giovedì 29 aprile 2010

Le insopportabili sofferenze dei prigionieri palestinesi.


Gaza - Da www.infopal.it Le condizioni dei prigionieri palestinesi detenuti all’interno delle carceri degli occupanti israeliani  peggiorano di giorno in giorno. L’amministrazione carceraria sionista continua ad oltraggiare i loro diritti. In contravvenzione alla legislazione internazionale sui diritti umani, i prigionieri palestinesi vengono sottoposti a misure repressive e a persecuzioni. Parallelemente, anche i familiari dei detenuti palestinesi subiscono varie pressioni psicologiche e fisiche. Le difficili condizioni di detenzione, infine, rendono arduo poter condurre una vita normale una volta fuori dalla prigione.



 



Essere malati: la peggiore delle torture



Oggi, i prigionieri palestinesi malati sono 1.600: 16 sono malati di cancro, 23 sono ricoverati ad oltranza nell’ospedale del carcere di al-Ramla, 187 sono malati cronici, 800 hanno malattie incurabili o sono invalidi e, all’interno delle carceri, possono muoversi unicamente con l’ausilio  sedie a rotelle o stampelle. Nonostante il loro gravissimo stato, l’amministrazione carceraria sionista non li considera e non fornisce loro le necessarie cure mediche o altri servizi sanitari.   Le autorità carcerarie sioniste considerano prigionieri e detenuti palestinesi sofferenti o disabili al pari del resto dei detenuti e, come fanno con questi ultimi, li sottopongono alle medesime misure aggressive e negano loro qualunque diritto umanitario o medico - di base.



 



In una comunicazione giunta all’Organizzazione dei Prigionieri Wa’ed e proveniente dalle prigioni sioniste, i prigionieri palestinesi hanno raccontato di come il loro stato di detenzione stia peggiorando, con particolare riferimento ai malati. Vi viene esposto il caso del detenuto palestinese Mohammed Mustafa ‘Abd Al-‘Aziz, 32 anni, rimasto completamente paralizzato dopo tre interventi subiti alla schiena. Ogni giorno di detenzione in più per Mohammed comporta un aggravamento progressivo delle sue condizioni di salute.



 



Pur avendo scontato ad oggi un terzo della pena (Mohammed si trova in detenzione da 10 anni e sconta una condanna a 12 anni), l’amministrazione carceraria israeliana si rifiuta di rilasciarlo.  Il suo caso è grave ed urgente; non riesce a muoversi e, poiché le autorità carcerarie non provvedono nessuna assistenza, Mohammed non riesce nemmeno a lavarsi.



Non gli è stato riconosciuto il diritto a vivere nemmeno quando il medico del carcere ha confermato la sua condizione. Mohammed fu arrestato il 2/7/2000 presso il checkpoint di Eretz mentre si recava in Cisgiordania per curarsi un piede.



 



Il prigioniero palestinese Akram Al-Rikhawi rischia la vita ogni giorno. Prima del suo arresto era ricoverato in Egitto e, ogni sei mesi, doveva sottoporsi ad un trattamento medico che consisteva in un’iniezione. Dopo un iniziale rifiuto, solo in un secondo periodo le autorità carcerarie hanno permesso ai familiari di fornigli la vitale iniezione. Questo almeno fino a quando riuscivano a visitarlo; ma con il divieto imposto attualmente sulle visite, Akram rischia di morire.



 



Tra i casi sanitari più gravi ricordiamo: Ra’ed Mohammed Dar Bihi, di Gaza, ha un grave tumore alla schiena ed ha subito numerosi interventi; ‘Emad Id-Din ‘Ata Zo’ran, di Khan Younis, per il quale la Corte ha disposto l’ergastolo. ‘Emad ha un tumore alle ghiandole, diffuso in tutto l’organismo e, ad oggi, ha scontato 16 anni di prigione.



 



Le patologie dei prigionieri palestinesi malati



Ulcera, patologie che interessano la spina dorsale, malattie ai denti, alla pelle, disfunzioni cardiache, polmonari ed articolari, abbassamento della vista (o ipovisione), diabete, emorragie, alcuni rischiano paralisi e ictus (malattie vascolari), malattie virali (infezioni), cancri a vari organi e malattie psichiche e psicologiche conseguenti a tortura.



 



L’isolamento e i “bunker”



Nella comunicazione scritta, i prigionieri hanno ricordato l’estrema condizione degli isolamenti. Senza alcuna ventilazione, le celle destinate agli isolamenti sono simili a bunker sulle cui porte vi è una minuscola fessura che tuttavia resta sempre chiusa.



 



Le celle sono separate, i prigionieri non possono comunicare tra loro, come non riescono a rivolgersi alle guardie carcerarie. Qualunque tentativo di comunicazione è proibito contro il pagamento di una multa. Le celle d’isolamento sono simili a “tombe” come riportano i prigionieri,  e si registra una crescente aggressività da parte delle autorità carcerarie contro i detenuti isolati.



Diciotto detenuti in isolamento



Tra essi, il leader Ahmed Sa’daat, Yahya Sanawar, sofferente, Thabet Mardawi, Hassan Salama, Ahmed Al-Maghrabi, ‘Abdallah Al-Barghouthi, Mohammed Gamal Abu Al-Hija, Mahmoud Al-‘Eisa, Saleh Dar Mousa, Hisham Al-Sharbati, Mahawash Na’maat, ‘Atwa Al-‘Umur, Eyad Abu Al-Husna, Muhannad Shreim, ‘Ahed Ghalma. Tra questi nomi, ricordiamo pure in isolamento la prigioniera Wafa’ Al-Bas della Striscia di Gaza.



 



Taglio dell’acqua: punizione collettiva contro i prigionieri palestinesi



Tra le misure repressive adottate dalle autorità carcerarie israeliane vi è il taglio dell’acqua ai prigionieri. Il pretesto avanzato questa volta è la scarsità di rifornimenti idrici conseguente anche al continuo scorrere dei rubinetti, spesso tutta la notte, da parte dei prigionieri. Simili accuse, sono state sollevate da un membro della Knesset, militante del partito Likud, Danny Danon, che avrebbe suggerito di inasprire il trattamento verso i prigionieri palestinesi contro un miglioramento delle condizioni dei detenuti ebrei.



 



Le sofferenze dei prigionieri palestinesi conseguenti alla scarsità di acqua riguardano in particolare le prigioni del Negev e di Megiddo (site nel deserto), dove l’amministrazione carceraria ha eseguito dei lavori alle condutture idriche che interessano i bagni.



 



Il rifornimento d'acqua viene strumentalizzato e può diventare anche un metodo di tortura contro i prigionieri palestinesi; d’inverno viene ridotta l’acqua calda e spesso non viene erogata per intere giornate. Per converso, d’estate si riduce l’acqua fredda o, nelle prigioni site nel deserto, viene erogata acqua calda! Tra le altre cose, si è riportata l’erogazione di acqua contaminata e/o sporca e la mancata distribuzione degli aiuti destinati ai prigionieri palestinesi e provenienti dagli Stati Uniti.



I bambini palestinesi detenuti e la tortura



Le autorità d’occupazione israeliane violano i diritti sull’infanzia così come stabiliti da numerose leggi e convenzioni internazionali: primo fra tutti il diritto a godere della propria libertà a prescindere dalla religione, dalla nazionalità e dal genere.



Tra questi diritti, inoltre: quello a non essere arrestati (privati della libertà), a conoscere il capo d'imputazione (nel caso avvenga l’arresto), il diritto ad essere assistiti e a comunicare alla famiglia il luogo in cui è detenuto il proprio bambino, il diritto ad incontrare un giudice, ad avere una difesa, ad avere contatto con l’esterno e ad un trattamento umano e dignitoso.



 



I bambini palestinesi, invece, vengono arrestati ad ogni checkpoint israeliano, vengono rapiti nelle proprie abitazioni, interrogati e sottoposti ad umiliazioni e ad aggressioni verbali e non solo. Alle loro famiglie non viene comunicata alcuna informazione relativa all’arresto (come dovrebbe essere, per legge, il luogo in cui il proprio bambino viene portato).



Statistiche sui bambini palestinesi



Le fonti sui prigionieri palestinesi mostrano che dall’inizio dell’Intifada di al-Aqsa i bambini arrestati dalle forze d’occupazione israeliane sono stati 3.500, tra cui 7 bambine.



Contro i bambini palestinesi detenuti, Israele mette in atto violazioni alle leggi internazionali.



Essi sono distribuiti come segue: 104 si trovano nella prigionie di Telmond, 80 ad Ofer, 38 nel Negev e 54 a Megiddo.



Il resto è distribuito tra i vari centri d'investigazione e detenzione israeliani.  Nel 2005 ne sono arrestati 97.



450 hanno compiuto i 18 anni in stato di detenzione, ed essi sono ancora all’interno delle prigioni israeliane: quest’ultimo dato riguarda il 99% dei bambini palestinesi arrestati.



