittorica risultava estremamente precisa nella costruzione geometrica e fortemente rigorosa sul piano formale. Questo lo aveva portato a sviluppare vedute aeroplaniche di grande effetto dove le macchine volanti che solcano il cielo creano arabeschi aerei altamente suggestivi. Dopo la fine del Futurismo, nel 1944, Bruschetti attraversa un periodo di sperimentazione che lo conduce ad elaborare quello che lui stesso definirà pittura purilumetrica, cioè ispirata ad un mondo siderale di forme geometriche ed astratte. Una pittura di forme cosmiche pure, realizzate in forma di solidi geometrici ed illuminate da una luce metafisica ultraterrena per cui, soprattutto nell’ultima fase, sperimenta anche l’inserimento di elementi metallici. Da qui il nome di una pittura purilumetrica.



Muore a Brugherio, Milano, nel Natale del 1980 mentre era a casa di una delle figlie.


Tratto da: www.gerardodottori.net

venerdì 25 settembre 2009

Parla lui... Vanno via gli altri... Democratici occidentali.

NEW YORK - «Lo stato ebraico si è reso responsabile di politiche inumane contro i palestinesi». «Le forze stranie re spargono guerra, sangue, aggressione, terrore e intimi dazione in Iraq e in Afghani stan». E ancora: «Le elezioni in Iran sono state gloriose e pienamente democratiche, aprendo un nuovo capitolo per il mio Paese». Nel suo terzo discorso da vanti all’Assemblea Generale dell’Onu, il presidente irania no Mahmoud Ahmadinejad ha rispolverato ancora una volta le sue requisitorie più stantie, vecchie ormai di anni, tornan do ad inveire contro l’Occiden te, il capitalismo e una presun ta lobby ebraica, più volte men zionata senza citarla.



«Non è possibile che una piccola mino ranza domini la politica, l’eco nomia e la cultura mondiale», ha arringato Ahmadinejad, che è salito sul podio verso le sette di sera (ora di New York) e nel suo discorso si è guardato bene dal menzionare il dossier nucleare. Dopo essere stato il protago nista assoluto delle ultime due Assemblee generali dell’Onu — nel ruolo del cattivo più te muto d’America, dopo Hanni­bal Lecter e Darth Vader — Ah madinejad sapeva che ad oscu rare il suo terzo exploit Onu sa rebbe stato il colonnello libico Muammar Gheddafi, al suo de butto al Palazzo di Vetro. Ma se era difficile eguagliare ciò che il New York Times ha defi nito «la farneticante e intermi nabile diatriba di Gheddafi», Ahmadinejad ha cercato co munque di reclamare per sé un po’ dei riflettori che per tut ta la giornata erano finiti sul leader libico. Solo alla fine, Ah madinejad ha aggiunto che l’Iran «stringerà calorosamen te tutte le mani tese con one stà verso di noi».



Alla vigilia del suo discorso, Israele aveva chiesto a tutte le delegazioni di boicottare l’in­tervento per protesta contro la sua ennesima negazione dell’ Olocausto, la scorsa settimana. Il Canada è stato il primo a raccogliere l’appello. Quando Ahmadinejad ha preso la parola la delegazione canadese è uscita. Molte altre delegazioni tra cui quella americana, francese, tedesca e italiana hanno lasciato l’aula, come annunciato in mattinata: «Se Ahmadinejad lancerà l’ennesima provocazione ad Israele, lasceranno tutti insieme la sala». Accolto dalla solita sfilza di insulti sulle pagine dei tabloid della Grande Mela, Ahmadi nejad non è stato invitato al ri cevimento organizzato ieri se ra dal presidente Usa Baack Obama in onore dei capi di Stati e di governo presenti all’Assem­blea Generale. E gli organizza tori l’hanno relegato a parlare a fine serata, quando la grande sala Onu comincia tradizional mente a svuotarsi e le delega zioni confluiscono nelle tante cene e feste ufficiali.



A contro bilanciare l’audience sparuta del Palazzo di Vetro (la Cnn ha zoomato più volte sulla sala se mi- deserta) ci hanno pensato migliaia di dimostranti che per il terzo giorno consecutivo hanno protestato contro la sua presenza a Manhattan. Ma il lo ro dissenso, come del resto quello di milioni di militanti in patria, non l’ha neppure scalfito. «Il suo messaggio Onu è stato orchestrato per mi gliorare la sua posizione nel mondo musulmano, rafforzan done la reputazione di eroe del Terzo Mondo», teorizza Mohamad Bazzi, esperto di Studi Mediorientali per il pre stigioso Council on Foreign Re lations. «Ahmadinejad ha lavo rato sodo per coltivare l’imma gine di leader populista pani slamico che non ha paura di scontrarsi con l’Occidente — incalza Bazzi —. Non potendo cancellare la macchia dell’ele zione rubata, non gli resta che inveire contro Israele e l’Occi dente» .



In un’intervista concessa all’Ap prima di salire sul podio, il leader iraniano aveva invitato Obama a considerare l’Iran co me un «potenziale amico degli Usa». «Ho sentito Obama dire che la prossima minaccia è l’Iran — ha spiegato —. Ma l’Iran è un’opportunità per tut ti. Storicamente, chi è stato amico dell’Iran ha avuto molte opportunità».


www.corriere.it

Destra nazionale Vs. Movimento Sociale Italiano

Tra gli scaffali estivi della “Feltrinelli “, sono stato rapito da un paio di volumi (1) che, opportunamente letti ed integrati da informazioni ed adeguate note, hanno finalmente svelato e storicizzato a mio avviso alcuni retroscena interessanti, del difficile rapporto tra MSI e destra nazionale. Non che alcune notizie non fossero già di pubblico dominio; ma sicuramente oggi abbiamo la conferma documentata di come il processo di de-fascistizzazione del MSI, approdato prima ad AN e poi nel PDL , sia iniziato in realtà dagli anni 70, e con dinamiche politiche e culturali tutt’altro che lineari e trasparenti.

Sappiamo ormai perfettamente che tutto il neo-fascismo, già da prima della fine della seconda guerra mondiale, venne preso in ostaggio “a destra ” ed in funzione anti-comunista dall’alleato atlantico, e dall’azione combinata ed interessata degli stessi De Gasperi e Togliatti, aventi entrambe delle proprie specifiche finalità: De Gasperi per crearsi un bacino di riserva alternativo nella lotta anti-comunista; Togliatti al contrario, per saccheggiare intere classi dirigenti di sindacalisti, intellettuali e militanti politici nati nel regime, per la gestione del nuovo partito di massa (il PCI) . Così nacque il MSI nel 1946 , depauperato, infiltrato e depistato, tra mille ambiguità e sotterfugi, sotto l’etero-direzione assoluta degli apparati atlantici da una parte, vaticani e frammassonici dall’altra , che consolidarono quella perniciosa tendenza culturale contro-rivoluzionaria ed anti-nazionale già avviata ” dalla destra nazionale ” dentro e contro il regime fascista.

Tuttavia nello stesso MSI, così come nelle successive formazioni della destra extra - parlamentare, sopravvissero delle sacche di resistenza politica e culturale non indifferenti, che cercarono generosamente ( … ma invano) di cambiare il destino dello strumento “creato dal nemico”, in uno strumento “contro il nemico” . Un assalto disperato al cielo che non poteva avere alcun esito. Così per quasi 50 anni, queste due anime distinte e contrapposte si sono affrontate e combattute , pur condividendo di fatto lo stesso ambiente, lo stesso spazio politico, spesso le stesse strutture di partito e gli stessi target di società politica e civile. 



