mercoledì 15 settembre 2010

VIDEO SU ATTACCHI AI VILLAGGI KAREN.


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Usurocrazia e sovranità monetaria.


Per li occhi fora scoppiava lor duolo;/ di qua, di là soccorrien con le mani/ quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:/ non altrimenti fan di state i cani/ or col ceffo or col piè, quando son morsi/ o da pulci o da mosche o da tafani. Con questi versi di terrificante realismo e forte impatto emotivo Dante descrive la condizione degli usurai nel III girone del VII cerchio dell’Inferno. Sfruttatori del lavoro altrui, avidi di denaro e di potere, se ne stanno - moltitudine indistinta e belluina - muti, racchiusi nel loro dolore espresso attraverso le lacrime che sgorgano dagli occhi. Come i cani d’estate dimenano il muso e le zampe quando sono tormentati dalle pulci, dalle mosche e dai tafani, così anch’essi agitano convulsamente le mani per pararsi dalle fiamme e dalla sabbia ardente. Un’impietosa condanna dell’usura, dunque (la legislazione ecclesiastica del tempo paragonava l’usura all’eresia e condannava al rogo chi si macchiava di tale colpa), oggi più che mai d’attualità in un mondo globalizzato che vede il trionfo della finanza apolide usuraria e del grande capitale a scapito del lavoro dei popoli e della solidarietà sociale. Già Aristotele affermava che “il denaro non può procurare altro denaro” e tale enunciato lo troviamo poi sviluppato nel tomismo di età medievale. Il denaro veniva infatti considerato sterile in quanto non poteva generare frutti alla stregua degli esseri viventi o delle piante. Ma cos’è esattamente l’usura? È il denaro ricavato dal mero utilizzo del denaro. Ed Ezra Pound, da annoverare tra i grandi uomini del ‘900, bollava impietosamente taluni governi di servilismo e di sottomissione al signoraggio sulla moneta esercitato dal sistema bancario privato e dalle banche centrali da questo controllate. Una ragnatela speculativa dove l’esclusivo interesse privato strangola la sovranità politica e monetaria degli stati nazionali e l’autodeterminazione dei popoli.
Tale sistema perverso nasce in Inghilterra ad opera dello scozzese William Paterson, mercante, avventuriero e banchiere. Il 27 luglio 1694 Paterson ottiene dal sovrano protestante Guglielmo III d’Orange (al potere dal 1689 come re d’Inghilterra, Irlanda e Scozia dopo la deposizione di suo zio Giacomo II, cattolico. Ancora oggi l’oppressione “orangista”, incentivata e protetta da Londra, contro i cattolici repubblicani d’Irlanda è oggetto di funesta cronaca quotidiana) l’autorizzazione ad operare come banchiere ufficiale del regno. Fonderà la Banca d’Inghilterra, prima banca di emissione privata, che godrà così del privilegio di emettere moneta da prestare ad usura allo Stato (il primo prestito al governo inglese ammonterà a 1.200.000 sterline). Nella sua memorabile sentenza: “La banca trae beneficio dall’interesse che pretende su tutta la moneta che crea dal nulla” vi è racchiuso il nucleo ideologico del significato di signoraggio sulla moneta. È, quindi, a partire da tale data che i governi perderanno la loro sovranità economica e il potere di emettere moneta sarà delegato ad una banca privata. Non faranno ovviamente eccezione gli Usa, che nonostante l’indipendenza dalla madrepatria proclamata con la famosa dichiarazione del 4 luglio 1776, saranno sempre soggetti all’usurocrazia monetaria della Federal Reserve, divenendo ben presto il braccio armato del liberismo mondialista. Con due eccezioni, però, anche se di breve durata per la tragica sorte toccata a chi osò andare controcorrente: Abraham Lincoln e John Fitzgerald Kennedy. Tuttavia, ad onor del vero, già Thomas Jefferson, al tempo in cui ricopriva la carica di segretario di Stato durante la presidenza di George Washington, si era fermamente opposto al progetto di fondazione di una banca centrale privata (la First Bank of the United States) caldeggiato dall’allora ministro del Tesoro Alexander Hamilton. Personaggio ambiguo e contraddittorio (in origine sosteneva esattamente l’opposto, e cioè che la cosa pubblica non potesse essere delegata ad una banca privata poiché questa tutelava esclusivamente i propri interessi), l’Hamilton fu accusato di essere strumento dei banchieri internazionali, probabilmente in combutta con i Rothschild, che proprio in quel periodo, per bocca del fondatore della dinastia, l’ebreo askenazita Mayer Amschel, memore forse della succitata celebre frase del suo predecessore scozzese, aveva sentenziato: “Lasciate che io emetta e controlli il denaro di una nazione e non mi interesserò di chi ne formula le leggi”. Come siano andate poi le cose per il XVI e XXXV presidente Usa è cosa tristemente risaputa. Lincoln sosteneva che il privilegio dell’emissione della moneta dovesse essere prerogativa esclusiva del governo e che il denaro da padrone sarebbe dovuto diventare servitore dell’umanità. L’applicazione pratica di tali principi portò all’emissione di banconote non gravate dagli interessi da corrispondere ai banchieri privati. Il 15 aprile 1865 Lincoln veniva assassinato in un palco del teatro di Washington. Stessa sorte, cento anni dopo, toccava a Kennedy, il quale, cinque mesi prima del suo assassinio, aveva firmato l’ordine esecutivo n. 11110 con il quale il governo aveva il potere di battere moneta dietro copertura argentea. Anche in questo caso lo Stato non pagava più gli interessi alla banca di emissione privata. Un duro colpo al signoraggio bancario che si infranse il 22 novembre 1963. Da allora nessun altro presidente Usa si è più arrischiato a sfidare i Signori del denaro.
Un salto all’indietro, necessario per comprendere anche taluni oscuri risvolti dell’immane II conflitto mondiale, troppo spesso sottaciuti dalla cosiddetta storiografia ufficiale, ci porta ai cosiddetti accordi di Bretton Woods del luglio 1944, sottoscritti dai rappresentanti delle Nazioni scese in campo contro le potenze dell’Asse (per inciso Italia e Germania, “stati canaglia” ante litteram se si dovesse prestar fede all’attuale way of thinking mondialista, avevano ricondotto sotto l’egida pubblica l’emissione della moneta). Per volontà statunitense fu imposto il dollaro come valuta ufficiale per i pagamenti internazionali e moneta di riserva delle Banche centrali, modificando radicalmente il piano originario che prevedeva l’istituzione di una propria unità monetaria, il bancor, che avrebbe soppiantato nel tempo l’oro come strumento finanziario internazionale. Nacquero anche la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, organismi economico-finanziari oggi più che mai tristemente alla ribalta per i loro diktat insindacabili di draconiane politiche liberiste lacrime e sangue che ogni singola Nazione è tenuta ad applicare al suo interno (emblematici sono i casi della Grecia e dell’Irlanda, mentre attualmente è finita nel mirino degli usurai internazionali anche l’Ungheria, rea di non aver provveduto a falcidiare lo stato sociale secondo i desiderata dei poteri forti).
I Signori del denaro e della finanza apolide, fedeli all’insegnamento di Nathan Rothschild: “Compra quando il sangue scorre per le strade, e vendi al suono delle trombe”, hanno poi perfezionato i loro meccanismi di assoggettamento della res publica (politica, economica, sociale) agli interessi esclusivi di un pugno di uomini votati al governo del mondo.
Così gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944 hanno segnato l’incipit di un rinnovato e attualizzato sistema di controllo da parte delle trionfanti forze della finanza mondialista sull’economia reale delle singole nazioni attraverso l’imposizione del dollaro come moneta internazionale e come riserva valutaria di tutte le banche centrali.