Violazioni della legge



Il governo di Israele esegue una politica di discriminazione contro i bambini palestinesi, i quali, in base all’Ordinanza militare n° 132, emessa da un comandante delle forze sioniste in Cisgiordania. L’Ordinanza definisce "fanciulli" i bambini al di sotto dei 16 anni, contro l’art. 1 della Convenzione sull’Infanzia che dispone invece un limite d’età di 18 anni: “Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un'età inferiore a diciott'anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile”.



 



Persecuzioni ed oppressione



34 prigionieri palestinesi vivono in condizioni di particolare oppressione da parte delle autorità carcerarie israeliane e sono vittime di terrore e violente persecuzioni.



L’organizzazione per i prigionieri Wa’ed riporta casi di particolare gravità: quello della prigioniera Amal Jama’a, la quale attualmente soffre di emorragie e non ha la possibiltà di essere visitata da un medico donna; una necessità che riguarderebbe tutte le detenute.



 



Altre prigioniere palestinesi hanno infezioni alle vie urinarie e non ricevono alcuna cura. Sana’ Shahada e Qahera Al-Sa’edi soffrono di sanguinamento alle gengive ed hanno seri problemi ai denti. Entrambe hanno richiesto, più volte, un dentista senza alcuna risposta.



 



A causa delle ripercussioni psicologiche, le prigioniere accusano insonnia e le autorità carcerarie israeliane, da un lato le imbottiscono di pericolosi sonniferi, dall’altro lato proibiscono qualunque controllo medico. Ciò rappresenta un’altra violazione ed è l’ennesimo insulto alle loro vite.



 



La detenuta Raja’ Al-Ghol soffre di cuore e, per la terza volta, la detenzione amministrativa in cui si trova è stata prorogata. Un’altra prigioniera ha una malattia alla tiroide che le sta causando la perdita dei capelli e forti dolori alla schiena per via delle numerose ore in cui è costretta a letto.



 



Visite in manette



Le visite a detenute e prigioniere palestinesi vengono vietate anche con il pretesto della mancanza di un rapporto familiare; questo criterio però è stato adottato anche in casi in cui la richiesta di visita perveniva da madri e padri delle detenute.



 



Vediamo il caso della detenuta Ahlam Mahroum: le stata vietata la visita dei genitori che si trovano in Giordania (Ahlam è della Cisgiordania), e per l’intero periodo di detenzione ha potuto ricevere solo una visita, dopodiché il permesso in questione è stato sequestrato presso uno dei checkpoint di Ramallah.



 



Qualora le visite vengano permesse, detenute e prigioniere palestinesi vengono ammanettate alle mani e ai piedi (sopratutto le ergastolane!), e questa misura provoca danni e sofferenze psicologiche alle detenute come ai relativi familiari.



Un viaggio crudele



Le prigioniere hanno raccontato quanto avviene prima di essere condotte in tribunale. Vengono perquisite, denudate ed umiliate, fatte salire su un autobus, ammanettate e bendate.



Il bus, “la posta”, è vecchio e strettissimo e le trasporta dal carcere di Hasharon verso il tribunale di Salem o quello di Ofer per un tragitto che dura da tre a quattro giorni, quando la stessa distanza può essere ricoperta in mezz’ora.



 



I soldati israeliani tengono le detenute in questo bus, “la posta”, per lungo tempo, lasciandole all’oscuro di tutto. Vengono poi condotte in strettissime celle, senza possibilità di movimento, dove vi restano finché non sopraggiungono detenute da altre prigioni.


sabato 24 aprile 2010

NUVOLE DI CENERE SU SFONDO MONOCROMATICO.


I vapori cenerini del vulcano Eyjafjallajokull, partiti dall’Islanda, hanno ormai conquistato quasi tutta l’Europa, mettendo impietosamente in evidenza l’estrema vulnerabilità di una società tecnologicamente evoluta, qualora costretta a confrontarsi con gli elementi di una natura troppo spesso sottovalutata.
La nube eruttata dal vulcano islandese sta andando beffardamente a spasso per migliaia di km (stando alle parole degli esperti dovrebbe aver raggiunto in queste ore l’Italia centrale), senza curarsi di distanze e confini, paralizzando di fatto larga parte del traffico aereo europeo. La concentrazione delle ceneri in atmosfera che secondo l’OMS non dovrebbe determinare gravi rischi per la salute umana, mette invece a repentaglio il buon funzionamento dei reattori dei jet, rendendone pericoloso e sconsigliabile l’uso.

Si apre così lo spaccato su un’umanità ormai votata all’ipercinetismo ed educata alla movimentazione schizofrenica di merci e persone. Un’umanità abituata (anche grazie all’imperversare dei voli low cost) a “bruciare” migliaia di km per una riunione di affari, per un weekend esclusivo, per una rimpatriata in famiglia. Figlia di quella globalizzazione che trova nell’aereo il principale asse portante.
“Mi divido fra Londra e New York”, “Vivo in California ma quasi tutti i miei affetti sono a Roma e ci torno ogni volta che posso”, “Vado a Parigi almeno una volta la settimana, perché è lì la sede della multinazionale in cui lavoro”, “Ho passato buona parte dell’ultimo anno in aereo, ma durante i voli riesco a recuperare tempo lavorando al pc”, “Questo weekend andiamo a Praga, tanto con l’aereo s’impiega meno tempo che per una gita fuori porta”.
Sono solo alcune delle frasi facenti parte di un lemmario fino a qualche tempo fa appannaggio dei vip, ma recentemente divenuto di uso comune, ad indicare la sempre più stretta dipendenza dell’uomo nei confronti dell’aereo, in una società dove le distanze vengono compresse a dismisura, senza curarsi minimamente delle conseguenze e dei costi ambientali ed economici derivanti da questo atteggiamento.
Famiglie allargate sull’asse di migliaia di km, ognuna delle quali consuma ogni anno risorse che basterebbero a sostenere centinaia di famiglie del terzo mondo per tutta la durata della loro esistenza. Riunioni di organismi politici e multinazionali che inquinano come un complesso industriale. Pacchetti vacanza che possono fare concorrenza ad un petrolchimico.

Un’umanità che trovatasi in questi giorni di fronte al blocco forzato dei voli, manifesta tutto il proprio disorientamento. Specchiandosi negli aeroporti semideserti trasformati in bivacchi, nelle stazioni ferroviarie prese d’assalto alla ricerca di un improbabile succedaneo, nel tentativo frustrato di continuare a vivere ad “alta velocità” in mancanza dell’unico mezzo che può consentire di farlo. E fra le pieghe del disorientamento spicca naturalmente l’imbarazzo dei vip, politici, attori e miliardari a la page costretti a disertare appuntamenti improcrastinabili o peggio ancora ad affrontare per forza di cose lunghi e “faticosi”viaggi in corriera in grado di riportarli alla meschina condizione degli altri esseri umani, come accaduto al cancelliere tedesco Angela Merkel di ritorno dagli Stati Uniti via Lisbona.

Ma oltre a far riflettere sul rapporto di dipendenza ormai instauratosi fra l’uomo e l’aereo e su quanto siano vulnerabili rispetto agli eventi naturali i fragili equilibri di una società iper tecnologica, la progressione della nube scaturita dal vulcano Eyjafjallajokull non può mancare di mettere in evidenza il fatto che la terra rappresenta un sistema aperto, dove ogni evento, sia esso di origine naturale o indotto dall’attività umana, ha ripercussioni all’interno dell’intera biosfera, anche a decine di migliaia di chilometri dal punto dove si è generato.

Se anziché trovarci di fronte ad una nube di ceneri e vapore indotta da un’eruzione vulcanica che potenzialmente potrebbe influire sul clima nei prossimi anni e le cui conseguenze vengono giudicate catastrofiche dalle compagnie aeree che già reclamano gli aiuti statali e lamentano la perdita di centinaia di milioni di dollari a causa della sospensione dei voli, ci trovassimo a fare i conti con un disastro di origine antropica, la situazione risulterebbe assai peggiore.

La “nube” radioattiva ingenerata dallo scoppio di una
centrale nucleare
o quella tossica determinata dall’esplosione di un complesso chimico, si comporterebbero infatti pressappoco allo stesso modo, con la differenza che si tratterebbe di miasmi letali per la popolazione ed il problema non sarebbe costituito dall’attesa negli aeroporti, bensì dalla sopravvivenza dei cittadini.


Troppo spesso la cieca fiducia nella tecnologia e l’insana smania di dominio sulla natura, propagandate dall’orientamento del pensiero, finiscono per farci dimenticare la nostra condizione di piccoli uomini che in realtà non dominano alcunché, ma rischiano di farsi male seriamente, come bambini che giocano con i cocci di una bottiglia.

Marco Cedolin, www.marcocedolin.blogspot.com

mercoledì 21 aprile 2010

SOSTENIAMO IL POPOLO KAREN, SOSTENIAMO “POPOLI”.