La scissione di Democrazia Nazionale con l’avvallo di DC e PCI … e della P2



Il libro di Adalberto Baldoni sulla “Storia della destra : dal post-fascismo al popolo della libertà “, ha il merito a mio avviso di aver inserito a chiare lettere, un capitolo intero sulla storia della scissione missina e la nascita di Democrazia Nazionale , databile tra il 1976-1977, ma i cui epigoni risalgono già al 1972 , con la creazione della sigla MSI-destra nazionale (fino ad allora il termine era stato tenuto opportunamente fuori dalla sigla del partito). Nel 1972 si genera l’ingresso in massa nel partito di personaggi legati agli ambienti monarchici , reazionari , di destra, ultra-atlantici ed inquinati addirittura dalla massoneria nostrana ( che per statuto del partito doveva rimanere fuori ), ambienti che avevano il chiaro scopo di de-fascistizzare e rendere il MSI di Almirante appetibile come forza di governo e/o come sempre di sgabello contro l’egemonia di sinistra. Infatti già del 1973 , l’ammiraglio Gino Birindelli (2) aveva tentato con altri suoi “confratelli” della costituente di destra, la richiesta ufficiale ad Almirante dello smantellamento del nome MSI, in favore di “Destra Nazionale”.

In realtà Almirante, sotto assedio da tempo, aveva fiutato il cambio di scenario politico a livello internazionale e nazionale, scenario in cui atlantici-reazionari e neocapital-marxisti mondialisti e progressisti , andavano d’amore e d’accordo e banchettavano insieme allegramente nella stessa “Commision Trilateral”.



Almirante, pasoliniano (più che evoliano), aveva così varato in Italia la famosa formula “dell’Alternativa al Sistema”, recuperando seppur per un breve periodo, la sua vecchia ed autentica anima della “sinistra nazionale” , da cui lui stesso proveniva, prima di riprecipitare anch’esso su percorsi reazionari e stereotipati.

La troica di osservanza micheliniana , formato da De Marzio, Roberti e Nencioni , stanchi dell’isolazionismo anti-sistema almirantiano, ed imbeccati da più parti , pilotò di fatto la scissione di Democrazia Nazionale dal MSI nel dicembre 1976, con la costituzione del gruppo parlamentare alla camera dei deputati ( ben 17 deputati su 35 del MSI , ben 9 senatori su 13 , ben 13 consiglieri regionali ecc. ecc.) (3) : con il beneplacito dell’ex-guffino, Pietro Ingrao allora presidente della Camera dei deputati e dell’ex Prof. di diritto corporativo, Amintore Fanfani, presidente del Senato. Oltre il 50% del finanziamento pubblico finì così nelle mani degli scissionisti demo-nazionali, ma la base del partito, le sua sezioni, l’anima militante (… quasi mai di destra), rimase ben legata alle sue radici non-conformiste e non si lasciò ” deviare “. La scissione che aveva una matrice verticistica e strumentale, lontana anni luce dalla base ( non una sola federazione provinciale aderì alla scissione ) , fini nel nulla, con le elezioni del 1979, dove Democrazia Nazionale incassò solo lo 0.7% dei voti, rifluendo così nell’anonimato più assoluto.

Molti di quei personaggi finirono nelle sottocorrenti democristiane e liberali.



Uno dei protagonisti diretti della scissione, insieme all’ammiraglio Gino Birindelli e al senatore Mario Tedeschi ( tutti rigorosamente tesserati P2 ) , è stato il senatore, Raffaele Delfino, che intervistato, racconta dalle pagine del libro di Baldoni, di un miracoloso incontro avvenuto presso “un intraprendente costruttore milanese” nella sua villa in Brianza . L’attuale Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ( tessera P2 n. 1816) , a quanto riporta la dichiarazione di Delfino sul libro di Baldoni, fu ben contento di condividere il progetto di trasformare finalmente il MSI in una “destra democratica” , ed alla presenza di Cesare Previti , elargì un contributo di ben 100 milioni di lire (eravamo nel 1976 ), cifra che Democrazia Nazionale si impegnò a restituire con il finanziamento pubblico ed il riconoscimento di partito gravitante nell’orbita governativa ( pag. 192-193).



L’ anti-comunismo crociato dei demo-nazionali fu di fatto smentito , come racconta lo stesso Baldoni , con l’appoggio a tutta la legislazione emergenziale e liberticida di quegli anni , alle leggi di polizia volute soprattutto dal PCI di Berlinguer, e con il voto favorevole dei demo-nazionali al governo di solidarietà nazionale sostenuto anche dal PCI , azione di esemplare sudditanza all’arco costituzionale, tanto da riscuotere guarda guarda, il plauso dello stesso Andreotti per il loro fortuito ed inaspettato contributo.



Così, la costituente di destra , varata nel 1972 aveva in realtà un doppio scopo : da un lato quello di liquidare ciò che rimaneva di chiara opposizione ” neo-fascista ” al sistema democratico-parlamentare , ma dall’altro, secondo un ottica molto più “occulta” e lungimirante, di ridisegnare lo scacchiere politico italiano, instaurando al posto della DC e del partito cattolico di massa, una nuova grande aggregazione laico-moderata occidentale .



 



“L’Italia al lavoro”: dalla scissione alla guerra civile strisciante



Di fatto tutta l’operazione di Democrazia Nazionale, venne probabilmente pilotata dalla stessa P2 di Licio Gelli, nella cui lista erano presenti come tesserati di lusso, numerosi parlamentari e politici “destro-nazionali” e/o demo-nazionali aderenti al MSI insieme ad altri circa 40 parlamentari , tre ministri , generali di stato maggior dell’esercito, dei Carabinieri, della Finanza, i responsabili dei servizi segreti, industriali, banchieri uomini di affari ecc. ecc. : insomma il gota del professionismo della destra anti-comunista di servizio, ribattezzato da A.A. Mola, storico della Massoneria, ” L’Italia al lavoro” (4). il piano di Rinascita Democratica non era affatto una sciocchezza, come molti vogliono far credere, soprattutto tra coloro che tesserati P2 hanno poi rinnegato Gelli e la loro scelta si appartenenza alla loggia; al contrario, era ( … ed è tuttora) un vero e proprio progetto per ridisegnare la costituzione , il ridimensionamento del sindacato, un nuovo scenario sull’uso dei media , la repubblica presidenziale, il bi-polarismo, il sistema maggioritario, l’avvio delle riforme , anche se prima si doveva attendere e propiziare il ridimensionamento della sinistra massimalista ed ovviamente il crollo del muro e dei regime comunisti.



Conseguenze della scissione per il MSI, telepilotata dalla Destra Nazionale/P2



Per chi ha un minimo di memoria storica il ricordo è devastante : dal 1976 ai primi anni 80′ , abbiamo avuto 4-5 anni di sottile e strisciante guerra civile contro “l’Alternativa al sistema” , attuata militarmente dall’estrema sinistra, probabilmente infiltrata anch’essa a livello internazionale da un “Think Tank” tutt’altro che trasparente; il tutto con il beneplacito della DC interessata a mantenere in auge lo scontro mortale tra opposti estremismi ; con l’aiuto dei commissariati pretoriani e della magistratura giacobina in mano all’ora Pci , ed infine con la complicità di quegli ambienti “demo-nazionali” e liberal-moderati della loggia sapiente , ben intenzionati a cancellare il neo-fascismo della base missina non allineata al progetto neo-conservatore ; una intera generazione di giovani militanti si trovò così in mezzo al guado, assediata dalla caccia alle streghe, dal fuoco dell’ultra-sinistra, e dalla repressione scatenata per combattere quel terrorismo generato dalle stesse strutture interne allo Stato.