A tali istituti privati (attenzione, non istituzioni pubbliche come talvolta si tende furbescamente e servilmente a qualificarli), tutti al servizio delle principali banche d’affari internazionali (non fa ovviamente eccezione la nostra Banca d’Italia, banca privata a tutti gli effetti in quanto proprietà delle maggiori banche nazionali e straniere sue azioniste), fa capo il signoraggio sulla moneta, vale a dire il diritto di battere moneta per conto dello Stato, al quale sarà poi prestata dietro pagamento di un interesse. Da tale “cilindro magico” scaturisce il cosiddetto debito pubblico; in altre parole il conquibus che ogni cittadino-lavoratore-suddito deve pagare alla banca centrale del proprio paese per utilizzare la moneta coniata dai banchieri privati (assieme all’altro artificioso parametro conosciuto come PIL si riesce in tal modo ad influenzare e ingabbiare l’intera economia mondiale).
Orbene, dopo le summenzionate “intese” stipulate nella cittadina nordamericana del New Hampshire, nuova tappa cruciale per l’assoluto e incontrastato dominio della finanza apolide sulle economie nazionali sarà la fine del conio tradizionale della moneta e l’inizio del monetarismo virtuale. Il 15 agosto 1971, infatti, Richard Nixon, XXXVII presidente degli Stati Uniti d’America, non potendo più sostenere il peso della convertibilità dollaro-oro sancita a Bretton Woods abolisce tale meccanismo. Una mossa probabilmente dettata dalla richiesta della Francia (governo De Gaulle 1958-1969) agli Usa di convertire senza indugio in oro le montagne di dollari accumulate nei propri forzieri e dal ritiro dei propri depositi in dollari dalle stesse banche nordamericane. In concreto una scelta coraggiosa per riappropriarsi della propria sovranità politica, economica, culturale e militare (uscita della Francia dalla Nato, fine della guerra coloniale in Algeria e relazioni fattive con i paesi dell’est) che sarebbe costata molto cara all’indomito combattente di Lille. L’obiettivo degli “yankee” era ora impedire ad ogni costo che le altre Nazioni-colonia europee ed extra europee seguissero l’esempio francese.
Se ciò fosse accaduto avremmo assistito al crac dell’intero sistema bancario statunitense. Così, fedele al motto “muoia Sansone con tutti i Filistei” o, se preferite, al perverso adagio del “tanto peggio tanto meglio”, la manovra statunitense dell’abolizione della convertibilità oro-dollaro innescò una perniciosa depressione economica a livello mondiale, che ebbe il suo culmine nel biennio 1973-1975 e che richiamò alla mente la grande crisi degli anni trenta, che gli Usa cercarono di superare attraverso il massiccio ricorso all’industria bellica.
Grazie alla trappola di Pearl Harbour tesa ai giapponesi, il presidente Roosevelt riuscì ad ingannare lo stesso popolo americano e a fargli digerire, con “democratica” impudenza, l’entrata Usa nell’immane conflitto, che, a parole, aveva ipocritamente aborrito nel suo programma elettorale (“non una goccia di sangue di giovani americani sarebbe stata versata nel conflitto in corso in Europa e nel mondo”).
Vano fu anche il tentativo di Ezra Pound, dall’aprile al luglio del 1939, di dissuadere Roosevelt dal gettare l’America nella guerra mondiale.
La caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’impero sovietico, al di là della retorica fuorviante e dei falsi propositi di libertà e di giustizia sociale per i popoli d’Europa, hanno al contrario determinato il trionfo indiscusso della cupola plutocratica liberista, che sta ora portando a termine il suo disegno di dominio incontrastato sull’economia mondiale, grazie anche alla totale genuflessione e sottomissione della classe politica (di centro, di destra e di sinistra) agli interessi delle forze dominanti. Si è così profeticamente avverata l’arguta sentenza dello stesso Pound: “I politici sono camerieri dei banchieri”.
In nome del Dio Mercato e del profitto estremo si stanno smantellando tutte le conquiste sociali del secolo passato: dal posto di lavoro stabile e duraturo al diritto di sciopero, dalla salvaguardia del potere d’acquisto per stipendi e pensioni allo stravolgimento del sistema previdenziale e sanitario; dall’attacco sistematico e concentrico alla contrattazione nazionale (Fiat docet!) all’imposizione di contratti individuali; dalla “riforma” delle retribuzioni, sempre più relegate nella spirale perversa della produttività senza limiti alla contrazione dei diritti personali e sindacali; dalla criminale restrizione del credito (vedi Basilea 2) alle piccole e medie imprese, all’artigianato e al commercio, con conseguente aumento della disoccupazione, al sempre più massiccio ricorso al lavoro sottopagato o in nero. Le banche non sono certamente estranee a tale logica. Da alcuni anni lo stanno pesantemente sperimentando sulla propria pelle i lavoratori del credito: scorpori, cessioni di rami d’azienda, accorpamenti, fusioni, delocalizzazioni e banconi vari sono oggi il pane quotidiano che i grandi gruppi bancari, divenuti vere e proprie multinazionali, distribuiscono ai propri dipendenti e alla collettività tutta.
È forse lo stesso mercato, come ha denunciato a ragione Claudio Tedeschi dalle colonne de Il Borghese dello scorso giugno, “(…) controllato e gestito dalla finanza internazionale e dai grandi gruppi bancari che hanno portato le borse al tracollo? Lo stesso mercato che è servito alle grandi banche d’investimento (Goldmann Sachs, una per tutte) per mentire, speculare, raccogliere denaro buono e vendere titoli “taroccati” ed i cui dirigenti percepivano stipendi annuali nell’ordine di milioni di dollari, mentre i cittadini truffati perdevano il lavoro e la casa, travolti dallo scandalo dei mutui sub prime? No non intendiamo morire in nome del libero mercato”.
Sì, ribadiamo noi, si tratta della stessa logica del “Libero Mercato über alles” che, soprattutto a partire dall’ultimo quinquennio, sta inesorabilmente trascinando nel baratro anche il mondo del lavoro e della produzione italiani. E se da un lato concordiamo pienamente con la soluzione prospettata dall’articolista riguardo alla nazionalizzazione della BCE e alla creazione di una Banca centrale europea che sia emanazione dei singoli governi per abbattere finalmente il signoraggio sulla moneta, facendo così crollare non solo il costo del denaro ma anche i deficit dei singoli Stati membri, dall’altro noi prospettiamo un ulteriore affondo attraverso la socializzazione delle principali risorse strategiche e produttive delle Nazioni. Solo in questo modo si potrà ristabilire nel Lavoro (colla elle maiuscola) il valore fondante dell’uomo, sulla scia dell’esperienza, breve ma pregnante, della parentesi socializzatrice che l’Italia della RSI sperimentò negli ultimi mesi della guerra: la socializzazione della Fiat (alla faccia dell’odierno “manager” in pullover!), dell’Ansaldo, della Dalmine, della siderurgia, dei tabacchifici e di tutte le maggiori aziende italiane. Un esempio coraggioso di alta socialità che volle riconoscere nel lavoro e nei lavoratori il nucleo fondante dello Stato e della collettività.
È tempo che i popoli prendano finalmente coscienza che non si può morire né per Maastricht né per le mene dei banksters. Due secoli fa Honoré de Balzac, nel suo famoso romanzo Grandeur et décadence de César Birotteau del 1837, affermava: “Non è scandaloso che alcuni banchieri siano finiti in prigione; scandaloso è che tutti gli altri siano in libertà”.