I Karen sono una delle principali etnie che compongono il mosaico birmano,  dal 1949 lottano contro la giunta militare, retta da generali affaristi, corrotti e sanguinari,  per ottenere l'indipendenza e preservare la loro identità e tradizione. Mentre il governo si arricchisce grazie ai suoi ottimi rapporti con le lobby economiche planetarie, grazie al narcotraffico e grazie al supporto militare di Israele, India e Cina, il popolo Karen prosegue nella sua difficile vita senza cedere un passo, opponendosi militarmente alla feroce repressione dell'esercito e lottando strenuamente contro il narcotraffico. La Comunità Solidarista Popoli, una associazione di aiuto umanitario che si propone di mettere in atto tutte le azioni necessarie per portare aiuto concreto a popolazioni o etnie che, in lotta per la salvaguardia delle loro radici, si trovino in situazioni di particolare disagio, aiuta il popolo Karen sin da 2001 mantenendo attive scuole e cliniche mediche per garantire assistenza didattica e sanitaria. La Comunità ha dato inizio ad un impegno che non può essere interrotto, perché della gente che lotta per sopravvivere - 12.500 persone per la precisione – ottiene fondamentali cure sanitarie soltanto grazie al loro intervento. Questo  significa dover raccogliere ogni anno circa 40.000 euro per garantire il proseguimento dei progetti. L´Associazione Culturale Tyr  Perugia, da sempre vicina ai popoli in difficoltà, invita a donare il vostro 5x1000 alla Comunità Solidarista Popoli, compilando il modulo per la dichiarazione dei redditi, indicate nel riquadro del Sostegno al  Volontariato il numero di codice fiscale/partita IVA della Onlus: 03119750234. Ciò che può apparire a prima vista così lontano, è in realtà incarnazione di valori identitari e solidaristici che sono fondamentali. Se solo un piccolo riflesso dei valori di un Popolo come quello dei Karen dovesse essere prima o poi recepito nella società moderna sarebbe, di per se, un atto rivoluzionario. Per maggiori informazioni sull’attività della Comunità Solidarista Popoli, potete visitare il sito www.comunitapopoli.org o contattare la sezione perugina al numero: 346.8872982.

Di Fabio Polese – Associazione Culturale Tyr Perugia, uscito su Free Press Perugia il 21-04-2010


Onore a Raimondo Vianello.


Riceviamo e pubblichiamo un piccolo ricordo di Paolo Signorelli a Raimondo Vianello.

Raimondo Vianello è morto. E con lui muore uno degli ultimi uomini che con la loro tempra e con la loro coerenza hanno testimoniato cosa rappresenti la Razza Italica a fronte di quella “sfuggente” di un mondo devastato dall’infamità, dalla corruzione, dal tradimento, dal rinnegamento indotti dall’omologazione mondialista. Di lui ricordiamo l’artista e la sua vis aristocratica, ma ancor prima ricordiamo il militante dell’Idea che si batté sulla trincea dell’Onore e che per questo pagò il suo pedaggio di Libertà nel campo di prigionia di Coltano dove in molti furono sequestrati dai “liberatori” americani.. Dal poeta dei Cantos Ezra Pound ai futuri volti del cinema Luciano Salce, Walter Chiari, Enrico Maria Salerno. Io lo conobbi insieme al fratello nell’Associazione Sportiva Fiamma e rimanemmo buoni amici. Nel 1987 fu, con Sandra Mondaini, tra i primi ad aderire al digiuno a staffetta organizzato per la mia liberazione. Rimarrà presente nei cuori di tutti gli uomini liberi.


IO STO CON IL MULLAH.


Durante “Porta a Porta” di lunedì, dedicato all’arresto dei tre operatori di Emergency, con la partecipazione del ministro Frattini, di Piero Fassino, di Fausto Biloslavo, il generale Carlo Jean, dell’esperto di cose militari Andrea Margelletti (uno che ha avuto il fegato di dire che i civili morti sotto i bombardamenti americani nella prima guerra del Golfo erano “qualche decina”, mentre sono stati 86164 uomini, 39612 donne e 32193 bambini – dati del Pentagono) e Gino Strada, si è parlato di tutto ma non si è nemmeno sfiorato il nocciolo della questione. Chi sono i legittimi abitanti dell'Afghanistan? Gli afghani, evidentemente. Cosa sono i 130 mila soldati stranieri che vi stazionano? Degli occupanti. Perché occupano? Che sia per fare la lotta al terrorismo è, dopo nove anni di guerra e di guerriglia, non solo insostenibile, è grottesco.

Del resto la stessa Cia ha calcolato che su circa 50 mila combattenti solo 386 non sono afghani. Ma si tratta di uzbeki, di ceceni, di turchi, quindi non di arabi votati alla jihad universale contro il mondo occidentale. E nessuno si perita di spiegare come sia possibile che un manipolo di guerriglieri “straccioni”, così li ha definiti lo stesso Strada, possa controllare il 70% del territorio, come hanno ammesso anche Margelletti e Jean, a petto del più potente, armato e sofisticato esercito del mondo. Perché, con tutta evidenza, ha l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione. Questo appoggio è andato man mano lievitando fino a diventare quasi plebiscitario per il massacro di civili perpetrato dalle truppe Nato.
Sfoglio i miei ritagli: “Spari sulla folla, è strage. Rivolta in piazza a Kabul” (30/5/2006); “Bombe sulle case, strage di civili in Afghanistan” (27/10/2006); “Afghanistan, nuove vittime civili” (28/10/2006); “Massacro di civli dopo l’imboscata agli Usa” (5/3/2007); “Afghanistan, raid Nato. Tra le vittime 45 civili” (2/7/2007); “Afghanistan, gli italiani sparano. Decapitata una bambina di 12 anni” (13/2/2008); “Strage in Afghanistan. Le scuse dell’America” (7/5/2009); “Afghanistan, attacco Nato. Strage di talebani e civili” (5/9/2009); “Afghanistan, colpiti bambini di 5 anni” (10/2/2010); “Afghanistan, nuova strage di civili” (13/4/2010); “Kandahar, la Nato spara su un bus di civili” (13/4/2010). E questo non è che un florilegio del materiale da me raccolto e un’infinitesima parte della mattanza che è quotidiana perché, in assenza di testimoni, le notizie non filtrano fino a noi.

Siamo lì, diciamo oggi, per “ricostruire un Paese”. E invece l’abbiamo distrutto, materialmente, economicamente, socialmente, moralmente.

1) Nei sei anni del governo talebano c’era sicurezza. Si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte. Bastava rispettare la legge. I talebani avevano cacciato i famigerati “signori della guerra” oltreconfine. Oggi alcuni di essi, e i peggiori, dei veri pendagli da forca, Dostum e Hekmatyar, sono nostri alleati.
2) Nell’Afghanistan talebano non c’era disoccupazione perché il Mullah Omar aveva mantenuto la tradizionale struttura economica e sociale del Paese. Oggi i disoccupati sono milioni.
3) In quell’Afghanistan non c’era corruzione per la semplice ragione che ai corrotti i talebani tagliavano le mani (soluzione impensabile in Italia perché avremmo un Parlamento di monchi). Oggi la corruzione è dilagante. Ha detto Ahmad Ghani, il più occidentalizzante dei candidati alle elezioni-farsa di agosto e quindi insospettabile di simpatie talebane: “Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostra moralità. Questa alluvione di dollari ha distrutto la nostra integrità”.
4) Nel 2000 il Mullah Omar bloccò la coltivazione del papavero e la produzione di oppio crollò quasi a zero (si veda il diagramma del Corriere del 17/6/2006). Oggi l’Afghanistan produce il 93% dell’oppio mondiale.

Io sto col Mullah.

Massimo Fini, www.massimofini.it


venerdì 16 aprile 2010

Il modello ”afghano” per gestire i conflitti.