Molti di noi nacquero politicamente in questo periodo così controverso, come “figli di nessuno”, in quegli anni chiamati di piombo, dentro questo miserabile strascico di guerra civile, sporca ed etero-diretta probabilmente per terze finalità , con incredibili variabili di scontro di potentati nazionali ed internazionali su una terra colonizzata e priva di sovranità e di identità dal 1945 ; ed in molti percepimmo quasi inconsciamente, lo squallore dell’ennesimo tradimento “ordito da destra”, figlio legittimo dello stesso tradimento di Sapri , della Repubblica Romana , di Teano , di Mentana, dell’Aspromonte, di Caporetto, del 25 luglio, dell’8 di settembre, e via via dentro i meandri misteriosi e perversi della storia “destro-nazionale”, fino allo strappo irreversibile e conclusivo di Fiuggi . Molti di quei personaggi , di quelle tessere P2 , di quelle lobby, di questi anti-comunisti di servizio, li vedremo meticolosamente all’opera tra il 1992 ed il 1994, per portare a termine dentro (e contro )il MSI l’operazione che fallì miseramente tra il 1976 ed il 1979.



E’ così abbiamo descritto un piccolo spaccato di una questa strana “Italia al lavoro” , un’ Italia al lavoro da sempre contro i propri figli , contro la sovranità della Nazione, ed infine contro Se stessa : l’ Italia abbietta della miseria anti-fascista da un lato ; l’Italia ” cinica ed opportunista ” dell’ anti-comunismo di servizio dall’altro.

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Note :

1) A. Baldoni: Storia della destra , Vallecchi Firenze , giugno 2009 - A.A.Mola , Gelli e la P2, Ed. Bastogi , febbraio 2009 : questo secondo libro , ben documentato ( circa 600 pagine ) è un atto di pubblica difesa di Licio Gelli e del suo personale ed esclusivo progetto di Rinascita Democratica.



2) Gino Birindelli , ammiraglio e medaglia d’oro al valor militare della Regia Marina, nonché comandante della X Mas, uomo e militare già alle dipendenze dell’alleato atlantico dall’ottobre del 1943, ex-comandante delle forze Nato in area mediterranea, nonché tessera della P2 n°1670 codice E. Per una sua interessante testimonianza vedi anche l’intervista : http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=6210787



3) L’elenco dettagliato dei parlamentari scissionisti ( pag 192-193).



4) “L’Italia al lavoro” è il termine paradossale coniato dall’autore ( A. A. Mola , Gelli e la P2, Ed. Bastogi , febbraio 2009, pag … ) per indicare la lista , il brogliaccio (non esaustivo peraltro) degli appartenenti alla P2, loggia che, secondo il massimo studioso della storia della Massoneria in Italia, non aveva alcun carattere eversivo; era al contrario un elitè a difesa degli scenari governativi e riformisti , un elitè ben amalgamata da destra a sinistra , un comitato di pressione e di affari, una lobby nel senso democratico anglo-sassone, disegnata e programmata opportunamente da Gelli per il suo personale progetto di ricostruzione nazionale. Peraltro lo studio mette in luce le contraddizioni interne al Grande Oriente d’Italia, ed all’ ambiguo atteggiamento tenuto dal GOI, riguardo al riconoscimento ufficiale della regolarità della loggia P2.


Francesco Mancinelli

mercoledì 23 settembre 2009

Gli individui non esistono fuori dalle loro comunità.

di Alain de Benoist - 22/09/2009


La crisi del modello rappresentato dallo Stato nazionale rigenera l’idea di comunità, che assume nuove forme e significati. Le comunità non associano più le persone solo per l’origine comune e le caratteristiche dei componenti: nel moltiplicarsi di tribù, flussi e reti, esse ormai raggruppano tipi diversissimi. Imponendosi come possibile forma di superamento della modernità, le comunità perdono lo status «arcaico», a lungo attribuito loro dalla sociologia. Più che stadio della storia, abolito dalla modernità, appaiono come forma permanente dell’umano associarsi.


In tale quadro figura la comparsa e lo sviluppo nel Nord America, dagli anni Ottanta, d’una corrente di pensiero che oltre Atlantico ha provocato innumerevoli dibattiti, ma che l’Europa ha scoperto più di recente: il «movimento» comunitario, costellazione rappresentata dai filosofi Alasdair MacIntyre, Michael Sandel e Charles Taylor.


Il movimento comunitario enuncia una teoria che combina strettamente filosofia morale e filosofia politica. Sebbene abbia una portata più vasta, la teoria è stata elaborata, da un lato, in riferimento alla situazione degli Stati Uniti, con l’inflazione della «politica dei diritti», la disgregazione delle strutture sociali, la crisi dello Stato-Provvidenza e l’emergere della problematica «multiculturalista»; dall’altro, in reazione alla teoria politica liberale, riformulata da Ronald Dworkin, Bruce Ackerman e soprattutto John Rawls. Quest’ultima si presenta come una teoria dei diritti (soggettivi), fondata su un’antropologia individualista. Nell’ottica dell’«individualismo possessivo» (Macpherson), ogni individuo è agente morale autonomo, «padrone assoluto delle sue capacità», alle quali ricorre per soddisfare i desideri espressi o rivelati dalle sue scelte. L’ipotesi liberale dunque prevede un individuo separato, un tutto completo a sé stante, che cerca d’accrescere i vantaggi con libere scelte, volontarie e razionali, senza che esse siano considerate frutto di influenze, esperienze, contingenze e norme del contesto sociale e culturale.


Invece il punto di partenza dei comunitari è anzitutto d’ordine sociologico ed empirico: constata la dissoluzione dei legami sociali, lo sradicamento delle identità collettive, la crescita degli egoismi. Sono gli effetti d’una filosofia politica che provoca l’atomizzazione sociale, legittimando la ricerca da parte di ognuno del maggior interesse, restando così insensibile ai concetti d’appartenenza, di bene comune e di valori condivisi.


Il maggior rimprovero dei comunitari all’individualismo liberale è di dissolvere le comunità, elemento fondamentale e insostituibile dell’esistenza umana. Il liberalismo svaluta la vita politica, considerando l’associazione politica un puro bene strumentale, senza vedere che la partecipazione dei cittadini alla comunità politica è un bene intrinseco; perciò non può rendere conto d’un certo numero d’obblighi e impegni, come quelli non risultanti da scelta volontaria o impegno contrattuale, come i doveri familiari, l’obbligo di servire la patria e d’anteporre l’interesse comune a quello personale. Il liberalismo propaga una concezione erronea dell’io, non ammettendo che esso rientri sempre in un contesto socio-storico e, almeno in parte, che sia costituito da valori e impegni non sottoposti a scelta e non revocabili a piacere. Suscita un’inflazione della politica dei diritti, che poco ha a che fare col diritto in quanto tale, e un nuovo tipo di sistema istituzionale, la «repubblica procedurale». Infine, col suo formalismo giuridico, misconosce il ruolo centrale di lingua, cultura, costumi, pratiche e valori condivisi, come basi d’una vera «politica di riconoscimento» di identità e diritti collettivi.