Di Pino Biamonte, www.rinascita.eu


sabato 11 settembre 2010

11 Settembre, INGANNO GLOBALE.



Buon compleanno sonnambuli!


Nove anni fa, l'11 di settembre, aveva luogo negli Usa il più spettacolare e ingannevole putsch della storia. Due droni abbattevano le due torri, già precedentemente plasticate, mentre un missile colpiva il Pentagono.
La più cialtronesca e mal architetta delle messe in scena, con tanto di inesistenti storie personali di mai esistiti, né ovviamente morti, passeggeri di aerei di linea mai dirottati da piloti arabi suicidi (del resto scoperti poi vivi in varie parti del pianeta)  faceva il giro del mondo ed era tranquillamente bevuta dal suddito-consumatore totalmente lobotomizzato. Questa frottola incredibile pe qualsiasi bambino ma di fronte alla quale si sono chiusi imperativamente gli occhi dei milioni di adulti che amano il Grande Fratello, inaugurava  una nuova era del dominio mondiale del Crimine Organizzato a dirigenza (ma non a completa composizione) veterotestamentaria. La tesi grottesca era quella di un attacco all'Occidente teleguidato da qualche caverna da improbabili capi clan agli ordini di un capo-spectre, che la Cia, con ben poca fantasia quanta poca voglia di lavorare, pescava nei suoi archivi ed identificava in un suo agente storico, nonché socio d'affari della famiglia Bush, un Bin Laden probabilmente già allora morto da anni. Sulla base di questa panzana d'avanspettacolo s'inaugurava un'era di restrizioni totali delle libertà giuridiche, economiche e civili in tutto l'Occidente, si accelerava la tendenza alla concentrazione dei monopoli in campo finanziario, in campo dei trasporti, in campo delle telecomunicazioni (con tanto di superconcentrazioni bancarie, nell'internet, nelle compagnie aeree), veniva dato un giro di vite sulle conquiste sociali dando sfogo al liberismo selvaggio e si lasciava mano libera agli interventi militari costosi e spregiudicati, definiti “missioni di pace” concepiti per garantire ai più forti il monopolio delle risorse energetiche in declino e dell'intero sistema del narcotraffico mondiale. La follia speculatrice e liberticida del sistema multinazionale sorto sulla guerra di sterminio che dal 1939 al 1945 le democrazie (parlamentari e comuniste) condussero contro le nazioni e i popoli, raggiungeva un apice mai immaginato e del quale ben pochi dei sudditi sonnambuli si rendono tuttora conto.

Di Gabriele Adinolfi, www.noreporter.org


La lapidazione delle coscienze.


Giornalmente siamo il bersaglio di continui attacchi mediatici, tesi a minare la nostra libertà di pensiero, una strategia che il potere adopera al fine di orientare le opinioni delle grandi masse inebetite da un’ubriacatura di illusorio benessere, confortate da un sistema di informazione che, oltre ad essere diventato una discarica di notizie inutili e anestetizzanti, agisce come strumento del potere nell’additare continuamente il nemico di turno, che incarnerebbe l’essenza del male assoluto sulla terra.

Uno scenario orwelliano in cui le cosiddette democrazie occidentali raccolgono a manciate i consensi di quanti sacrificano le proprie coscienze all’altare del servilismo più deteriore.

Ultimamente assistiamo ad una vera e propria “chiamata alle armi” contro il nemico di turno, rappresentato dall’Iran del professore Ahmadinejad; così gli attivisti inconsapevoli dell’attacco mediatico, sferrato contro la libertà di pensiero, fanno la loro parte sui social networks, veri e propri veicoli d’infezione, perché frequentati assiduamente dagli “uomini ruminanti” privi di ogni senso critico, spinti solo a consumare notizie preconfezionate.

E’ il caso della, ormai celebre, cittadina iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani, destinata alla lapidazione perché accusata di adulterio, così sbraitano i mezzi busti televisivi d’occidente.

Certo, bisogna complimentarsi con il potere. Una mossa davvero encomiabile quella di utilizzare il caso di una donna, dai tratti somatici anche molto gentili, che rischia di perdere la vita in una maniera così brutale, degna del peggiore regime islamico, uno scempio medievale che grida certamente vendetta da parte dei dispensatori di democrazia a suon di bombardamenti.

Chi è però la signora Sakineh? Non è semplicemente un’adultera, avrebbe in realtà concorso con il suo amante ad uccidere il marito, riservando poi, al corpo senza vita, un trattamento degno del peggiore Hannibal Lecter.

Malek Ejdar Sharifi, un giudice che si è occupato del particolare caso giudiziario, ha dichiarato: ''Non possiamo rendere noti i dettagli dei crimini di Sakineh, per considerazioni di ordine morale ed umano. Se il modo in cui suo marito è stato assassinato fosse reso pubblico, la brutalità e la follia di questa donna verrebbero messe a nudo di fronte all’opinione pubblica. Il suo contributo all’omicidio è stato così crudele e agghiacciante che molti criminologi ritengono che sarebbe stato molto meglio se lei si fosse limitata a decapitare il marito''.

Si dà il caso che, nel tanto terribile regime iraniano, per una norma giuridica il cui garantismo farebbe stizzire d’invidia il più libertario degli stati mondiali, grazie al perdono dei figli, la donna uxoricida non potrà essere perseguita per omicidio. Questo ha spinto, quindi, i giudici a procedere nei suoi confronti per adulterio. Da fonti Iraniane, poi, non pare che l'eventuale condanna a morte venga eseguita per lapidazione, pratica barbara questa (per inciso deprecata dal Governo) che sopravvive soltanto in pochissime zone rurali della Repubblica Islamica, ma che è in via di sdradicamento. Per sgomberare il campo dalle troppe critiche facilone contro l'Iran, chi ha giudicato e condannato Sakineh non è stato il Governo Iraniano o qualche fanatico Ajatollah (o, peggio, il "deprecato regime"), ma un Tribunale locale nella regione di Tabriz, grazie all'autonomia di cui gode.

Si tenta in tutti i modi di demonizzare il governo di un Paese sovrano che rifiuta il vassallaggio economico, politico e culturale verso un sistema fallimentare quale è quello statunitense; si grida all’ingiustizia, all’abominio, al terrore del nucleare per giustificare una nuova guerra preventiva su mandato del vicino Israele, in preda ai suoi messianici deliri di onnipotenza.

Lo hanno già fatto tante volte e lo faranno ancora. L’ultima preda è stato l’Iraq, dilaniato da una guerra assurda motivata dalla presenza di armi di distruzione di massa, rivelatasi immediatamente infondata e pretestuosa ancor prima che fosse sparata la prima cartuccia.

Sembra importare poco che gli USA siano stati gli unici detentori di armi nucleari ad averle usate realmente, e sulla popolazione civile. O che Israele, additata da, in realtà pochi, uomini politici europei come criminale, nel blitz contro la nave d’aiuti diretta a Gaza, abbia mostrato i muscoli dichiarando che la maggior parte delle sue testate nucleari siano rivolte verso le capitali europee.

Il gregge risponde solo ai richiami del padrone, o al massimo dei suoi cani giornalisti. Chissà se si è accorto anche che nel tanto bello, buono e democratico sistema degli Stati Uniti, e precisamente in Virginia, sta per essere giustiziata Teresa Lewis, per crimini non troppo dissimili da quelli di Sakineh (anche lei aveva organizzato l’omicidio del marito, insieme a quello del figliastro). Curiosamente, i giornali occidentali non hanno dedicato alla sua vicenda neppure un millesimo dello spazio dedicato a Sakineh, niente petizioni pubbliche, niente accorate rimostranze contro la disumanità del sistema penale americano. I riflettori della propaganda, evidentemente, non sono programmati per accendersi sulla barbarie dei dominanti.

Ma forse, alle capre, questo non interessa…

Larmenius


giovedì 9 settembre 2010

Cosa sta accadendo in Iran?


Claudio Mutti, capo-redattore della Rivista "Eurasia", in esclusiva per Agenzia Stampa Italia


Per saperne di più sulla situazione in atto in Iran, che sta innescando una reazione a catena in una parte della Comunità Internazionale, abbiamo deciso di sentire il parere del Professor Claudio Mutti, eminente studioso e storico, caporedattore della Rivista di Studi Geopolitici “Eurasia”, noto nel consesso internazionale per la sua profonda conoscenza dell’Islam in generale, e dell’Iran in particolare.



Salve Professor Mutti. Scoppia la polemica nel mondo e in poco tempo i media vengono inondati da attestati di solidarietà a Sakineh, la donna che, si dice sia stata condannata alla lapidazione per adulterio. Eppure altre fonti rivelano che invece questa pratica sarebbe stata abolita da anni in Iran, e che l’accusa ben più grave sarebbe quella di omicidio. Dove sta la verità?