Apparentemente respinti dalle urne e scomparsi dal panorama politico nazionale, i “fascisti” e i “comunisti” sembrano invece occupare prestigiose posizioni di potere all’interno delle istituzioni democratiche: si tratta dei “giudici comunisti”, contro cui si scaglia periodicamente il primo ministro, e dei “poliziotti fascisti”, contro cui inveisce la piazza di sinistra.
A Perugia due pattuglie della polizia sarebbero state circondate, la notte di un sabato sera, dagli astanti in una piazza gremita del centro storico: ne sono volati insulti, qualche bottiglia e due adesivi appiccicati sul cofano delle auto. Quest’ultimo particolare appiccicoso sembra avere conferito un tratto “politico” ad una vicenda spiegabile in ben altro modo, e riconducibile ad un purtroppo generalizzato senso di scollamento - è proprio il caso di dirlo - profondo tra la popolazione e le istituzioni nel proprio complesso.
Prendendo per buona la versione poliziesca circa gli adesivi con la falce e martello azzeccati sulle auto di servizio, verrebbe da chiedere se gli organi inquirenti pensano davvero che si sia trattato di una macchinazione sovversiva orchestrata dai “comunisti” o piuttosto non si tratti dell’ennesimo segnale inquietante che testimonia di un focolaio di conflittualità sotto traccia che investe strati sociali della popolazione, giovanili ma non solo, e di settori istituzionali.
Fatto sta che moltiplicando gli interventi indiscriminatamente repressivi, orientati quasi esclusivamente contro quella parte della cittadinanza che la sera intende usufruire del centro storico della propria città - invece che disporsi alla visione del “Grande Fratello” - si consegnerà presto la città nelle mani degli spacciatori per svenderla poi ai centri commerciali che già fanno ressa per sostituire i negozi e i locali storici del centro.
Ecco allora prendere forma tangibile, anche a Perugia, il progetto ampliamente collaudato a livello nazionale di centro storico infertile, deprivato della sua funzione essenziale di Oikos, cuore vivente della città e prodigo diffusore della sua indispensabile vitalità: al suo posto la Polis delle banche e degli uffici anonimi, di giorno squallido passeggio di legulei e portaborse - però “vivibile” e commercialmente redditizio - di sera invece terra di nessuno e luogo di scontro tra bande di barbari che si contendono metro a metro le strade dello spaccio per rifornire turbe di disperati allo sbando.
Sembra dunque che una “pista” pseudo-politica debba, secondo una tipica logica perversa, prevalere, per dare il solito contentino ai benpensanti perugini e al Sap, il sindacato autonomo di polizia: nel corso di un rastrellamento compiuto dalle forze dell’ordine in centro la notte scorsa con decine di persone identificate in pieno centro (trattasi prevalentemente di studenti italiani), tre ragazzi sono stati arrestati da una pattuglia in borghese e tuttora detenuti.
Le versioni fornite dagli arrestati e dai poliziotti divergono e il filmato dell’arresto, ripreso concitatamente con un telefonino da uno dei presenti, è stato sequestrato da un agente.
Il fatto che i primi avessero dei trascorsi politici è stato giudicato però sufficiente, in una prima battuta, per fare scattare le manette ai polsi dei tre, mentre tutt’intorno, e fino a notte inoltrata, continuavano a svolgersi, come di consueto indisturbati, tutti quei traffici davvero ormai intollerabili che gli abitanti del centro storico di Perugia ben conoscono e che misteriosamente si protraggono da anni senza destare un eguale zelo nei tutori dell’ordine.
Nel clima velenoso e fatto di reciproche accuse e rancori (dal G8 al caso Sandri), le forze dell’ordine appaiono ultimamente come il bersaglio privilegiato dello sfogo anti-istituzionale e anarcoide di frange giovanili ormai private, dalla logica stessa del capitalismo compiuto, di ogni riferimento simbolico-politico (le ideologie politiche per esempio, ma anche forme forti di riconoscimento comunitario).
Dietro questi sfoghi ebbri e impotenti non ci sono, in linea di massima, alcun tipo di rivendicazioni politiche.
Dietro la generica ostilità provata da taluni contro le forze dell‘ordine non vi sono, dunque, i “comunisti”, come patetico risulta chi vorrebbe fare credere che “comunisti” siano i giudici. Allo stesso modo è altrettanto ridicolo e falso affermare che i poliziotti siano dal canto loro “fascisti”, come continua a ripetere la giaculatoria tronfia e completamente autolesionista delle sinistre: in Italia si continua ad attribuire l’epiteto di “fascista” o di “comunista” allo scopo di squalificare il proprio avversario, senza bisogno di mostrare argomenti razionali e facendo leva su riflessi meccanici e campanilismi ideologici.
Quasi sempre però si evita accuratamente di accusare qualcuno di essere, per esempio, un “progressista” o un “liberista”: un assertore, cioè, di quelle ideologie fondate sull’espansione illimitata dei bisogni, sul libero mercato e sulla massimizzazione del profitto che non solo non hanno garantito la felicità che promettevano, ma che hanno spinto il mondo sull’orlo del baratro di una crisi morale ed economica senza precedenti, di uno stato di guerra permanente e di insicurezza senza uscita - che stanno solo a denunciarne i tratti di feroce mistificazione ideologica contro cui, curiosamente, sembrano non generarsi né moti di piazza né moniti istituzionali.
Nel 2010, nell’epoca del controllo globale orwelliano instaurato dal NWO, da Guantanamo e dai microchip sottocutanei consentiti dalla riforma sanitaria di Obama, le farse inscenate contro nemici inesistenti o fantasmi del passato continua a rimanere l’attività principe di una piccola nazione provinciale, perennemente attraversata dalle tensioni reali dei propri centri di potere e dilaniata dall’odio inestinguibile della mentalità faziosa arroccata dietro bandierine, stickers, e battaglie immaginarie.

Di Mario Cecere,
www.rinascita.info


Progresso suicida!


 Apprendiamo dalla cronaca internazionale del mese scorso, con preoccupato stupore, che la maggiore azienda di telefonia francese France Telecom ha fatto ricorso all’architettura pur di evitare suicidi tra i propri dipendenti. Inaugurato, infatti, nella città di Saint Denis, presso Parigi, un nuovo grande immobile della filiale del gruppo. Riporta Il Giornale: “Non solo le finestre sono concepite per evitare qualsiasi tentazione di lanciarsi nel vuoto, ma anche le scale interne sono studiate per evitare che un'eventuale caduta non abbia conseguenze di particolare gravità. Ogni dettaglio è stato preso in considerazione per fare in modo non solo di limitare le conseguenze degli incidenti ma soprattutto di rendere gradevole la vita nel palazzo, destinato a ospitare ben 1800 tra tecnici, impiegati e dirigenti”. Ed ancora: “Tra le particolarità del nuovo palazzo, c'è l'impossibilità di raggiungere le terrazze, tranne che in occasioni molto particolari. Per vedere il panorama, bisognerà sempre starsene dietro a una finestra inesorabilmente bloccata. L'anno scorso il vertice di France Télécom decise di reagire all'ondata di suicidi dando ampi poteri a una commissione speciale, chiamata Comitato di igiene, sicurezza e condizioni di lavoro. La signora Sylvie Robin, membro influente di questo organismo, si è battuta per la nuova concezione del palazzo di otto piani già in corso di realizzazione a Saint Denis”. Misura dalle più lugubri fantasie carcerarie, degna di Alcatraz. Eppure, non v’è nulla di fantasioso; la società moderna si dimostra in grado di trasformare i sogni in realtà. E qui non si tratta dei sogni edulcorati – a base di soldi, sesso e celebrità – che si avverano al cospetto dei personaggi dei cosiddetti reality quotidianamente propinatici dalle TV. Emeriti signor nessuno, privi di meriti e talento ma pieni talvolta di boria e di volgarità, modelli odierni di un mondo che ha sacrificato la propria dignità sull’altare della menzogna, del disonore e della rincorsa ai successi effimeri ed immeritati. Stavolta siamo di fronte ad un concreto, atroce incubo, volutamente ridimensionato rispetto alla sua gravità da parte dei media, che svelano così il loro interesse a raccontarci di un paese dei balocchi, che esiste tuttavia solo al di là del teleschermo. Quarantadue suicidi in due anni, tutti causati dai medesimi motivi, non sono certo un’inezia da sottovalutare. Se tanti affermati manager di una grossa azienda occidentale - invidiati scalatori di una società ove regna l’arrivismo - prendono una così estrema decisione atta a porre fine alla loro esistenza, è evidente che una stilla di malessere dalle tragiche potenzialità cova sotto l’ingannevole velo del sistema. E nessuno sembra mostrarsi preoccupato di questo; nessuno denuncia la deriva repressiva verso cui scivola un’azienda che arriva a costruire per i propri dipendenti un edificio a più piani privo di sbocchi verso l’esterno, se si esclude la porta d’ingresso, così bandendo le boccate d’aria fresca. Tutto ciò per evitare che essi, massacrati psicologicamente dai ritmi di lavoro, umiliati da un sistema che li taccia come dei falliti (quanto è diffuso in lingua inglese il mortificante termine failed!) laddove non raggiungono gli obiettivi prefissati dall’azienda, possano gettarsi nel vuoto, preferendo la morte ad una vita disamine. Così siamo ridotti… Eppure qualche decennio fa ci avevano raccontato che la democrazia – che avrebbe avviato un’epoca pacifica, salvo manifestare la guerra sotto mentite spoglie (la chiamano missione di pace) e in lidi lontani dai nostri cantucci “civilizzati” – fosse il migliore dei mondi possibili. Mondo di prosperità e progresso. Ma forse è il caso di iniziare a considerare che prosperità e progresso non si misurano in base all’indice dei consumi (per giunta di cose quasi sempre inutili, che veniamo persuasi a comprare dalle pubblicità, a costo di indebitarci) e allo sviluppo tecnologico. Anzi, forse sono proprio questi due indicatori a darci la misura dell’esatto contrario: povertà e decadenza sì, ma di spirito! Crediamo sia giunto il momento che la società si interroghi ed abbia la capacità di ridimensionare se stessa, i propri capisaldi ideologici e la propria arrogante saccenza con cui si innalza sul pulpito e da lì giudica il corso della storia. Epoche bollate come oscurantiste erano contraddistinte da un’armonia che va oggi svanendo, da un senso comunitario tradito a beneficio di uno sfrenato egoismo materialista, da valori che sono stati sostituiti da feticci. E’ giunta l’ora di abbandonare i frenetici ritmi imposti, di fermarci; è il momento che ci si riappropri un attimo di un costume che un tempo ci apparteneva: ascoltare con umiltà, dentro al nostro intimo e sano io… Ecco un’esile voce che chiama dal buio pesto dell’animo, ridotto ormai a mero ricettore d’impulsi che ci plasmano secondo un automizzato modello omologante. Essa è ciò che rimane di quella forma primitiva di noi stessi che chiamammo, a ragione, uomo. Essa chiama per chiederci aiuto, per ridestarci dal torpore in cui stiamo inesorabilmente precipitando. E quando il torpore prende il sopravvento su di noi, quando emerge un seppur nichilista impulso di coscienza critica, di rifiuto; ebbene, quello è l’approdo al fatale punto di non ritorno. Ascoltiamola, finchè ne siamo in tempo!