La teoria comunitaria si pone dunque in una prospettiva «olistica». L’individualismo liberale definisce il singolo come ciò che resta del soggetto, una volta privato di caratteristiche personali, culturali, sociali e storiche, cioè estratto alla comunità. D’altronde postula l’autosufficienza del singolo rispetto alla società e sostiene che egli persegue il maggiore interesse con scelte libere e razionali, senza che il contesto socio-storico influisca sulla sua capacità d’esercitare i «poteri morali», cioè di scegliere una particolare concezione di vita. Per i comunitari, invece, un’idea presociale dell’io è impensabile: l’individuo trova la società preesistente ed essa ne ordina i punti di riferimento, ne costituisce il modo di stare al mondo e ne modella le ambizioni.


Per i comunitari, l’uomo è anzitutto «animale politico e sociale» (Aristotele). Così i diritti sono espressione di valori propri di collettività o gruppi differenziati, ma riflesso d’una teoria più generale dell’azione morale o della virtù. La giustizia si confonde con l’adozione d’un tipo d’esistenza secondo i concetti di solidarietà, reciprocità e bene comune. Quanto alla «neutralità» di cui s’ammanta lo Stato liberale, è vista sia come disastrosa nelle conseguenze, sia - più generalmente - come illusoria, perché rimanda implicitamente a una singolare concezione del bene, che non si confessa tale. Una vera comunità non è l’unione o la somma degli individui. I suoi membri, in quanto tali, hanno fini comuni, legati a valori o esperienze, non solo interessi privati più o meno congrui. Questi fini sono tipici della comunità, non sono obiettivi particolari uguali per tutti o per la maggioranza dei membri. In una semplice associazione, gli individui guardano i loro interessi come indipendenti e potenzialmente divergenti. I rapporti fra questi interessi non sono dunque un bene in sé, ma solo un mezzo per ottenere i beni particolari cercati da ciascuno. Mentre la comunità, per chi vi appartiene, è un bene in sé.


(Traduzione di Maurizio Cabona)



Tratto da: Arianna Editrice




lunedì 21 settembre 2009

Perché bisogna dire No alla Tessera del tifoso.

Tre foto, una fotocopia del documento di identità, una fotocopia del codice fiscale, la compilazione di un piccolo modulo e il benestare della questura. Il costo, per alcune società sarà gratuito e per altre invece, potrà arrivare ad una cifra intorno ai 10,00 €. Con questi pochi passi si ottiene la tanto decantata tessera del tifoso. Secondo l’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive la tessera del tifoso è “uno strumento di fidelizzazione adottato dalla società di calcio che prevede verifiche della Questura attraverso una procedura standard diramata a livello nazionale con apposita direttiva ministeriale. Il progetto lanciato dall'Osservatorio si pone l’obiettivo di creare la categoria dei tifosi ufficiali” e ancora “la tessera, rilasciata dalla società sportiva previo nulla osta della Questura competente che comunica l’eventuale presenza di motivi ostativi (Daspo in corso e condanne per reati da stadio negli ultimi 5 anni), fidelizza il rapporto tra tifoso e società stessa”. Sempre secondo l’Osservatorio questa tessera ha diritto a vari benefici tra cui l’agevolazione per l’acquisto di tagliandi per eventuali restrizioni su un determinato incontro di calcio e ha innumerevoli guadagni in campo di sicurezza perché costituirebbe una categoria di spettatori ufficiali. Di fatto verrebbero costituiti spettatori di serie a e spettatori di serie b. Dal primo Gennaio 2010 sarà obbligatoria per chiunque vorrà andare in trasferta e seguire la propria squadra nel settore ospiti, più avanti, sicuramente, sarà obbligatoria anche nelle partite casalinghe a discapito, soprattutto, delle famiglie che saltuariamente vorranno andare allo stadio. Se è vero che abitiamo in una Repubblica democratica è altrettanto vero che il fenomeno Ultras fa legge a se. Chi è sottoposto a D.A.Spo. - Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive – ogni qualvolta la propria squadra è chiamata a giocare in un impegno ufficiale è obbligato a presentarsi in questura per la firma – l’obbligo di presentazione all’ufficio di Polizia è quasi sempre accompagnato alla diffida -. Inoltre, con le ultime norme in materia di violenza negli stadi, e soprattutto, con la messa in atto del biglietto nominativo, chi è diffidato è già impossibilitato all’acquisto del ticket. Il D.A.Spo viene rilasciato dal Questore con varie durate annue e viene emesso non necessariamente dopo una condanna penale. La Corte Costituzionale nella sentenza 512 del 2002 inquadra la misura della diffida come preventiva e che, dunque, può essere emessa prima dell’esito di un processo e poi revocata in caso di estraneità ai fatti. Il punto è proprio questo, oggi, lo sappiamo bene tutti, i processi hanno lunghissima durata e pertanto è quasi scontato che chi verrà sottoposto a D.A.Spo, anche se poi ne risulterà completamente scagionato dalla sentenza, avrà già pagato senza commettere nulla. Tornando ad un altro punto saliente della tessera del tifoso è impossibile non notare che, chi ha già scontato il proprio debito con la giustizia per i reati che ha commesso negli ultimi cinque anni, non potrà farne richiesta. Gli errori si possono fare – d’altronde siamo umani – e, al contrario di molte altre situazioni della società odierna basata solo sul consumo e sullo sfruttamento del prossimo, qualcuno che li ha già pagati, deve continuare a pagare. La tessera del tifoso, inoltre, non a caso, sarà valida come una carta di credito ricaricabile con annesso codice IBAN - International Bank Account Number -, di modo che, anche gli istituti bancari di maggiore importanza, potranno trarne il loro vantaggio. Solo per fare un esempio, perché l’argomento è molto esteso e ci vorrebbe un articolo solo per analizzare questo punto, Intesa SanPaolo, l’istituto bancario al quale si è appoggiato il Milan calcio, ha già rilasciato più di centomila - 100.000! – tessere, basta fare due calcoli e il gioco è fatto! In ultimo, ma non per importanza, c’è un altro aspetto da analizzare, la tessera del tifoso mette obbligatoriamente i dati di chi la richiede a disposizione di un ente terzo, un ente che, è chiaro, non ha nulla a che fare con il calcio e questi dati potrebbero essere liberamente usati per altri fini, quali, ad esempio, il marketing o le promozioni più variegate. I temibili ultras, ancora una volta, hanno iniziato la protesta nelle strade e negli stadi, sarebbe bello che, anche la massa silenziosa del popolo, provi a farsi sentire.




Articolo di Fabio Polese, uscito su Rinascita il 26 Settembre 2009

domenica 20 settembre 2009

Rethink Afghanistan.

Film-documentario di Robert Greenwald sull'altro volto della guerra in Afghanistan.








 




Prodotto dal regista Robert Greenwald Rethink Afghanistan è stato rilasciato in retelibero da copyright ed è attualmente utilizzato nelle strategie mediatiche del movimenti stop-the-war per lanciare le mobilitazioni contro la guerra di quest'autunno.



In sei segmenti cinematografici il regista smonta le motivazioni che il governo americano ed la coalizione di stati stanno da anni sostenendo per continuare ed implementare la macchina bellica in Afghanistan.



Il documentario attraverso immagini inedite, interviste a cittadini afghani, docenti, ex-agenti della CIA solleva le questioni delle vittime civili, dei diritti delle donne e del concetto di sicurezza stessa degli Stati Uniti.