La verità, ovviamente, non può trovarsi nella propaganda di guerra; e la campagna orchestrata dalle centrali mediatiche della dizinformacija occidentale intorno al caso dell'iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani è, per l'appunto, propaganda di guerra. Propaganda di guerra contro l'Islam in generale e contro la Repubblica Islamica dell'Iran in particolare, in applicazione della teoria dello "scontro di civiltà". La controprova di ciò sta nel fatto che non ha luogo nessuna campagna di solidarietà altrettanto clamorosa allorché vengono lapidate le adultere nei paesi dell' "Islam made in USA" (Arabia Saudita ecc.) o nelle zone dell'Iraq sotto controllo statunitense; tanto meno, quando negli Stati Uniti i condannati a morte vengono fatti friggere sulla sedia elettrica. Venendo a Sakineh Mohammadi Ashtiani, il 15 maggio 2006 costei venne condannata a ricevere 99 frustate, in quanto riconosciuta rea di relazione illecita con due uomini nel periodo successivo alla morte del marito. La condanna alla pena capitale le fu inflitta successivamente, nel settembre 2006, quando venne riconosciuta colpevole di adulterio (commesso prima della morte del marito) e di omicidio (un brutale omicidio al quale essa partecipò in maniera crudele ed efferata). Per quanto riguarda le modalità dell'esecuzione della condanna, tutto il can can sulla "lapidazione" ha lo scopo di suscitare orrore nelle "anime belle" occidentali, ma si fonda su un'altra menzogna, in quanto l'Iran ha decretato la moratoria per quanto riguarda la lapidazione. La cosa più inquietante in tutta questa ignobile e ipocrita campagna, a mio parere, è che essa prescinde totalmente da un principio fondamentale della convivenza tra i popoli, il principio secondo cui uno Stato ha il sacrosanto diritto di applicare le leggi che esso stesso si è dato.



A pochi giorni di distanza dall’inaugurazione della centrale nucleare di Bashehr, che ha riavvicinato nettamente Russia e Iran nell’ambito della cooperazione energetica, la nazione persiana torna di nuovo al centro della polemica internazionale. Che tipo di motivazioni sussistono dietro questo permanente clima d’inasprimento nei rapporti diplomatici tra la Repubblica Islamica e le nazioni occidentali?

L'atteggiamento aggressivo degli USA e dei loro satelliti nei confronti della Repubblica Islamica dell'Iran non è dovuto soltanto alla volontà atlantica di garantire il predominio israeliano nel Vicino Oriente. Le relazioni che la Repubblica Islamica dell'Iran ha saputo instaurare con la Russia, con la Turchia e coi paesi dell'Organizzazione di Shanghai, hanno sconvolto i disegni statunitensi, finalizzati al controllo del Vicino e Medio Oriente. L'intesa iraniana con la Russia e con la Turchia, per esempio, è fondamentale per pacificare l'area caucasica, alla quale i piani di Brzezinski avrebbero invece voluto assegnare il ruolo destabilizzante di "Balcani d'Eurasia". Indirizzandosi verso una soluzione continentalistica, l'Iran svolge una funzione di primo piano nella costruzione del grande spazio eurasiatico: si consideri, tra l'altro, che la posizione geografica assegna all'Iran una posizione di raccordo tra l'area sino-indiana e l'Europa. Tutto ciò, è ovvio, contribuisce in maniera decisiva ad accelerare il tramonto dell'unipolarismo statunitense e a favorire la nascita di un mondo multipolare; ma questa è una prospettiva che gli USA cercheranno di ritardare con tutti i mezzi. L'Europa, che avrebbe tutto da guadagnare instaurando un rapporto di amicizia e di collaborazione con l'Iran, ha scelto invece, in maniera stolta, vile e servile, di accodarsi alle iniziative antiraniane della Casa Bianca. Di qui, l'inasprimento dei rapporti diplomatici.



Spesso all'interno della vostra Rivista "Eurasia", avete analizzato e ribadito l'essenziale funzione geopolitica dell'Iran, evidenziando nell'attuale guida politica il prioritario carattere di sovranità nazionale, quando non di autentica resistenza nei confronti dell'espansionismo atlantista. Tuttavia, la storia della Repubblica Islamica ha presentato, in passato, al suo interno, anche dei momenti di discontinuità e di frammentarietà. Cosa è cambiato con l'ascesa di Ahmadinejad a Tehran, sia nei rapporti tra autorità politico-strategica e autorità religiosa, sia nei rapporti tra l'autorità di governo e la società civile iraniana?

Secondo la dottrina del velayat-e faqih, elaborata dall'Imam Khomeyni, durante l'assenza del Dodicesimo Imam e in attesa della sua epifania il compito di guidare la comunità dei credenti spetta agli esperti del diritto sacro. Bisogna tener presente che la Rivoluzione islamica fu animata dai quadri intermedi del cosiddetto "clero" sciita, se si vogliono capire bene i motivi per cui, dopo la morte dell'Imam, la dottrina del velayat-e faqih è stata oggetto di contestazione da parte di diversi ayatollah (anche da parte di alcuni che inizialmente l'avevano sostenuta, per esempio Montazeri). Molti di loro, infatti, nutrono il timore che, diventando una categoria stipendiata dallo Stato con una parte dei profitti del petrolio, il "clero" sciita possa perdere la propria autonomia finanziaria. Il presidente Ahmadinejad, che si richiama alla linea di Khomeyni e alla dottrina del velayat-e faqih, rappresenta una posizione di netto contrasto rispetto a quella del "clero" conservatore, che vorrebbe creare una divaricazione tra legittimità religiosa e legittimità statale. Se a tali considerazioni aggiungiamo il fatto che il consenso di cui gode Ahmadinejad proviene, oltre che dall'ambito dei pasdaran e dei basiji, dagli strati più poveri della popolazione iraniana, ci possiamo rendere conto dell'assurdità dell'etichetta di "ultraconservatore", che viene spesso attribuita al presidente della Repubblica Islamica.


http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=196:redazione&catid=3:politica-estera&Itemid=35


mercoledì 8 settembre 2010

“Una firma per Gabriele”


Un Paese che scorda è una comunità senza memoria. Un popolo che dimentica è una nazione incosciente, insensibile agli eventi. Ogni giorno accadono cose che in uno Stato di Diritto non dovrebbero mai succedere: troppe volte è negato anche il più elementare ma inviolabile principio dell'uomo: la vita. E qualcuno fa finta di niente, credendo che la cronaca non debba scalfirlo, soprattutto se un efferato delitto l'ha compiuto un individuo preposto ad evitarlo. L'indifferenza lambisce l'apatia, mettendo a repentaglio il futuro della collettività, col rischio che per complicità, omissioni, stereotipi o depistaggi possano riaffiorare gli errori del passato.E che la tragedia che ieri ha strappato agli affetti un ragazzo, domani possa rigenerarsi a danno di un altro uomo. Non si può far finta di niente.Non si può dimenticare. E c'è solo un modo per farlo: ricordare, preservando la memoria con dignità, cuore e solidarietà, senza alimentare inutili strumentalizzazioni, scevri da condizionamenti, animati da senso civico e sete di verità e giustizia. Perché al posto di Gabriele poteva esserci chiunque, nessuno escluso: noi, nostra madre, nostro padre, nostro fratello, nostra sorella, un amico, un conoscente o anche un'altra persona a noi sconosciuta.
 
La petizione popolare “Una firma per Gabriele” è una condivisione partecipata e libera, finalizzata ad un unico obiettivo: i cittadini firmatari vogliono sensibilizzare gli organi preposti ed apporre una targa in memoria di Gabriele Sandri. Una targa nella stazione di servizio di Badia Al Pino Est, in provincia di Arezzo, proprio dove il povero Gabbo venne sciaguratamente ucciso l'11 Novembre 2007.
 