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mercoledì 14 aprile 2010

Palestina: Israele prosegue spedita verso la colonizzazione totale.


Qualcuno a Tel Aviv deve aver capito che questo è il momento giusto per dare una decisa accelerata al processo di colonizzazione di Gerusalemme e della Cisgiordania. La comunità internazionale infatti non sembra essere troppo interessa a quanto accade in Palestina, forse perché distratta dalla questione del nucleare iraniano tanto cara al presidente Usa Barak Obama. Quest’ultimo visti i rapporti tumultuosi che intercorrono ultimamente con il premier Netanyahu, invece, si limita a far finta di non vedere la morsa degli alleati israeliani che si stringe neanche troppo lentamente attorno al collo della popolazione palestinese.
L’esecutivo di Tel Aviv nelle ultime settimane ha infatti approvato numerosi provvedimenti che mirano a fiaccare la popolazione islamica della Città Santa e dei territori occupati. Sono state intensificate le attività di sfratto, e demolizione della relativa abitazione con la scusa di essere “abusiva”, di numerose famiglie palestinesi da Gerusalemme est in base ad un progetto che prevede l’espansione del rione ebraico della città. Quello cioè bloccato all’indomani dello scoppio della crisi diplomatica con Washington e ripreso nuovamente ieri come se nulla fosse. A questo però è stato affiancato, tanto per recuperare il tempo perduto, un altro progetto con il quale la municipalità di Gerusalemme ha dato il via libera alla costruzione di una sinagoga e di una scuola ebraica sempre nella parte araba della Città Santa.
A riguardo i funzionari dell’amministrazione locale, per cercare di limitare le conseguenze di questa nuova provocazione, hanno fatto sapere che tuttavia per il momento non si procederà all’edificazione delle due strutture per la mancanza dei fondi necessari. Non certo una consolazione per tutti quei palestinesi che ora si trovano senza casa con il rischio concreto di essere arrestati e che comunque restano in balia delle frange ebraiche estremiste che più volte in passato hanno messo a ferro e fuoco i quartieri arabi della città. A questo si aggiungono poi tutti gli altri piani di costruzione e ampliamento già approvati e tuttora in atto sia a Gerusalemme che in Cisgiordania, nella quale da ieri chiunque venisse trovato senza gli appositi documenti rilasciati dalle autorità israeliane può essere espulso o carcerato.
Da sottolineare poi che Tel Aviv ha minacciato persino di tagliare le forniture di acqua in tutto il territorio palestinese se non verrà presto elaborato un sistema fognario che non intacchi le falde acquifere sotterranee. Infine viene Gaza. La popolazione della Striscia da anni vive chiusa in fazzoletto di terra vendendosi limitare ogni giorno di più le proprie libertà fondamentali, cosa che di fatto le impedisce di essere autosufficiente pur avendone la possibilità. Ad esempio recentemente l’unica centrale elettrica dell’enclave è stata costretta a chiudere i battenti per la mancanza del carburante necessario ad attivare i generatori, con il risultato di lasciare senza corrente i tre quarti del territorio della Striscia. Inoltre negli ultimi giorni si sono intensificati i raid dell’esercito con la stella di Davide, che ieri hanno causato almeno quattro morti fra i membri delle milizie islamiche e una decina di feriti fra militanti e civili. Questi sono i fatti, ogni ulteriore commento è decisamente superfluo.

Di Matteo Bernabei, www.rinascita.info


Stefano Cucchi. Non mi uccise la morte.



Esistono degli scatti che ti perseguitano per tutta la vita. Nel tragico realismo della pellicola si riversa l’insensatezza del reale. La crudeltà del 900 è in una macchina fotografica, come un occhio vigile e laicamente donato di ubiquità.



Il caso di Stefano Cucchi è profondamente legato a una macchina fotografica, anzi deve a questa l’onore delle cronache, altrimenti mute su una casistica, pur frequente, come quella delle violenze nei penitenziari.



Stefano fu arrestato a Roma il 15 Ottobre scorso e scarcerato, causa prematura scomparsa, la mattina del 22. A non far piombare, quest’assurda morte, nell’assordante silenzio del meccanismo oscurantista dello Stato, teso a proteggere la sua efficiente “polizia”,  fu il coraggio di una Famiglia che volle mostrare la tradita dignità del figlio con le foto di un cadavere terribilmente scomposto da fratture, tumefazioni ed ecchimosi.



Dopo mesi di indagini Paolo Arbarello, direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’università La Sapienza, ha consegnato il fascicolo relativo alle indagini che il suo pool di esperti ha condotto per sincerare le cause della morte del trentunenne romano.



Si evince dalle sue dichiarazioni che non sia stata la disidratazione a condurre alla morte Cucchi, come in un primo tempo asserito dagli inquirenti, in quanto «La sera prima del decesso aveva assunto tre bicchieri d’acqua ed erano stati fatti dei prelievi di urina da cui è emersa una corretta funzionalità renale», ma l’assenza di terapie adeguate, prosegue infatti il Dottor Arbarello, «… pur in condizioni cliniche estremamente difficili, non è stato curato».



Neppure le lesioni, pur rilevate nell’autopsia, di natura grave hanno provocato la morte, seppur queste possono essere imputabili ad un presunto pestaggio come affermato nel fascicolo «avrebbe potuto essere stato spinto violentemente contro un muro o sul pavimento, tanto da provocare la frattura».



E’ dunque da imputare alla negligenza dei medici, consci della difficile situazione clinica, la morte di Stefano che sarebbe dovuto essere ricoverato in un reparto per casi “acuti” e non in quello “detentivo”, sempre nelle parole del capo del pool di esperti.



Tutto ciò a indotto la sorella Ilaria, consigliata dai legali di famiglia, a valutare un esposto di omicidio



A ricordare gli ultimi giorni di vita di Stefano e la terrificante ansia della sua famiglia ci pensa un fumetto, edito da Castelvecchi, scritto da Luca Moretti e illustrato da Toni Bruno intitolato Non mi uccise la morte.



Analizzando in profondità i risvolti del caso Cucchi si vedono le responsabilità di due delle “istituzioni totali”, gli spazi chiusi incaricati di normalizzare, plagiare e anestetizzare la “popolazione”: il carcere e l’ospedale.



Come chiarifica l’analisi di Foucault sui meccanismi del potere è compito di istituzioni di tale tipo la resa efficiente dell’individuo ai fini della società capitalistica.



Stefano Cucchi, come tanti altri, nella sua natura poco incline alle norme sociali, lontano dall’obbligo lavorativo, non solo attività tecnica ma vera e propria “parola d’ordine del pensiero etico” come esplicato da Jünger, è l’esempio peculiare di questa azione repressiva sulla massa. Colui che non rispetta, anche parzialmente o in maniera irrilevante, i dettami di questo potere anodino che ha «nella popolazione il bersaglio principale,  nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale» viene costretto dalla police a un allontanamento coatto dalla società civile. Questo allontanamento non è solo fisico, inteso come lo spostamento di un corpo, ma anche un azione sulla mente. Le botte e le umiliazioni coattive sono il congegno utile a piegare una coscienza alla volontà del potere.



La “paura urbana” è così annichilita nei manganelli delle forze dell’ordine che al contempo prevengono, rinchiudono e puniscono i trasgressori della morale comune, di continuo esaltata, a prescindere da schieramenti politici, dalla voce del potere. Ci dona l’illusione della sicurezza, elargisce serenità, fa sgorgare acqua dai nostri rubinetti ed elettricità dalle nostre prese di corrente ma «la condizione dell’animale domestico si porta dietro quella della bestia da macello».



La lezione della famiglia Cucchi, che mostrando i risultati tremendi di uno stato sicurtario, può portare agli esiti preconizzati da Ernst Jünger:



«Se le grandi masse fossero così trasparenti, così compatte fin nei singoli atomi come sostiene la propaganda dello Stato, basterebbero tanti poliziotti quanti sono i cani che servono ad un pastore per le sue greggi. Ma le cose stanno diversamente, poiché tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos’è la libertà. E non soltanto questi lupi sono forti in se stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in un branco. È questo l’incubo dei potenti».

Di Nicola Piras, www.mirorenzaglia.org


martedì 13 aprile 2010

NOTIZIE DALL'IRLANDA DEL NORD


IL FUOCO DELLA RIVOLTA E’ ANCORA ACCESO.