Link: www.rethinkafghanistan.com


sabato 19 settembre 2009

Afghanistan: parole al vento e lacrime di coccodrillo.

Dalle pagine del nostro giornale più volte abbiamo parlato del pericolo corso dalle nostre truppe coinvolte nell’assurdo conflitto afghano, dove nessuna “democrazia” né “nuova civiltà” potrà mai rinascere: solo macerie, morti e odio, tanto odio. Lo abbiamo detto in più occasioni, per quanto fosse insensato che i nostri governanti sacrificassero i soldati italiani in una guerra solo per la cieca obbedienza ai padroni di Washington, speravamo che almeno, i nostri, fossero equipaggiati con mezzi bellici idonei, se non per l’attacco, almeno per la difesa. I due veicoli su cui viaggiavano i sei soldati italiani saltati in aria a causa di un miliziano suicida, si chiamano Lince’ ma il veicolo non è né astuto né agile, è solo un carrozzone instabile e di difficile maneggevolezza; anche se la Fiat lo presenta come un blindato di nuova generazione, in realtà è solo il figlio infelice dell’autoblinda Lancia-Astura, in dotazione dell’esercito italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa, subito dopo l’attacco delle milizie afghane, ha definito “infami e vigliacchi” gli autori della strage, giustificando così – neanche l’Afghanistan fosse per noi l’atavico nemico da combattere – il suo “non ci fermeranno”, quale garanzia per i padroni Usa che la guerra – pardon, missione di pace – continua al fianco dell’alleato d’oltreoceano. Da buon ex-missino, poi ex-alleanzino, La Russa tenta di fare la “voce grossa”, sostenuto dai colleghi di Palazzo come il ministro degli Esteri Frattini che ha parlato di “barbarie terrorista”.

L’opposizione invece, unendosi al cordoglio dei rappresentanti dell’esecutivo, ha di fatto auspicato affinché si avvii al più presto un programma che porti ad una “via d’uscita internazionale”. E’ chiaro quindi che dalla guerra in Afghanistan non possiamo uscirci da soli, magari attraverso un confronto tra le forze politiche del nostro Parlamento, no; l’ “exit strategy” (così la chiamano), deve essere discussa in sede Nato e Onu: parola di Antonio Di Pietro.

Nessuna via d’uscita quindi sembra esserci a questa illogica guerra; e così, come è già successo per i nostri soldati caduti a Nassirja, assistiamo alle “lacrime di coccodrillo” di coloro che prima si esaltano, lodando l’impegno dell’Italia alla guerra afghana, per poi dotare di blindati di cartone le nostre truppe… nemmeno fossero carne da macello. Ma si sa, la colpa è sempre degli altri, degli “attentatori”, dei “terroristi”, dei “vigliacchi”. Solo loro sono i buoni, infatti non vanno in guerra.

La cieca obbedienza alla follia dell’impero statunitense ha ormai obnubilato le menti dei nostri politici - ma anche quelle dei francesi, tedeschi, inglesi… - nulla è più nostro, solo i morti.



Articolo di Enea Baldi, tratto da: www.rinascita.info

LA MONTAGNA NON TRADISCE.

Le attrezzature più tecnologiche non bastano per affrontare la natura e la solitudine delle immense pareti rocciose.





In questa estate caldissima giornali e telegiornali hanno parlato, in continuazione, delle vittime della montagna: circa una quarantina. Vittime per lo più costituite da inesperti della montagna, alpinisti della domenica, persone che credono che avere l’attrezzatura più tecnologica possa bastare per affrontare la natura e la solitudine delle immense pareti rocciose. Da una parte, è vero, la montagna sta cambiando, il ritiro dei ghiacciai sta lentamente modificando il volto alle catene rocciose. Molte vie alpinistiche sono irriconoscibili, letteralmente trasformate. Ma dall’altra, tanti interventi fatti dal soccorso alpino avrebbero potuto essere evitati se fossero state seguite le principali regole di sicurezza.




La montagna non va certo presa alla leggera, lo sapeva bene Cristina Castagna, 31 anni, tra le più promettenti alpiniste italiane che questa estate è morta precipitando per decine di metri sul Broad Peak, noto come K3, montagna di oltre ottomila metri nella catena del Karakorum in Pakistan. «Se mi succederà qualcosa lasciatemi dove la montagna mi ha chiamato a sé», queste le sue ultime parole, scritte in un foglio di carta lasciato a casa prima della partenza. Parole che lasciano emozioni enormi per chi conosce e ama la montagna e al contrario parole forti, troppo forti, per chi la ignora.




Chi vi scrive è un amante della montagna, perché poche cose possono regalare impressioni potenti e durature quanto l’incontro con le vette. L’ascensione alla vetta non è solamente una prova fisica, ma soprattutto una prova spirituale e mentale. Il raggiungimento di un qualcosa che ci si è prefissati è sempre qualcosa di magico.  




«Sulla montagna sentiamo la gioia di vivere, la commozione di sentirsi buoni e il sollievo di dimenticare le miserie terrene. Tutto questo perché siamo più vicini al cielo», così Emilio Comici, uno dei massimi esponenti dell’alpinismo italiano tra gli anni trenta e quaranta insieme a Cassin e Carlesso, nel suo libro ‘Alpinismo eroico’, sintetizzava quello che la montagna può trasmetterci. Non a caso, sin dall’antichità, la montagna era stata scelta dall’uomo come sede di nature divine e di eroi, axis mundi.




Articolo di Fabio Polese, uscito su Perugia Free Press 19 Settembre  - 19 Ottobre 2009

martedì 15 settembre 2009

Libera stampa e giornalismo partecipativo nella realtà locale.

Il giorno 3 Ottobre 2009 alle ore 17.00 presso la sala S. Chiara in via Tornetta, 7 - Porta S. Susanna - l’Associazione Culturale Tyr Perugia organizza l’incontro sul tema: “Libera stampa e giornalismo partecipativo nella realtà locale”. Parteciperanno Ettore Bertolini, giornalista e direttore della testata on-line Tifogrifo.com, Maurizio Vignaroli, giornalista e direttore di Perugia Free Press, Leonardo Varasano, giornalista, collaboratore de Il Giornale dell’Umbria e Consigliere Comunale. Tutti i cittadini e gli organi di stampa sono invitati a partecipare.



Per contatti: controventopg@libero.it – 346.8872982





AVANTI KAREN!

Intervista ai capi militari della guerriglia patriottica che ha inferto all'invasore perdite per un rapporto di 60 a 1.

Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito di Liberazione Karen parla da una località nascosta, un luogo sicuro da qualche parte lungo le centinaia di chilometri che segnano il  confine tra Birmania e Thailandia.



Il Generale Mu Tu ha superato da un bel po' i  settant'anni di età. La maggior parte dei quali spesi a combattere i militari di Rangoon nelle giungle dell'est del paese. Settanta anni, ma una stretta di mano eccezionalmente vigorosa, e un saluto militare impeccabile. Sorride quando gli viene chiesto se l'offensiva condotta negli ultimi dodici mesi dall'esercito birmano contro i Karen abbia messo in ginocchio la guerriglia patriottica.

“Abbiamo perduto basi e fette di territorio, è vero. Ma la nostra forza militare è rimasta intatta. Siamo ovunque, siamo intorno al nemico. Lo vediamo, lo seguiamo. Lo colpiamo tutti i giorni”.