A 3 anni di distanza, quel luogo è ancora meta di un silenzioso e composto pellegrinaggio: uomini, donne, cittadini di ogni età, credo e appartenenza sociale, si fermano in quel punto dell'Autostrada del Sole per depositare spontaneamente un messaggio, un oggetto, un fiore, una traccia del loro transito consapevole. Puntualmente però, questi segni di memoria vengono rimossi senza un motivo plausibile: qualcuno vorrebbe gettarsi dietro le spalle una delle giornate più buie della recente storia della Repubblica italiana. Ecco perché l'idea di una targa sull'A1. Una targa con poche parole, contenute in poche righe, semplici ma significative, dove ognuno può ritrovare quegli oggetti materialmente rimossi, ma eternamente presenti proprio perché spontanei e sinceri: “Nel ricordo di Gabriele Sandri, cittadino italiano”. Un gesto simbolico, un atto d'amore. Altruismo allo stato puro.
 



LA TUA FIRMA PER GABRIELE
SERVE A NON DIMENTICARE!



 
“Per una generazione intera, dall'11 Novembre 2007 Gabriele Sandri è diventato involontariamente una bandiera da garrire al vento. Oggi Gabriele è assunto da molti giovani ad icona di libertà, allegoria di un urlo straziante che grida giustizia. Per come è morto e per come è stata fatta passare la sua morte, Gabriele è diventato lo slogan contro ogni sopruso, un manifesto contro l'ingiustizia, per la garanzia del diritto e l'affermazione della dignità umana. Ecco perché in fondo in fondo... un po' di Gabriele vive in tutti quanti noi. Si, perché dall'11 Novembre 2007 in poi... anche noi siamo tutti Gabriele Sandri”.

 
 
Comitato Mai Più 11 Novembre

www.gabrielesandri.it


La doccia fredda dei detenuti romani a Regina Coeli impianto rotto da 40 giorni.


Nel penitenziario da oltre un mese non c'è acqua calda Il garante: in mille verso il secondo inverno al gelo.

ROMA - Da più di quaranta giorni gli oltre mille detenuti del carcere romano di Regina Coeli sono senza acqua calda. Lo rende noto il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, secondo cui il disguido sarebbe da attribuire alla rottura della caldaia centralizzata che serve l'intera struttura.
I disagi sarebbero destinati a protrarsi «fino a quando non si provvederà a sostituire l'impianto centralizzato con singole caldaie in grado di servire le singole sezioni». Già lo scorso inverno i detenuti dello storico carcere di via della Lungara, spiega Marroni, rimasero a lungo senza acqua calda e senza riscaldamento a causa di disguidi e lungaggini burocratiche.

APPALTO INFINITO - Il problema principale è proprio la macchinosa gestione dell'appalto per il rifacimento dell'impianto di riscaldamento e delle tubazioni del carcere. Realizzato nel 1654, Regina Coeli è forse il carcere più antico d'Italia. Attualmente ospita oltre mille detenuti, molti dei quali in attesa di giudizio, su 8 sezioni (spesso in 4 o 6 in ogni cella) e in un Centro clinico.
Secondo le ultime stime la sua manutenzione ordinaria costa 14,5 milioni di euro all'anno. I lavori di ristrutturazione che in questi ultimi anni hanno interessato molte delle sezioni non sono riusciti a risolvere i problemi che affliggono il carcere.

VERSO LA STAGIONE FREDDA - Sarà, probabilmente, il secondo inverno senza riscaldamento e docce calde per i detenuti, prevede Marroni: «Ancora una volta i problemi tipici di un carcere ultracentenario qual è Regina Coeli ricadono sui detenuti - ribadisce il garante -. Occorre prendere atto che Regina Coeli non è più in grado di garantire non solo il dettato costituzionale del recupero sociale del reo, ma soprattutto gli standard minimi di vivibilità, soprattutto in un periodo caratterizzato dal drammatico sovraffollamento di tutte le carceri italiane».
Per questo Marroni propone di «utilizzare gli ingenti fondi spesi ogni anno per cercare di far funzionare alla meno peggio Regina Coeli per realizzare un carcere più moderno. Allo stesso tempo, si potrebbe riconsegnare alla città la storica struttura di via della Lungara per farne un polo artistico e museale di rilievo internazionale».


http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/10_settembre_8/carceri-doccia-fredda-regina-coeli-1703721560151.shtml


martedì 7 settembre 2010

L’altra faccia dell’Estero – prigioni o segrete? Detenuti o Sequestrati? Ai lettori la sentenza.


Vorremo condividere con chi ci segue una lettera pervenutaci dal carcere di Patrasso da un nostro connazionale detenuto da 9 anni in condizioni disumane.
Di Francesco Stanzione ci siamo occupati in diverse occasioni e’ rilevante l’interrogazione che potete scaricare seguendo il percorso dal sito
http://www.prigionieridelsilenzio.it – remository – pubblico – interrogazioni
Francesco che e’ stato condannato a 22 anni di detenzione, ha sempre rifiutato le accuse di traffico internazionale imputate dalla corte Greca. Nel 2009 ci siamo occupati di sollecitare gli enti interessati a dare un via alla richiesta della convenzione di Strasburgo, a distanza di due anni, il nostro connazionale non solo non e’ tornato in Italia, ma la Grecia chiede un pagamento di una multa pari a duecento mila euro per valutare la richiesta. Nella sua lunga lettera che potete trovare interamente seguendo dal nostro sito il link remository, pubblico, lettere, denuncia la sua condizione di detenzione mettendola anche in relazione a quanto negli ultimi tempi viene lamentato per le prigioni italiane.
Riportiamo alcune parti della lettera:
scrivo questa lettera per farle sapere in che condizioni disumane viviamo noi detenuti in Grecia………per questa gente (le guardie greche – NDT) tutti i napoletani sono mafiosi…..Sta mattina dopo circa un anno un amico mi ha dato un giornale italiano e ho letto che l’Italia e’ stata multata perché la condizione dei detenuti italiani e’ inaccettabile.
 Qua’ in Grecia le carceri sono peggio dei lager. Le celle sono di 20 metri quadrati e siamo (ospiti di esse NDT)10 persone in condizioni disumane, abbiamo un piccolo bagno dove facciamo tutto. E in estate quando fa molto caldo manca anche l’acqua per la toilette, vi sono altri carceri in cui ci sono più di venti persone (per cella NDT)e molti dormono per terra. Sono arrivati molte volte Europarlamentari dall’Europa hanno visto in che condizioni viviamo ma non hanno mai fatto niente, non una sola notizia, qua la stampa non dice mai nulla su di noi, in un mese sono morti due detenuti e nessuno ha detto nulla, se ti senti male sei finito, non c’e’ un dottore…..in cella non abbiamo nulla, se volessi sederti devi comprare uno sgabello, la prigione non lo passa, come neppure la carta igienica o una saponetta, i detenuti sono quasi completamente stranieri e non hanno soldi, quello che compri sei costretto a dividerlo….il cibo fa schifo ….una volta la settimana danno spaghetti in bianco, li prendono con le mani e li mettono nei piatti…..ci sono scarafaggi grossi come lucertole e topi cosi grossi da non averne visti mai prima di simili…..il carcere non offre nulla non ci sono libri ed e’ proibito averne…..le giornate passano camminando avanti e indietro….chi ci rappresenta all’estero sono i primi a condannarci….la colpa e’ anche di certi giornalisti che per fare notizia buttano l’Italia e gli Italiani che lavorano all’estero, nel fango ….si dovrebbero vergognare loro e tutti quei politici che per gelosia di un governo fanno tutto questo caos (che di certo non rende una buona immagine dell’Italia NDT).
Quanto ci riporta il signor Stanzione, purtroppo non ci e’ nuovo, queste sono alcune delle condizioni in cui versano i nostri connazionali detenuti all’estero, quando non succede di peggio come, stanzoni che ospitano 400 detenuti che usufruiscono di 14 turche a vista, di cui 7 per la maggior parte delle volte inutilizzabili e per avere un po’ di privacy devono porre davanti a loro, mentre fanno i loro bisogni, un bidone della spazzatura come succede nelle avanzate prigioni statali della California dove e’ ospite il nostro connazionale
Carlo Parlanti o situazioni come quelle in cui vive Giuseppe Ammirabile, che potete vedere nelle foto gia’ pubblicate sul nostro sito in relazione ad alcuni articoli . Pero’ semmai i media nazionali piu’ importanti, parlano di detenzione se ne occupano quando qualcuno muore in prigione o quando i Radicali o qualcun altro solleva il problema delle prigioni Italiane, ma quando si occuperanno delle condizioni in cui versano i nostri connazionali imprigionati all’Estero? Entrano nel merito di cause o denunce a politici o ministri ridicolizzano spesso il nostro paese ma non vogliono entrare nel merito di assurdita’ contestate a nostri connazionali che vengono privati ingiustamente all’estero della liberta’ e avvolte della vita. Forse ognuno di noi dovrebbe cominciare a pensarci, ma se ci trovassimo noi al loro posto?
 