Durante la commemorazione per il novantaquattresimo anniversario del 1916 a Dublino dell’Easter Rising (Rivolta di Pasqua) organizzata dal Repubblican Sinn Fein è partito un provocante attacco verso la Real IRA che è stata etichettata come traditrice. Emmet White nel discorso principale della commemorazione ha dichiarato: “Abbiamo molti gruppi che si definiscono Repubblicani. Abbiamo la cosidetta Real IRA che sta lottando per una Repubblica composta da 32 Contee o, almeno, così dice. Cosa hanno fatto tra il 1986 ed il 1997? Stavano seguendo l’agenda dei provos. Sono dei traditori. Dovrebbero lasciare le armi e ritornare a casa. Non può esserci una diluizione del principio”. Alla commemorazione erano presenti alcunimembri della 32 County Sovereignty Movement che, appena hanno sentito queste dichiarazioni, per protesta, hanno lasciato la celebrazione. Non si è fatto certo attendere la risposta della Real IRA che durante la commemorazione sempre per la Rivolta di Pasqua organizzata presso il City Cemetery di Derry dal 32 County Sovereignty Movement ha promesso di intensificare la sua campagna armata nel corso di quest’anno proclamando che le loro azioni saranno più forti di mille parole e rivendicando gli attacchi degli ultimi mesi contro alcune stazioni di polizia. L’annuncio è stato fatto da un combattente repubblicano che indossava l’uniforme paramilitare e aveva il volto coperto da un passamontagna, alla presenza di circa trecento persone che si erano radunate per l’evento e ad alcuni giornalisti intervenuti. Mirian Price, portavoce del 32 County Sovereignty Movement, nella stessa commemorazione, ha chiesto esplicitamente di agire nelle proprie comunità e ha attaccato anche Martin McGuinness dello Sinn Fein dicendo: “I collaborazionisti che ci chiamano traditori è un coro familiare. Il repubblicanesimo non può essere guidato dai collaborazionisti”. Intanto, sempre nella giornata di Pasqua, i detenuti repubblicani si sono rinchiusi nella sala mensa della prigione di Maghaberry chiedendo la reintroduzione dello status di prigioniero politico. Breandan MacCionnaith, segretario dell' Eirigi, il partito politico socialista repubblicano nato nell’aprile del 2006 proprio nell’anniversario dell’Easter Rising, ha espresso solidarietà dichiarando al Nothern Ireland News (u.tv) che: “Negli ultimi anni, il regime carcerario di Maghaberry ha acquistato notorietà per il suo sconvolgente trattamento dei prigionieri repubblicani e delle loro famiglie. Questo trattamento è stato incentrato sulla negazione dello status di prigioniero politico e dal tentativo di dipingere i detenuti a causa dell’occupazione britannica come criminali comuni. Senza riguardo alle opinioni politiche personali, la realtà è che questi prigionieri non sarebbero in prigione se non fosse per la continua presenza britannica in Irlanda, sono chiaramente prigionieri politici e dovrebbero essere trattati come tali”. In un comunicato del 32 County Sovereignty Movement in riferimento a dei fermi sempre nel fine settimana di Pasqua, si legge: “Irepubblicani irlandesi non si faranno distogliere del chiedere la sovranità della nazione irlandese e non sarà la milizia britannica a fermarci dall’onorare i nostri patrioti morti o a farci indietreggiare con queste tattiche da bulli”. Il fuoco della rivolta è ancora acceso, oggi come allora.

Fabio Polese, www.rinascita.info


 



Irlanda del Nord: Real Ira si oppone alla devoluzione.



A Belfast Real Ira torna a colpire, per opporsi alla devoluzione. Le autorità locali hanno subito attribuito l’attentato ai gruppi repubblicani contrari al processo di pace imposto da Londra col placet del Sinn Fein e dei protestanti filo-britannici. L’attacco è giunto infatti nel giorno del trasferimento dei poteri di polizia e giustizia dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord. Il servizio d’intelligence rimarrà tuttavia sotto il controllo britannico anche dopo il passaggio dei poteri alle autorità di Belfast. L’autobomba è esplosa vicino alla sede del MI5, il servizio segreto britannico, alla periferia di Belfast dietro l’ex campo militare di Palace Barracks Holywood. La detonazione è avvenuta attorno alle 00:24 ora locale (1,24 ora italiana). Non ci sono state vittime, ma in seguito allo scoppio un anziano è rimasto ferito lievemente ed è stato portato in ospedale. L’attacco è avvenuto in concomitanza col trasferimento dei poteri di polizia e giustizia dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord. A rivendicare l’attentato, secondo quanto rivelato la polizia britannica, il gruppo repubblicano dissidente del Real Ira, contrario al processo di pace deciso da Londra e approvato dai repubblicani del Sinn Fein. Le indagini hanno rilevato che la bomba era stata piazzata su un taxi, dirottato nella zona di Ligoniel a nord di Belfast, a circa sette miglia da Holywood, attorno alle 21 e 50 ora locale. Il conducente è stato tenuto in ostaggio da tre uomini per circa due ore prima di essere obbligato a portare il suo taxi nei pressi della caserma. Il personale di sicurezza si sarebbe accorto dell’imminente pericolo, avvertito dalle urla del tassista e avrebbe fatto evacuare la zona, allontanando velocemente almeno 60 persone dalle loro abitazioni, poco prima di mezzanotte e pochi minuti che la bomba deflagrasse. Le esplosioni in realtà sono state due: la prima sarebbe stata causata dalla bomba vera e propria, a cui ha fatto seguito l’esplosione del serbatoio della benzina, che ha distrutto l’autovettura e danneggiato le altre proprietà circostanti. L’attentato ha rappresentato una risposta alle decisioni prese nel marzo scorso dai deputati dell’Assemblea nazionale (Stormont), con una votazione a favore del trasferimento dei poteri di polizia e giustizia da Londra a Belfast. A Stormont 88 voti, su 105, avevano sostenuto in quell’occasione la devoluzione, a dirsi apertamente contrari erano stati invece 17 unionisti protestanti. Ieri, invece, a conferma che l’accordo è ormai cosa fatta, è stato eletto dai deputati nordirlandesi per la prima volta un ministro della Giustizia: David Ford, leader dell’Alliance Party (formazione mista composta da protestanti e cattolici), frutto dell’intesa fra il Democratic Unionist Party (DUP), vicino a Londra, e il Sinn Fein.

Andrea Perrone, www.rinascita.info

 


lunedì 12 aprile 2010

Bobby Sands, cuore di Belfast.



Ridare dignita' ai popoli europei nel pieno riconoscimento del valore della Tradizione che costituisce le comunita' differenziate: davanti al caos omologante della societa' globalizzante del pensiero unico e del grande fratello, l'associazione Triskelion punta sulla valorizzazione del tessuto organico dei popoli.


 


Insieme a Maurizio Rossi e Riccardo Merolla, il primo saggista e autore di "Martiri d'Irlanda", il secondo presidente di Triskelion,  il giorno 17 Aprile 2010 alle 18,  presso il pub Shamorock di Perugia in piazza Danti , l'associazione Triskelion propone una commemorazione  di Bobby Sands,il  prigioniero repubblicano irlandese morto in seguito a sciopero della fame nel carcere inglese di Long Kesh nel 1981 e celebrato anche in alcuni film dedicati alla drammatica storia dell'Irlanda del Nord.


 


"Bobby Sands, cuore di Belfast" e' il titolo dell'incontro al termine del quale,  dopo l'aperitivo, suoneranno il loro repertorio tradizionale di musica irlandese i Celtic Dusk. La serata vuole essere un motivo di festa, ma anche di riflessione attenta e priva di astio, sui fenomeni omologanti e oppressivi che contrassegnano la modernita' e di fronte ai quali da sempre insorgono le personalita' a noi piu' affini: i combattenti per la liberta'.

Associazione
Triskelion, triskelionpg@gmail.com


Accordi con bombe.


È ridicola l’enfasi che la stampa internazionale ha dato al preaccordo fra Stati Uniti e Russia per ridurre di un terzo i loro armamenti nucleari. Ridicola perché alla Russia rimarranno circa 8000 atomiche e agli americani 7000, quando con un centinaio di questi ordigni si può distruggere non solo un eventuale nemico ma l’intero pianeta.

Che cambia? In realtà, come spiega bene Franco Venturini sul Corriere, l’accordo è in funzione anti-iraniana. Questo è il suo vero e unico scopo. Le due superpotenze dicono alla comunità internazionale, cioè in pratica a se stesse, guardate come siamo brave noi che riduciamo i nostri arsenali nucleari, mentre l’Iran, “brutto, sporco e cattivo”, se ne vuole costruire uno. È come se un tipo armato di mille fucili ne buttasse via un centinaio e pretendesse, in nome di ciò, che l’avversario inerme non se ne fabbricasse nemmeno uno.