Nei primi sei mesi del 2009 la guerriglia Karen si è scontrata con l'esercito birmano e con le bande di partigiani collaborazionisti 532 volte. I dati forniti dalla guerriglia parlano di 341 nemici uccisi e di 697 feriti. Secondo le fonti Karen, il rapporto di caduti in azione è di 1 a 60 a favore delle forze patriottiche. Un dato che smentisce le previsioni dei generali birmani, secondo i quali entro la seconda metà del 2010 il confine orientale del paese sarà ripulito dalla presenza della resistenza. Mu Tu perde la calma soltanto quando descrive la condotta dei militari birmani nei confronti dei civili inermi: “Noi siamo guerrieri, e ci aspetteremmo di combattere una guerra pulita. Faccia a faccia contro un nemico che riconosca le regole di un combattimento duro, a volte spietato, ma leale. Invece la maggior parte delle operazioni del Tatmadaw (esercito birmano) ha come obiettivo i civili. Questo fa di loro degli assassini, non dei soldati”. L'organizzazione Free Burma Rangers, un gruppo di coraggiosi volontari che svolgono un'attività di soccorso sanitario e di raccolta di informazioni circa crimini ed abusi compiuti nei villaggi abitati da minoranze etniche, sforna dati agghiaccianti sulle violenze subite dalla popolazione ad opera dei soldati di Rangoon.

Stupri, torture e omicidi sono all'ordine del giorno. La brutalità delle azioni del Tatmadaw spinge un sempre più alto numero di civili a lasciare i loro villaggi non appena si ha notizia  dell'avvicinamento delle truppe. Negli ultimi tre anni oltre 80.000 persone hanno cercato rifugio nella giungla, sotto la precaria protezione fornita dai volontari del KNLA, l'Esercito di Liberazione guidato dal Generale Mu Tu.

Soltanto lo scorso mese ben 4.000 profughi hanno dovuto attraversare il confine e riversarsi in Thailandia per sfuggire alle truppe birmane che hanno piegato la resistenza  della 7° Brigata Karen.  “Abbiamo vissuto anche in passato momenti terribili, durante i quali tutto sembrava  perduto - prosegue l'anziano ufficiale - ma ci siamo sempre rialzati. E dopo sessant'anni  siamo ancora qui, decisi a difendere la nostra gente fino all'ultimo proiettile di cui disporremo”.



Una chiara corrispondenza con quanto sostiene Mu Tu si percepisce visitando le unità del  KNLA sparpagliate nella giungla. Alcune di queste hanno abbandonato le loro basi abituali durante l'offensiva birmana, ed ora vivono in accampamenti provvisori a ridosso delle  posizioni nemiche. “In questo modo torniamo alla nostra originale attività di guerriglia -  dice il Colonnello Nerdah Mya riparandosi dalla violenza di un acquazzone monsonico  sotto una capanna di bambù immersa nel fango - e per il nemico siamo dei fantasmi impossibili da catturare”. La vita dei giovani volontari non è delle più facili in questi  avamposti mobili. L'acqua per lavarsi e per bere è quella piovana, pazientemente raccolta mdurante i temporali. La dieta quotidiana è fatta di riso bianco e sale. Quando dalla  Thailandia qualcuno riesce a portare fin quassù delle sardine in scatola è festa. I turni al  fronte sono normalmente di due mesi consecutivi. Poi un permesso per andare a trovare  la famiglia in un sovraffollato campo profughi. E di nuovo in giungla, tra brividi di febbre  malarica e mine antiuomo sparse lungo i sentieri di terra rossa.

Ma la voglia di battersi c'è ancora tutta. Quando il Colonnello Nerdah Mya, figlio del leggendario leader della rivoluzione Karen Bo Mya, chiede ai volontari se sono pronti a  cacciare il nemico dai villaggi occupati negli ultimi dodici mesi dalle forze straniere la risposta arriva in un boato di voci, un suono gutturale che non lascia dubbi.

Il Colonnello Nerdah Mya di fronte agli uomini del 201° Battaglione in un avamposto dell'Esercito di Liberazione Karen.

“I nostri ragazzi sono coraggiosi, amano il loro paese, hanno una naturale predisposizione  alla difesa della loro gente dai soprusi e dalle violenze - dice Nerdah Mya - ma tutto  questo non basta di fronte ad un esercito ben armato e sostenuto economicamente dai  proventi degli affari che il regime di Rangoon fa con multinazionali e businessmen di tutto il mondo. Per non parlare del fiume di denaro che il traffico internazionale di droga
garantisce ai criminali del governo birmano”.

Attraverso la mediazione della Comunità Solidarista Popoli i Karen chiederanno all'Italia di  sostenere la loro lotta per l'autodeterminazione e per la difesa dell'identità. “Ci battiamo  per poter continuare a parlare la nostra lingua e vivere secondo le nostre tradizioni. Per i  nostri figli vogliamo un futuro senza guerra, senza droga, senza ingerenze straniere” conclude Nerdah Mya.


www.comunitapopoli.org

Crisi, capitale e lavoratori.

Uno dei commenti che maggiormente si sente a proposito della crisi è che sia nata dai mutui subprime, e che tutto sommato, fino all’ ottobre scorso, almeno per la cosiddetta “economia reale”, le cose non andavano poi tanto male.

Se si accetta la buona fede, e spesso ci vuole un grande sforzo di generosità, da parte dei commentatori, la cosa pare incredibile. In realtà, questa crisi ha origini lontanissime, nel secolo scorso, e di certo non è frutto delle valutazioni semplicistiche con cui sono stati concessi mutui a persone che non potevano farvi fronte.

Si tratta del frutto di anni di scelte politiche ben valutate e che, forse, oggi stanno ottenendo i risultati sperati dai loro promotori. Facciamo un breve resoconto di tale quadro politico, senza la pretesa di evidenziarne e analizzarne tutti i passaggi.



Le radici più remote le possiamo trovare subito dopo la fine della II Guerra Mondiale, quando il gruppo di potere legato, in America, ai Rockefeller, e in Europa, ad alcune famiglie reali, diede vita al Bilderberg Group (1954) e successivamente alla Trilateral Commission; organizzazioni create per concentrare il potere globale conquistato con la guerra, in mano di poche persone, capaci di decidere le sorti di tutte le popolazioni del pianeta. Altro colpo decisivo a favore del passaggio del potere all’economia, a discapito della politica, venne piazzato nel 1971, allorché l’allora Presidente degli Stati Uniti, Nixon, con la scusa di finanziare la guerra in Vietnam, decise di abrogare il sistema monetario internazionale stabilito a Bretton Woods, che legava il denaro circolante alle riserve auree delle nazioni, stabilendo come una moneta di scambio globale il dollaro americano. Questa decisione ebbe due conseguenze: la creazione di un’economia fittizia, slegata da un qualunque appiglio con quella reale del mondo del lavoro o dei beni reali; e dall’altra parte, estese al massimo il potere statunitense, soprattutto grazie al fatto che il petrolio divenne pagabile solo in dollari, cosa che diede vita all’ “impero americano”, basato sul debito che i vari paesi del mondo contrassero nei cosiddetti “petroldollari”.