Lo Staff di Prigionieri del Silenzio
Associazione in difesa dei detenuti italiani all’estero

http://www.prigionieridelsilenzio.it


lunedì 6 settembre 2010

Finisce l’estate nordirlandese: segnali di una nuova stagione repubblicana.


È stato un agosto di colpi di scena e riflessioni in Nordirlanda. Dalle dichiarazioni del vicepremier Martin McGuinnes nelle quali si denunciavano colloqui segreti fra Londra e i “dissidenti” repubblicani, poi smentita categoricamente dai diretti interessati, alla solo apparente soluzione del “caso Maghaberry”.
Fino alle dichiarazioni di fine mese con cui il 32 Csm mette in guardia dal pericolo della “normalizzazione”. Quella di McGuinnes aveva tutta l’aria di una dichiarazione contro il governo centrale, reo, forse, di portare avanti discussioni segrete con i repubblicani ormai acerrimi nemici del suo Sinn Fein. Negli stessi giorni si risolveva, almeno a parole, la questione della dirty protest avviata la scorsa Pasqua dai prigionieri del carcere di Maghaberry per denunciare i maltrattamenti subiti dai carcerieri britannici. Tra le altre cose sarebbe stata concessa la libertà di associazione, raggiunta un’intesa sulla sospensione dello strip searching (la perquisizione corporale) e concesso l’utilizzo del campo da calcio.
L’accordo, siglato il 12 agosto scorso è però già traballante: il 19 agosto, infatti, il gruppo di sostegno per Colin Duffy ha denunciato l’atteggiamento non collaborativo delle guardie carcerarie, che continuano ad aprire le celle in ritardo, a rifiutare l’accesso dei prigionieri alle aule, a permettere l’accesso ai corridoi ad un numero di prigionieri inferiore a quanto concordato e rifiutano il confronto con i rappresentati dei carcerati. Resta il fatto che i nazionalisti repubblicani hanno posto fine alle proteste pubbliche nel centro città di Derry in seguito alla apparente risoluzione della questione. I picchetti nella mezzeria delle strade, organizzati dal 32 Csm e dall’Irpwa (Irish Republican Prisoners Welfare Association ), si sono tenuti, per tutto luglio, ogni sabato pomeriggio sulla Shipquay street in solidarietà con i prigionieri repubblicani che continuavano la dirty protest. Inizialmente le manifestazioni si tenevano mensilmente al Free Derry Corner ma si erano spostate nel centro città e settimanalmente di pari passo con l’aumentare delle tensioni nel carcere. Ora sono tornate alla loro sede originaria ma continuano, nonostante l’accordo, a sostenere i prigionieri politici nordirlandesi detenuti nel carcere britannico.
Un articolo del Derry Journal del 31 agosto scorso analizza invece recenti dichiarazioni attribuite al 32 County Sovereignty Movement nelle quali viene evidenziato il pericolo, per il repubblicanesimo, di diventare “irrilevante” per tutta una generazione se non si affronterà la sfida contro i partiti dominanti che seguono una politica di “normalizzazione”. L’avvertimento si trova in un articolo pubblicato in una newsletter associata al 32 Csm, nel quale si invitano i repubblicani a protestare alle riunioni del District Policing Partnership e durante gli altri avvenimenti in collaborazione con la Psni, la Polizia nordirlandese. Un invito alla manifestazione popolare e pacifica del dissenso, all’espressione di contenuti politici che sembravano essere mancati in passato. E che per i britannici rappresentano il vero pericolo.
Se ne è forse accorto il Guardian, che nei giorni scorsi, dopo aver definito i repubblicani “dissidenti” micro-gruppi o bande criminali senza una base politica, li ha definiti comunque seriamente pericolosi “per il fatto di essere un potenziale contenitore per la collera generalizzata dei molti che si sentono lasciati indietro dal processo di pace”.

Di Alessia Lai, www.rinascita.eu


sabato 4 settembre 2010

Noi... Figli del sogno...


Nuovo numero de Il Martello, giornale autoprodotto dagli amici dell'Associazione Culturale Zenit di Roma. Potete scaricare l'intero numero di Settembre su www.assculturalezenit.spaces.live.com



Passati oramai quattro anni dall’inizio delle nostre pubblicazioni sentiamo di utilizzare questa pagina riservata all’introduzione del giornalino non per presentare la nuova stagione editoriale nei suoi aspetti tecnici (d’altronde le linee guida e la grafica non differiscono dal passato), bensì per dedicarci ad una più ampia riflessione circa la perseveranza che guida la nostra attività. Quattro anni contraddistinti dalla puntuale uscita mensile del giornalino non sono certo trascorsi sempre sul velluto, poiché momenti di sbandamento, dovuti ad ostacoli di vario tipo, hanno più volte rischiato di intralciare inesorabilmente il proseguimento del lavoro. Le contingenze talvolta sfavorevoli non hanno fatto altro che accrescere in noi dubbi sull’opportunità di portare avanti questo impegno. “Vale la pena andare ancora avanti?”, è questa la domanda che ci ha più volte assillati nel corso dei quattro anni, magari a fronte di un fisiologico momento di stanca dovuto alla presa di coscienza che i risultati conseguiti non equivarranno mai alla logica del tornaconto immediato e materiale, unico propulsore di una società fondata sull’opportunismo. La risposta fin’ora è sempre emersa convinta e sicura, seppur dopo momenti di riflessione: chi alle logiche moderne contrappone uno stile tradizionale deve metabolizzare queste fasi di comprensibile scoramento come inevitabili e non compromettenti. A trionfare è la convinzione che l’impegno costante ed organico per mezzo dell’azione sia il collante di ogni organizzazione votata ad una coesione duratura. Sicuri che il lavoro comune, implicante sacrifici personali finalizzati a risultati collettivi, sia dunque il cemento di una comunità solida e solidale come una testuggine romana, rieccoci schierati su di questa ideale barricata di pensiero per la quarta volta consecutiva. Rieccoci, pronti a far convergere le nostre particolari abilità al fine di produrre un periodico che continui ad essere stimolo di dibattito interno, di curiosità attiva, di critica verso i media di massa, costituendo infine la voce ufficiale del nostro gruppo, tale da renderci protesi verso il confronto esterno e la partecipazione ai temi sociali.



Ebbene, non abbiamo la presunzione di essere convincenti con chiunque; la nostra riflessione è soggetta alla perplessità degli scettici che, eternamente imprigionati alle catene del tangibile e alla brama del profitto egoistico, rinunciano al sacrificio più bello perché più consapevole: quello senza ricompensa materiale. Rinunciano al senso di comunità che, sulla via delle comuni gioie e dei comuni pericoli, esprime quella voluttuosa espressione di lealtà e fratellanza che chiamiamo cameratismo e che suggelliamo salutandoci stringendoci l’avambraccio. Rinunciano, in sintesi, alla magia del sogno della goccia che penetra nella roccia, poiché non sanno - poveri disillusi! - che ciò che realmente vale è invisibile agli occhi…

Carlo Terracciano, nel suo esempio, nel suo insegnamento.