Questo accordo si lega alla nuova “dottrina Obama” (il quale sta facendo rimpiangere George Bush che perlomeno, nella sua brutalità, era più onesto) per cui gli Stati Uniti si impegnano, bontà loro, a non attaccare nessun Paese con armi atomiche purché (tutto sta in questo “purché”) abbiano firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e dimostrino di non violarlo. E allora dell’alleato Pakistan che ne facciamo? E di Israele che non ha firmato il Trattato ma la Bomba, com’è notorio, ce l’ha anche se non lo ammette e i suoi missili nucleari sono puntati sul territorio iraniano? No, l’ammonimento vale solo per Teheran.

L’Iran è circondato da potenze nucleari, Russia, Cina, India, Pakistan, Israele, alcune dichiaratamente ostili. Non fosse che per questo avrebbe diritto di costruirsi la sua Atomica che è un’arma di pura deterrenza perché nessun regime, nemmeno quello degli Ayatollah, sarebbe così pazzo da farne uso sapendo che nel giro di qualche ora sarebbe raso al suolo dalla reazione americana. Ma, allo stato, non c’è alcuna prova che l’Iran voglia costruirsi l’Atomica. Ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e lo ha rispettato. Ha riaperto i suoi siti nucleari alla presenza degli ispettori dell’Aiea, l’agenzia Onu per il controllo dell’energia nucleare e ne ha accettato i controlli. Finora le ispezioni hanno verificato che l’arricchimento dell’uranio nelle centrali iraniane non supera il 20% che è la quota necessaria per usare il nucleare a fini civili, energetici e medici. Mentre per arrivare a costruire una bomba atomica l’arricchimento deve superare il 90%. Vari esponenti americani, politici e militari, avevano dichiarato negli anni scorsi che l’Iran si sarebbe fatta l’Atomica “entro il 2010”. Il 2010 è arrivato e gli iraniani non hanno nemmeno completato il loro programma di nucleare civile. E allora?

L’aggressività occidentale si basa su un processo alle intenzioni, sul sospetto che gli iraniani vogliano andare oltre. E io, non riesco a capire perché in base a un semplice sospetto un Paese, l’Iran, debba essere imbottito di sanzioni e minacciato di attacchi nucleari (la stampa americana ha documentato che piani del genere sono stati approntati sia da Washington che da Tel Aviv) e un altro Paese, Israele, che la Bomba ce l’ha e sembra dispostissimo a usarla, come i suoi dirigenti hanno più volte fatto capire, debba essere lasciato tranquillo. L’unica ragione che vedo è che l’Occidente si percepisce come troppo civile, una “cultura superiore”, per fare stragi atomiche, mentre ci sarebbero “culture inferiori” incontrollabili e disposte a tutto. Ma finora gli unici ad aver osato buttare un paio di bombette atomiche sono stati proprio i civilissimi United States of America che da più di mezzo secolo pretendono, anche a suon di bombe all’uranio impoverito (Serbia, Iraq, Afghanistan), di fare la morale al mondo intero.

Di Massimo Fini, www.massimofini.it


sabato 10 aprile 2010

Tosap e soprusi. Incontro pubblico.


Bufera sul comune di Perugia, circa 20mila residenti si sono visti recapitare a casa dal comune l'ennesimo sopruso: di nuovo tasse. A questo giro il comune avrebbe affidato ad una società, nello specifico la Dogre s.r.l., di provvedere a mandare cartelle pazze con richieste di pagamento di tasse campate sul nulla. Tra le tante casuali la richiesta di pagamento della Tassa Occupazione Spazi ed Aree Pubbliche (tosap) su strade private cieche, cioè quelle strade non aperte al transito della collettività, che non sono soggette all'imposta, in quanto su di esse non è possibile costituire la servitù di passaggio. Riccardo Donti, coordinatore regionale di forza nuova, afferma che'' dopo l'abolizione dell' ici e non essendoci riusciti con il t-red con l'irpef e con gli inverosimili rincari delle strisce blu e dei parcheggi, adesso gli amministratori comunali provano a farci pagare l'aria che respiriamo per sopperire al bilancio in rosso del comune di Perugia''.'' Mi sorprendo sempre più'', prosegue Donti,'' di come i miei concittadini continuino ad ignorare i motivi che hanno portato a questa tassazione vessatoria e si ostinano a non voler cambiare e migliorare la loro città perseverando nelle loro scelte politiche, come la recente tornata elettorale sta a dimostrare''.''Forza Nuova'',conclude Donti,''chiede subito la sospensione del pagamento della tosap per i molti errori che hanno colpito i perugini e nel frattempo che ci siano dei chiarimenti sul regolamento applicativo della stessa, Forza Nuova organizzerà per Mercoledì 14 Aprile ore 21:00 presso la propria sede un incontro con i cittadini per mobilitarci contro quest'ennesimo sopruso ''.

www.fnumbria.org


Schiavi delle banche.


Il capitalismo trionfante e globale sta raggiungendo la sua razionalizzazione estrema.
Che consiste in questo: retribuire sempre più il capitale, retribuendo sempre meno il lavoro.
Il fenomeno è di portata storica: non emigrano gli uomini, ma i posti di lavoro.
Centinaia di migliaia di posti vengono risucchiati da Cina ed India; non sono solo lavori non qualificati, i meno pagati, che laggiù costano ancora meno; sono posti ad alta qualificazione e contenuto tecnico, perchè nel corpo del terzo mondo indo-cinese esiste un primo mondo (che si contenta però di paghe da terzo mondo) di laureati con invidiabile livello tecnico, alta qualità di educazione e saperi moderni.
Ma così facendo, il capitalismo si dirige verso il proprio suicidio: poichè i lavoratori con potere d’acquisto calante diventano sempre meno capaci di acquistare le merci che il capitalismo produce in volumi sempre maggiori.
E che cosa spinge il capitalismo a correre verso la propria implosione?
Il potere della finanza, della banca.
La frode fondamentale della banca, che lucra l’interesse dal denaro che crea dal nulla per prestarlo, è qui spiegata con chiarezza politicamente scorretta.
Il lettore scoprirà che è la frode bancaria, creando massa monetaria dal nulla, a creare inflazione; e che gli interessi finanziari incorporati nel prezzo di ogni merce costituiscono in media il 50 % del prezzo; dunque ogni merce ci potrebbe costare la metà.
Il sistema bancario-finanziario estrae pertanto da ciascuno di noi, più volte, una imposta occulta, per il solo fatto di esistere e di espandersi.
In queste pagine si discutono le alternative per un’economia sana, non egemonizzata dal profitto finanziario: dall’economia politica di List (a cui l’America di George Washington dovette il suo sviluppo prodigioso) alla creazione del credito di Stato di Alexander Hamilton, fino alla moneta deperibile di Gesell, e alla proposta di abolizione del credito ex nihilo del premio Nobel francese Maurice Allais.
Il denominatore comune però di ogni soluzione proposta dai tanti studiosi “non conformisti” presi in esame consiste nella riconquista, da parte degli Stati, della sovranità monetaria, strappandola alle cosiddette “Banche Centrali”.

Per ordinare: controventopg@libero.it


giovedì 8 aprile 2010

Real IRA: Più forti di mille parole.

La Real IRA ha promesso di intensificare la sua campagna armata nel corso dell’anno, annunciando che le sue azioni saranno “più forti di mille parole”.

L’annuncio è stato fatto da un uomo a volto coperto, vestito con l’uniforme paramilitare della Real IRA, durante la commemorazione per l’Easter Rising organizzata dal 32 County Sovereignty Movement presso il City Cemetery a Derry.



Quasi 300 persone si sono radunate nel cimitero per l’evento. C’era anche una considerevole copertura da parte dei mezzi di comunicazione.



Il paramilitare della Real IRA faceva parte di un colorato corteo che è partito dai cancelli del City Cemetery in Blight’s Gardens per raggiungere il monumento repubblicano dove si è tenuta la commemorazione.



Annunciando i progetti del gruppo per i prossimi 12 mesi, l’uomo ha detto: “Quest’anno le nostre azioni saranno più forti di mille parole”.

Quindi il corteo è sparito tra la folla al termine della commemorazione.



Poco dopo, un gruppo di giovani si è radunato a poca distanza dal cimitero e ha cercato di erigere una barricata alla rotonda nei pressi della chiesa di St. Mary, bruciando immondizia sulla strada.



Si è verificato il lancio di almeno una bottiglia incendiaria.



L’avvertimento della Real IRA giunge solo due settimane dopo la rivendicazione del gruppo di aver abbandonato 4 bombe presso differenti luoghi del centro di Derry, provocando ingorghi al traffico. Altri allarmi bomba erano stati lanciati in tutto il Nordirlanda nello stesso periodo.



La Real IRA ha anche rivendicato gli attacchi contro alcune stazioni di polizia negli ultimi mesi.



Marian Price, segretaria nazionale del 32CSM, ha tenuto il discorso principale alla commemorazione e ha chiesto ai repubblicani di “agire” nelle proprie comunità.



“La nostra opposizione intellettuale alle attuali strutture deve essere sostenuta da azioni sul territorio che facciano capire alla gente che la rivolta del 1916 è una questione non completata”, ha affermato. “Dobbiamo agire adesso; non possiamo più aspettare”.