Dopodichè arrivarono gli anni ’80, e con essi le amministrazioni Reagan e Thatcher. Furono gli anni delle “grandi liberalizzazioni” e dell’inizio della cancellazione dei diritti sindacali dei lavoratori conquistati durante le aspre lotte sociali degli anni ’70. Si scatena anche la febbre della borsa e nascono gli “yuppies”, che arrivano anche in Italia, trasportati nei cinema da Jerry Calà ed Ezio Greggio e cantati a Sanremo da Barbarossa. Così, mentre il pensionato e il metalmeccanico si giocavano anni e anni di risparmi sudati in fabbrica e nei campi su azioni di cui nemmeno sapevano la provenienza, veniva abrogata la scala mobile (cancellata definitivamente nel 1992 ad opera di Giuliano Amato) e si cominciava a pensare al lavoro flessibile.

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo, arrivano il “pacchetto Treu”, e le “leggi criminali” D’Antona e Biagi; intanto, continua l’infatuazione per la speculazione finanziaria. Anzi è l’epoca della “new economy”, nella quale piccole fabbrichette di software, cresciute come funghi nel nuovo Eldorado della Silicon Valley, promettono guadagni mirabolanti, fallendo però pochi mesi dopo e mangiando quello che era rimasto nelle tasche dei risparmiatori di tutto il mondo.

Nel frattempo, i “signori del pianeta” hanno continuato a lavorare, portando a termine la globalizzazione: cioè lo sradicamento del potere dalle mani del popolo, per concentrarlo in poche organizzazioni sopranazionali e totalmente prive di legittimità e di controlli democratici. Gli esempi sono infiniti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, WTO, GATT, NAFTA, Unione Europea, Banca Centrale Europea, ecc.

A questo punto, il piano era quasi completato: speculazione finanziaria incontrollata, diritti dei lavoratori quasi cancellati e potere politico strappato al popolo e depositato in mano a pochi oligarchi planetari. Come ciliegina finale, ecco arrivare la crisi di questi giorni.



Se “ufficialmente” la situazione odierna sembra colpire tutti indiscriminatamente, io penso che tale situazione migliorerà ulteriormente la situazione dei pochi potenti, ovviamente a discapito dei lavoratori. Diversi sono i fattori che mi spingono a tale conclusione. Prendiamo ad esempio le banche. Negli Stati Uniti, alcune sono state svendute ad altri istituti per pochi dollari, grazie agli aiuti governativi; mentre, altre sono state lasciate fallire, con perdite ingenti per i piccoli risparmiatori. Lo stesso sta avvenendo in Italia, dove solo pochi, e potenti, istituti riescono a beneficiare dei “Tremonti bond”, peraltro in una situazione generale, nella quale, a seguito di innumerevoli fusioni ed acquisizioni, i gruppi bancari sul mercato si possono contare quasi sulle dita di una mano. Tale situazione alla lunga, finirà col lasciare sulla scena pochi istituti bancari, magari a livello planetario, graditi ai poteri forti, i quali saranno in grado, ancor più di oggi, di dettare le regole del gioco, senza alcun contrappeso politico; ovviamente, a discapito dei piccoli risparmiatori.

Situazione analoga si sta verificando nel mondo del lavoro. I costi della crisi stanno ricadendo unicamente sulle spalle dei lavoratori, quelli salariati in particolar modo. Complice l’impotenza dei sindacati, i quali nel corso degli anni hanno perso la loro funzione di tutela dei lavoratori, diventando semplicemente apparati di consenso dei partiti di centro-sinistra; i “padroni” stanno abusando dei diritti minimi dei lavoratori a loro piacimento: casse integrazioni e riduzioni di orario a pioggia, col chiaro intento di ritornare al lavoro a cottimo (“oggi mi servi e ti pago 8 ore, domani non mi servi più e ti faccio scegliere: stipendio pesantemente ridotto o ti lascio a casa”); uso continuo di contratto a termine e di lavori precari; casi sempre più frequenti di mancato versamento dei contributi; aziende finanziate con i soldi pubblici che si accaparrano altre in crisi, facendo pagare tale operazione ai lavoratori, basti citare il caso Fiat-Chrysler per tutti. Questo, unito alla stretta creditizia diretta quasi unicamente contro la piccola e media impresa, mentre i debiti delle grosse aziende vengono allegramente rinegoziati dagli istituti di credito, priverà il lavoratore salariato del benché minimo potere contrattuale, trasformandolo in “carne da macello” del capitale.

Ricapitolando, le politiche mondiali degli ultimi 30 anni, di cui l’attuale crisi rappresenta solamente la logica conseguenza, stanno creando una situazione in cui tutto il potere finirà in mano di una ristretta elite globalizzata, mentre il resto della popolazione verrà trasformata in forza lavoro sottoproletaria. In pratica, stiamo assistendo sul campo, al verificarsi della società piramidale descritta dal Prof. Preve (definita “post-borghese e post-proletaria”); al cui vertice troviamo una ristretta elite che gestisce sia il potere economico che politico; nel mezzo, quel che rimane della classe media e dei quadri aziendali; e infine, “l’esercito di riserva dell’industria”. Cosa ancora più preoccupante, è che il ceto medio sta venendo annientato, schiacciato verso lo strato ultimo della piramide; realizzando il disegno dei padroni del “secolo americano”, di creare solamente due classi sociali: l’elite di potere e la massa sotto-proletarizzata e senza diritti.

Data la situazione, non ci sono più alternative. Tutti noi abbiamo l’obbligo morale di reagire e di opporci a tali forze globalizzanti. Il problema fondamentale è capire come agire efficacemente. Mentre in Italia, la popolazione sembra inebetita da reality show e veline, in altre parti d’Europa, la situazione è più calda: in Inghilterra lo scontro sindacale sta diventando durissimo, mentre in Francia sembra di essere vicini a una deflagrazione sociale (noti a tutti i casi dei sequestri dei manager della Sony France, della 3M, della Caterpillar, ecc.).

Penso che seppur comprensibili e giustificabili, queste reazioni estemporanee a poco servano; il compito che dobbiamo fissarci tutti è quello di creare movimenti radicalmente antagonisti, che si prefiggano lo scopo di abbattere il sistema di capitalismo senza regole che si sta delineando. Bisogna che sia la politica a riprendere le redini della vita sociale delle comunità, che dovranno basarsi sulla decrescita per liberarsi dalla logica globalizzatrice, stabilendo come loro principio base il lavoro contro il capitale finanziario che si arricchisce sulle spalle dei lavoratori. Una volta che sarà tornata la politica a governare, bisognerà realizzare l’unica reale democrazia sostanziale, quella economica. Unico modo possibile è quello della gestione sociale dell’impresa, prevedendo la partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione e ai guadagni delle imprese, realizzando quello che Preve definisce il “comunitarismo solidale”, attraverso la formazione di quello che Marx definiva “Lavoratore Collettivo Cooperativo Associato”, il quale riunisca tutte le unità sociali dei lavoratori, dando vita a una forza comunitaria in grado di abbattere l’elite finanziaria che ci sta portando alla fame e alla disperazione.



Articolo di Manuel Zanarini, tratto da www.centroitalicum.it

martedì 8 settembre 2009

Stiamo sempre all’8 Settembre… E l’Italia resta una colonia USA!

CANZANO 1– L’8 Settembre del 1943, l’Italia ruppe unilateralmente gli accordi con l’Asse (Italia-Germania-Giappone) e chiese ed ottenne l’Armistizio con gli Alleati anglo-americani. Come considera quell’avvenimento della nostra storia?