Distretto di Dooplaya, Karen State: la clinica "Carlo Terracciano" è una delle strutture sanitarie al servizio della popolazione Karen nelle aree controllate dall'Esercito di Liberazione. Lavora con personale paramedico locale e con medici ed infermieri europei, volontari "puri", non retribuiti per la loro opera. Soggette ad attacchi e a distruzione da parte dell'esercito birmano queste cliniche continuano a risorgere, nel nome di Carlo, come segnale di indomito spirito rivoluzionario e come tributo all'indimenticato maestro.

www.comunitapopoli.org


venerdì 3 settembre 2010

A CINQUE ANNI DALLA SCOMPARSA DI CARLO TERRACCIANO


In ricordo di Carlo Terracciano.



MOSCA: ITALIANI AL CONGRESSO DEI POPOLI OLTRAGGIATI



di Claudio Mutti




Il 2 marzo 1993 si svolse a Mosca, nel salone del Palazzo della Stampa di Ulica Pravda, il “Congresso dei Popoli Oltraggiati, contro il Nuovo Ordine Mondiale”. Organizzatori del convegno erano il quindicinale “Den” (diretto dal celebre narratore Aleksandr Prochanov), il quotidiano “Sovetskaja Rossija” (che in un’intervista rilasciataci in quei giorni il direttore Cikin definì “organo della resistenza contro il nemico della patria”) e il Fronte di Salvezza Nazionale (presieduto all’epoca da Zjuganov, Volodin e Prochanov). Al convegno partecipavano numerosi delegati provenienti dai territori della Russia e dei paesi che avevano fatto parte dell’URSS, in rappresentanza di comunità nazionali, movimenti politici, associazioni, organi di stampa ecc.; a presiedere era Aleksandr Dugin, che all’epoca pubblicava la rivista “Elementy”.
La serie degli interventi fu aperta da Prochanov, il quale identificò il “Nuovo Ordine Mondiale” preconizzato da Bush senior con la versione moderna della Torre di Babele e indicò nella lotta per la restaurazione dell’impero sovietico la fase decisiva nella guerra contro il Nuovo Ordine Mondiale.
Prese poi la parola Carlo Terracciano, che assieme a Marco Battarra e all’autore di queste righe rappresentava l’Italia al congresso di Mosca. “La nostra delegazione – esordì Terracciano – viene da un paese che da decenni è sottoposto all’occupazione americana. Abbiamo un governo e un parlamento asserviti totalmente agli interessi stranieri: all’alta finanza internazionale, all’imperialismo americano, al sionismo cosmopolita, in una parola al mondialismo”. E proseguì: “Sionismo e imperialismo vogliono distruggere l’anima stessa dei popoli. E voi Russi oggi state provando sulla vostra carne viva la lama sanguinaria di questi criminali: miseria, fame, disonore, corruzione, droga, alcol e criminalità, odi e divisioni nel popolo, tradimento della Patria e abbandono dei popoli ieri amici”. Dopo aver richiamato la necessità di unire tutte le forze antimondialiste in una “grande internazionale dei popoli diseredati della terra, come li definì l’Imam Khomeini”, l’oratore italiano rivolse questo appello ai rappresentanti della nazione russa: “Noi, eredi senza più patria di un Impero che fece la storia civile del mondo antico, chiediamo al popolo che ha raccolto l’eredità storica e spirituale di Roma e di Bisanzio: aiutateci a riscattare insieme il nostr ed il vostro passato! Perché nella tradizione e nella memoria storica ed ancestrale dei popoli è la chiave che apre le porte dell’avvenire”.
Il discorso di Terracciano fu seguito da quello di Eduard Volodin, capo redattore del quotidiano “Sovetskaja Rossija” e copresidente del Fronte di Salvezza Nazionale, il quale, individuando alle radici del conflitto interetnico jugoslavo la medesima ispirazione che aveva originato la distruzione dell’URSS, sottolineò la necessità di un impegno dei Russi a combattere in difesa dei popoli minacciati di asservimento dall’imperialismo statunitense.
Fu poi la volta del diplomatico iracheno Abd el Wahhab Hashshan, che citò l’esempio del proprio paese per illustrare la sorte incombente su quanti non accettano le direttive del Nuovo Ordine Mondiale e paventò per la Russia uno sviluppo della manovra già iniziata con la distruzione dell’URSS.
L’argomento fu ripreso dal professor Kobazov, capo della delegazione osseta, secondo il quale era necessario ricostituire in un modo o nell’altro una comunità di paesi analoga all’URSS, allo scopo di salvaguardare le identità dei popoli dell’area ex-sovietica contro le minacce del mondialismo.
Prese poi la parola l’autore di questo resoconto, il quale, al termine di un’analisi geopolitica, formulò l’auspicio di un impegno della Russia nella lotta di liberazione del Continente. “Se vuole liberarsi dalle catene del Nuovo Ordine Mondiale, la Russia deve aiutare il resto dell’Europa in questa liberazione, contribuendo con le sue possibilità, che rimangono tuttavia enormi, a questa impresa storica”. Nei giorni successivi, il discorso fu riportato integralmente sul “Kayhan” di Teheran.
Toccò poi a un redattore di Radio Tallinn, che illustrò la situazione dell’Estonia in seguito alla secessione dall’URSS: imposizione della russofobia come ideologia ufficiale del neonato staterello baltico e diffusione degli pseudovalori dell’Occidente.
Gejdar Dzemal, azero, dirigente del Partito della Rinascita Islamica, autore di testi che spaziano dalla metafisica all’attualità politica (si veda, in italiano, il suo Tawhid. Prospettive dell’Islam nell’ex URSS, Parma 1992) sostenne che un’alternativa globale al Nuovo Ordine Mondiale è rappresentata dall’Islam, in quanto contrappone un’escatologia autentica alla parodistica concezione mondialista della “fine della storia”. Non solo, ma alla concezione della legge come opportunistico “contratto sociale”, concezione propria del fariseismo mondialista, l’Islam oppone la Legge sacra, nata dalla Rivelazione divina.
In assenza della delegazione serba, Aleksandr Dugin commentò lui stesso la situazione in Jugoslavia, esponendo le ragioni delle diverse parti in lotta ed auspicando un’intesa tra esse. La stessa impostazione emerse dal messaggio di cui diede lettura un rappresentante dell’Associazione d’Amicizia Russo-Serba. I firmatari del messaggio, il capo del Partito Radicale Seselj e l’intellettuale tradizionalista belgradese Dragosh Kalajic avevano scritto: “Per lottare contro il programma mondialista, che si trova riassunto sulla stessa banconota stampata dagli USA, bisogna porre fine alle guerre interetniche. Il conflitto in Bosnia non può essere risolto con la vittoria di una parte sulle altre, ma con l’intesa tra le parti”.
L’ospite d’onore del Congresso, la signora Sazhi Umalatova, presidentessa del parlamento sovietico, ribadì che lo scioglimento del parlamento era un fatto illegale e che la restaurazione dell’URSS doveva essere il primo passo verso l’eliminazione dell’influenza americana e sionista nel continente. Americani e sionisti, concluse la signora Umalatova, sono il nemico numero uno dei popoli liberi.
I sionisti, precisò subito dopo Sha’ban H. Sha’ban, redattore capo di un giornale russo-palestinese, “Al Kods”, devono essere combattuti dappertutto, perché non si trovano solo in Palestina, ma in tutto il mondo. Il pericolo sionista non minaccia solo i Palestinesi, disse Sha’ban, ma tutti i popoli. La parola d’ordine, dunque, deve essere: “Intifada dappertutto!”
A questo punto parlò un altro delegato italiano, il redattore di “Orion” Marco Battarra, il quale fece ricorso a uno studio di “Le Monde” per illustrare i rapporti tra finanza, libero mercato e Stati.
Il rappresentante degli Abcazi, Jurij Ancabadze, denunciò il ruolo che Shevardnadze voleva fare svolgere alla Georgia nell’area caucasica. La Georgia, affermò il delegato abcazo, è un corridoio di influenza mondialista, perché la classe dirigente georgiana vuole essere l’avamposto dell’Occidente nella zona.
Dopo aver confermato che effettivamente molti georgiani sono stati agenti del mondialismo nella politica russa e dopo aver sollecitato il sostegno dei Russi ai musulmani dell’Abcazia, Aleksandr Dugin diede la parola a una signora di Chisinau, la quale illustrò la situazione della comunità russa della Repubblica Moldava (Bessarabia) in seguito alla secessione.
Intervenne quindi l’ambasciatore dell’OLP, Musa Mubarak. Sionismo e americanismo, disse, sono i due lati del medesimo angolo. Ingerenza nelle faccende politiche altrui e pressione economica sono i due principi basilari dell’azione statunitense. Contro il Nuovo Ordine Mondiale, che si caratterizza in questa maniera, bisogna creare un vero Ordine Nuovo.
Apti Saralejev, delegato ceceno, denunciò la penetrazione sionista nella vita dei popoli caucasici e sostenne il progetto relativo a un’intensificazione degli studi sull’azione sionista.