La Price ha anche attaccato Martin McGuinness dello Sinn Fein: “I collaborazionisti che ci chiamano traditori è un coro familiare. Il repubblicanesimo non può essere guidato dai collaborazonisti”, prosegue la Price.



Il repubblicano di Belfast, Terry McCaffery, recentemente rilasciato dal carcere, era presente alla commemorazione.


Tratto da: http://www.derryjournal.com/journal/RIRA-vows-it-will-step.6206102.jp

martedì 6 aprile 2010

La guerra in Iraq e i morti per sbaglio.

WASHINGTON – I piloti dell’elicottero Apache hanno scambiato i lunghi teleobiettivi delle macchine fotografiche per dei lanciarazzi. E, secondo le regole di ingaggio, hanno aperto il fuoco: sono morti così Namir Noor Eldeen, reporter dell’agenzia Reuters a Bagdad, il suo autista, Said Chmagh, ed altre 10 persone.


L’episodio, documentato da un video registrato dalla “camera” del velivolo, è avvenuto nel luglio 2007 in una via di Bagdad. Due elicotteri – secondo la versione ufficiale – sono intervenuti per proteggere una pattuglia statunitense. Dalle immagini, però, non si vede alcun segno di sparatoria. Dopo l’incidente la Reuters aveva chiesto al Pentagono il video ma non aveva ottenuto risposta. Lunedì, il sito “Wikileaks.org” ne ha diffuso una copia dopo averlo ricevuto da una fonte interna.




Il filmato inizia mostrando un gruppo di persone che cammina lungo una strada. Tra loro Eldeen e Chmagh che portano in spalla qualcosa. I piloti ritengono si tratti di Rpg, lanciarazzi anti-carro. Poco distante si notano altri due uomini che imbracciano, effettivamente, dei fucili d’assalto. Poi il fotografo si china, sbircia dietro l’angolo di un muro lasciando spuntare un oggetto che viene di nuovo identificato come un possibile Rpg. E’ invece il teleobiettivo. Da quel momento il gruppetto diventa un bersaglio. E pochi istanti dopo il cannoncino dell’Apache semina morte. Quando un ferito - Said - cerca di muoversi, si capta chiaramente l’impazienza del pilota, pronto a sparare di nuovo: «Tutto quello che devi fare è raccogliere l’arma», dice, quasi invitandolo, via radio.



Qualche minuto dopo arriva un pullmino, ne escono due uomini che tentano di portare soccorso a Said. Il pilota chiede l’autorizzazione ad aprire il fuoco. La ottiene e centra il mezzo più volte. Per Said non c’è scampo. Quindi sopraggiunge una pattuglia americana e uno dei fuoristrada sembra passare su un cadavere: i piloti hanno una reazione tra il sorpreso e il divertito. Ai soldati ci vuole molto tempo per accorgersi che a bordo del van ci sono due bimbi feriti. Li portano in ospedale.



In risposta alle rivelazioni, il comando Usa ha diffuso un breve rapporto dove si precisa che i due dipendenti della Reuters non hanno fatto nulla per farsi riconoscere come giornalisti. Inoltre i militari hanno allegato delle foto di una mitragliatrice e granate che sarebbero state rinvenute vicino ai corpi di alcune delle vittime. L’indagine del Pentagono si è conclusa senza alcun provvedimento per i piloti in quanto non potevano sapere che tra le persone colpite c’erano anche i reporter.


Di Guido Olimpio, www.corriere.it

venerdì 2 aprile 2010

Divieto di ricordare.

Supponiamo di trovarci a passeggiare per una qualsiasi strada di una qualsiasi città italiana il prossimo 15 maggio (la data non è certo casuale). Supponiamo di vivere una di quelle giornate storte, di quelle caratterizzate magari da un evento sfavorevole - o da un triste ricordo - che possano inficiare la nostra serenità. Supponiamo, dunque, di dover convivere con un broncio che ci accigli il viso in modo piuttosto evidente da lasciar trasparire il nostro stato d’animo agli altri. Supponiamo, infine, di poter esercitare questo basilare, banalissimo ed innocuo diritto ad esprimere le nostre emozioni solo a costo di incappare in spiacevoli inconvenienti. Quale tipo di inconvenienti? Un fermo delle forze di polizia ed una salata multa (o, peggio, il carcere). Inconvenienti non accidentali ma pianificati dallo Stato per evitare che la malinconia possa disegnare sul nostro volto un broncio evidentemente scomodo. Perché scomodo? Perché rappresenta il simbolo di una pagina di storia che è interesse comune di chi governa stralciare. Una pagina su cui si fonda il “diritto” storico dello Stato ad esistere, macchiata dal sangue di centinaia di migliaia di innocenti usurpati della propria terra con metodi efferati: prima occupati, poi scacciati violentemente, uccisi o, nella migliore delle ipotesi, ridotti in stato di profughi e relegati in fatiscenti campi privi d’ogni servizio. Supposizioni paradossali se a pensarle è un Italiano, disabituato a veder così concretamente calpestata la propria dignità individuale, ma piuttosto educato a riservare la massima cura a quei temi della memoria storica che siamo frequentemente sollecitati ad osservare con laica religiosità da scuola e media di massa. Eppure, quelle che abbiamo descritto come supposizioni, sono l’ennesima, cruda realtà con la quale dovranno confrontarsi i Palestinesi che vivono nei territori occupati dall’esercito israeliano. Sì, perché una nuova legge in Israele rende crimine la commemorazione di ciò che i Palestinesi chiamano “Nakba”, la catastrofe del loro sradicamento e pulizia etnica dalla Palestina, con la creazione dello Stato sionista nel 1948 e le conseguenti sofferenze patite dai Palestinesi sino ad oggi, accresciute dalla ferma volontà sionista - drammatica e pericolosa cronaca d’attualità - di incrementare gli insediamenti dei coloni ebrei. Il parlamento israeliano (proprio quella Knesset tanto incensata dai nostri politici quale unico propulsore democratico del Medio Oriente) ha ratificato alla prima lettura la cosiddetta “legge Nakba”. Essa consiste nel punire, anche fino a tre anni di carcere, chiunque in quella data mostri segni di lutto. Quale scopo si prefigge questa legge così inequivocabilmente liberticida adoperata dal democratico Israele? Presto detto! Essa si prefigge di impedire che atti commemorativi possano “negare il carattere ebraico di Israele”. Ovviamente nessun organo di stampa occidentale darà risalto a questo provvedimento, sebbene esso dimostri in modo lampante come la discriminazione razziale istituzionalizzata sia un argomento d’attualità, almeno in Israele; nell’unica democrazia mediorientale. In compenso, con cadenza forse quotidiana ci viene recitata da stampa e TV la ramanzina sull’importanza della memoria finalizzata a non commettere gli errori del passato. Con la stessa frequenza assistiamo inoltre ad accorati dibattiti in cui dotti rappresentanti della società civile, delle istituzioni e di associazioni di stampo moralista o ideologizzate si interrogano preoccupati circa le pericolose derive razzistiche in cui staremmo noi tutti precipitando, e propongono misure per arginare il fenomeno. Eppure, tutti costoro tacciono o quasi circa “il carattere ebraico di Israele”, la condizione etnicamente discriminatoria su cui si fonda il sionismo. E tacciono, conseguentemente, su ogni tipo di misura presa dagli stessi sionisti nei confronti dei non ebrei che si trovano a vivere nei territori occupati da Israele; compresa questa assurda legge. E’ evidente, a questo punto, che la memoria che veniamo chiamati ad osservare è una lurida ipocrisia, una mera propaganda politica svuotata d’ogni significato profondo. In occidente vengono istituzionalizzate le giornate della memoria che si propongono di ricordare la disumanità dei regimi totalitari, al fine di legittimare l’attuale status quo e di frugare ogni possibile dubbio sulla bontà dei regimi liberali. Giustificando, soprattutto, l’arroganza sionista con le vicissitudini subite dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Non verranno mai istituite giornate dedicate altresì al ricordo delle sofferenze patite da tantissime popolazioni che hanno conosciuto sulla propria pelle la reale identità guerrafondaia di questi presunti dispensatori del concetto di bene universale e non ci sarà mai una corretta informazione su quanto attualmente continuano a commettere costoro. Israele e Nato in primis. Noi rifuggiamo l’ipocrisia, caratteristica tipica della democrazia, e queste sue sgradevoli manifestazioni, tentando invece di perseguire, nel nostro piccolo, un onesto percorso informativo, basato su fatti oggettivi e scevro da connotati retorici. In conclusione, sarà quindi poco conveniente per un Palestinese in quella data circolare per le strade presidiate dalle forze sioniste, onde non rischiare di finire dietro le sbarre con la ridicola accusa, potenzialmente arbitraria, di essersi mostrato triste. Eppure i Palestinesi vivranno quest’ennesimo abuso con l’impavida attitudine che li contraddistingue e che li cristallizza nel nostro immaginario coi volti coperti da una kefiah, pronti a sfidare i supertecnologici carri armati israeliani coi più rudimentali mezzi, i soli che la arida e amata terra di Palestina può offrire ai suoi figli: i sassi.



 



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