 

MARIANTONI – Intanto, non fu un “Armistizio” ma, una semplice resa incondizionata! Completamente estranea a qualsiasi tradizione legata alla guerra, la formula della “resa militare senza condizioni” era stata furbescamente ideata ed arbitrariamente imposta all’insieme degli alleati della Germania, dal Presidente degli Stati Uniti d’America, Franklin Delano Roosevelt, e dal Premier britannico  Winston Churchill, nel corso della Conferenza di Casablanca (Marocco), avvenuta presso l’Hotel Anfa, dal 14 al 26 Gennaio 1943, ed alla quale aveva occasionalmente partecipato (senza esservi stato invitato) il Generale Charles de Gaulle, l’allora capo delle forze della cosiddetta Francia Libera. E quella capitolazione senza condizioni – lo ripeto, ingannevolmente fatta passare, agli occhi dei nostri compatrioti, per “Armistizio” … – era già segretamente avvenuta il 3 Settembre 1943, a Cassibile (Siracusa, Sicilia), sotto una tenda militare, con la firma accreditata, per l’Italia, del Generale Giuseppe Castellano, e quella del Generale americano Walter Bedell Smith, per la coalizione USA-GB. Il Maresciallo Pietro Badoglio (Capo del Governo italiano, dopo l’arresto di Mussolini, il 25 Luglio 1943) si decise a rivelarla agli Italiani, alle 19:42 dell’8 Settembre 1943, dalle antenne dell’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), dopo che il Generale Dwight David "Ike" Eisenhower (Comandante in capo delle Forze Alleate in Europa), l’aveva già fatto, alle 17:30 (18:30 ora italiana) dello stesso giorno, dai microfoni di Radio Algeri.

 

CANZANO 2- Che cosa rappresentò realmente quell’avvenimento, per il nostro Paese?

 

MARIANTONI - Sono passati moltissimi anni da quel nefasto 8 Settembre del 1943 … Ma il destino dell’Italia continua ancora oggi ad essere legato e cristallizzato a quell’infausto e catastrofico avvenimento. Inutile nascondercelo. Quella resa – nei termini e nelle condizioni in cui avvenne – non fu soltanto un’ignobile e vergognosa capitolazione militare. Fu soprattutto il peggiore dei flagelli che gli allora responsabili dello Stato e del Governo del nostro Paese potessero infliggere alla Storia della nostra Nazione ed all’avvenire del nostro Popolo.

 

CANZANO 3– Che cosa intende, in particolare?

 

MARIANTONI – Vede, quel giorno, purtroppo, non si accettò soltanto di venir meno alla parola data e di ‘tradire con viltà’ (to badogliate: il verbo che gli Inglesi coniarono espressamente per definire quel genere di tradimento!) tutti coloro che fino a quel momento avevano caparbiamente lottato fianco a fianco, nella medesima trincea, per cercare di liberare i Popoli “numerosi di braccia” dagli “affamatori che (ieri, come oggi) continuano ferocemente a detenere il monopolio di tutte le ricchezze della Terra”. Non si accettò unicamente di deporre momentaneamente le armi, per poi immediatamente ed illogicamente riprenderle in sottordine agli ex nemici del giorno prima, nella fallace ed ipocrita illusione di potersi trasformare in co-belligeranti (in proposito, vedere: http://www.funzioniobiettivo.it/medie_file/badoglio.htm#tre) e, quindi, “co-vincitori” di quella guerra. Non si accettò esclusivamente di cancellare, con un banale tratto di penna, l’appena ritrovata dignità di un popolo che – grazie al Governo Mussolini (1922-1943) – era miracolosamente risorto dalle sue ceneri, dopo essere stato ininterrottamente assoggettato, calpestato e deriso dall’insieme delle Nazioni d’Europa e del Mediterraneo, per ben 16 secoli. Quel giorno, insomma, gli ideatori ed artefici di quella resa, si comportarono come dei veri e propri rinnegati del loro Paese.

 

CANZANO 4 – Potrebbe essere più preciso?

 

MARIANTONI – Certo. La Monarchia sabauda ed il Governo Badoglio, in obbedienza alle clausole della resa dell’8 Settemebre 1943 e d’accordo con i loro nuovi padroni anglo-americani, commisero due atti imperdonabili: da un lato, ingiunsero scelleratamente alla Flotta italiana – (per saperne di più sul premeditato atteggiamento della Marina italiana durante il Secondo conflitto mondiale, vedere: Antonino Trizzino, “Navi e poltrone”, Mondadori, Milano, 1952; “Gli amici dei nemici”, Longanesi  & C., Milano, 1959; “Sopra di noi l'oceano”, Longanesi & C., Milano, 1962; “Navi e poltrone”, edizione aggiornata e migliorata, Longanesi & C., Milano, 1963; “Settembre nero”, Longanesi & C., Milano, 1964; Romeo Bernotti, “Storia della Guerra in Mediterraneo – 1940-1943”, Vito Bianco Editore, Roma-Milano-Napoli, 1960; Pietro Caporilli, “L’Ombra di Giuda, Eroi e Traditori nella tragedia italiana”, Ed. Ardita, Roma, 1962; Angelo Iachino, “Tramonto di una grande Marina. La tattica e la strategia della nostra Marina nel Mediterraneo, durante l'ultima guerra”, Mondadori, Milano, 1966 ; Nino Bixio Lo Martire, “Navi e bugie”, ed. Schena, Milano, 1983; Gianni Rocca, “Fucilate gli Ammiragli - La tragedia della Marina italiana nella Seconda guerra mondiale”, Mondadori, Milano, 1987; Teucle Meneghini, “In Mediterraneo potevamo mettere in ginocchio l’Inghilterra”, Ed. Schena, Milano, 1999; E. Martini, A. Nani, “Navi che non combatterono”, Rivista Marittima, 2001; Carlo De Risio e Roberto Fabiani, “La Flotta tradita - La Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale”, De Donato-Lerici editori, Roma, 2002 ; Daniele Lembo, “Le portaerei del Duce, Le navi portaidrovolanti e le navi portaerei della Regia Marina”, Ed. Grafica MA.RO, Copiano, PV, 2004) – di consegnarsi volontariamente agli anglo-americani e, dall’altro – per distrarre il maggior numero di forze militari tedesche dai diversi fronti di guerra e creare insormontabili problemi logistici al III° Reich – sacrificarono proditoriamente, lasciandole allo sbando e senza ordini, il resto delle nostre Forze armate che furono quasi interamente disarmate e catturate dalla Wehrmacht.



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11-12-13 Settembre - Perugia

lunedì 7 settembre 2009

Chissà perchè?!

Un consulente ambientale della Casa Bianca, Van Jones, specializzato in "lavori verdi", ha dato le dimissioni dopo le polemiche sulla sua passata affiliazione a un gruppo che accusa il governo Usa di coinvolgimento negli attentati dell'11 settembre. Jones, consulente speciale sui lavori verdi al Consiglio della Casa Bianca sulla qualità ambientale, aveva chiesto scusa giovedì scorso, 3 settembre, dopo la diffusione di un video in cui usava un epiteto molto crudo per definire i repubblicani e dopo la rivelazione che in passato aveva firmato una petizione che ipotizzava che il governo statunitense fosse coinvolto negli attentati dell'11 settembre. Le scuse non avevano placato le critiche dei repubblicani e il portavoce del presidente aveva dato solo un tiepido appoggio al consulente. Jones ha detto di aver dato le dimissioni per evitare di diventare un ostacolo allo sforzo dell'amministrazione di far approvare la riforma della sanità e la normativa sul cambiamento climatico.



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