Infine, Aleksandr Dugin diede lettura della risoluzione finale, cui vennero apportate alcune aggiunte e modifiche suggerite dall’assemblea. Fu creato un comitato permanente, nel quale vennero inseriti i delegati italiani.
Il Congresso ebbe ampia risonanza sulla stampa russa; i giornali “patriottici”, in particolare, riferirono per esteso gli interventi dei congressisti. Il giornalista di Radio Svoboda (l’emittente finanziata dagli USA e nota fuori dalla Russia come Radio Free Europe), nella corrispondenza inviata la sera stessa del 2 marzo, attribuì ai delegati italiani frasi che questi non avevano mai pronunciate.


LA SFIDA TOTALE.


Autore: Daniele Scalea



Casa Editrice: Edizioni Fuoco



Anno: 2010



Pagine: 186



Prezzo di copertina: € 15



È sempre sorprendente avere tra le mani un testo di geopolitica prodotto dalla penna di un autore italiano. Il nostro Paese, preda da sempre di una politica vissuta come tifo da stadio e di un tifo da stadio vissuto come politica, può offrire davvero poco in termini di produzione e riflessione politologica, e ancor di meno in relazione alla semi-sconosciuta scienza della geopolitica, tanto osannata e celebrata in diversi recenti revival da salotto, quanto fondamentalmente ignorata e denigrata per decenni, soprattutto in Occidente.



E, del resto, è ormai chiaro che la geopolitica è una disciplina fondamentalmente sui generis, assolutamente irriducibile a qualunque incartamento epistemologico preconfezionato, sia pure, esso, quello della scienza politica. Al di là di qualche importante nome, spesso persino sconosciuto ai più, come quelli di Carlo Jean, Massimo Roccati, o di Lucio Caracciolo e dello staff della “sua” Limes, l’Italia paga lo scotto di un sostanziale disinteresse pubblico verso questi importanti temi.



Stupisce, dunque, che sia un giovanissimo autore come Daniele Scalea, dal 2004 redattore della Rivista di Studi Geopolitici Eurasia, ad apporre la sua firma su una delle più interessanti pubblicazioni degli ultimi anni, impreziosita dalla prefazione curata personalmente dal noto Generale dell’Esercito Italiano, Fabio Mini. La Sfida Totale non è il semplice titolo di un’opera accademica, ma una lucida ricostruzione storica in grado di sintetizzare in appena centosessanta pagine il secolo forse più intenso dell’intera epoca moderna, sull’onda di un “ritmo” saggistico al contempo compilativo e avvincente, al punto che, chi scrive, se l’è praticamente divorato nell’arco di una giornata.



Quello che va dai primi anni del Novecento sino ai più recenti anni di inizio Duemila è probabilmente l’arco di tempo all’interno del quale le dinamiche dei rapporti internazionali, delle relazioni commerciali, delle crisi, delle guerre e dello sviluppo sociale e tecnologico hanno subito l’accelerazione più significativa, proiettando l’umanità all’interno di scenari epocali, in grado di cambiare completamente forma e contenuti, nel giro di margini cronologici relativamente ristretti.



Daniele Scalea tenta, con notevole successo, di guidarci all’interno di questa selva fitta e spesso oscura, partendo dall’inizio della storia, dalle basi metodologiche della geopolitica, sino ad illustrarci i passaggi fondamentali della politica internazionale, in un continuo fisiologico intreccio di prassi e teoria, di azione e riflessione, ormai non più legate da un meccanico rapporto metafisico di causa-effetto o di pensiero-estensione, ma completamente fuse l’una all’interno dell’altra, proprio come la geopolitica impone.



Dalla Guerra Fredda alle trasformazioni epocali seguite alla dissoluzione dell’Urss, dalla rinata coscienza della Russia al Medio Oriente, passando per l’avanzata di Cina e India, questo saggio ci descrive minuziosamente ed in modo impeccabile, ciò che solo il pragmatico, lineare e fluido linguaggio della geopolitica potrebbe descrivere, ridiscutendo questioni del passato troppo sbrigativamente consegnate agli annali, e mettendoci in guardia rispetto agli scenari prossimi venturi. Merito dell’autore, oltre alla capacità di restare nel campo dell’analisi scientifica e oggettiva delle situazioni vagliate, è quello di non perdersi in sofismi, di non appesantire mai l’esposizione con uno stile prosaico o autoreferenziale, cercando di semplificare anche ciò che, in altri contesti, richiederebbe approfondimenti ulteriori.



Di Andrea Fais,
http://rivistastrategos.wordpress.com/2010/09/02/recensione-la-sfida-totale/


mercoledì 1 settembre 2010

IO STO CON GLI ULTRAS.



Siamo stufi, arcistufi, di questo Stato di polizia. Che non è quello delle intercettazioni telefoniche, come pretende Berlusconi che ha la coscienza sporchissima, che sono perfettamente legittime quando autorizzate dalla Magistratura, ma quello dove le libertà più elementari sono osteggiate, conculcate, vietate, proibite, scomunicate, tranne quella economica anche quando passa sul massacro della popolazione (è “la libera intrapresa” a creare la disoccupazione, oh yes, ma questo ve lo spiegherò in un’altra occasione) e, ovviamente, quelle del Cavaliere che può corrompere testimoni in giudizio, pagare mazzette ai finanzieri, consumare colossali evasioni fiscali, avere decine di società “off shore”, precostituirsi “fondi neri” impunemente perché, attraverso i suoi scherani, si fa cucire leggi su misura che lo tengono fuori dai processi. Non bastassero già le leggi nazionali, dove sono sempre più feroci i limiti imposti al consumo di alcol, al fumo, non solo a tutela dei soggetti passivi ma anche di quelli attivi, alla prostituzione (da strada naturalmente, quella delle escort e soprattutto dei loro importanti clienti è immune), ora, dopo un altro demenziale decreto del ministro Maroni, ci si sono messi anche i sindaci, in particolare leghisti, ma non solo, a imporre i divieti più grotteschi e assurdi. A Verona è proibito sbocconcellare un panino in strada, consumare alcol fuori dai bar, bagnarsi nelle fontane, girare a torso nudo (il Mullah Omar era più permissivo). A Vicenza ci sono multe salatissime (500 euro) “per camper e roulotte che trasformano la sosta in un bivacco”. A Novara sono vietate le passeggiate notturne nei parchi se si è più di due (durante il fascismo ci volevano almeno cinque persone per considerarle “radunata sediziosa”). A Eraclea (Sicilia) è proibito ai bambini costruire castelli di sabbia in riva al mare. A Firenze, a Venezia, a Trento e in altre città è vietato chiedere l’elemosina, cosa che non si era mai vista prima (nemmeno nei “secoli bui” del Medioevo, anzi, tantomeno nel Medioevo in cui si riteneva che il mendico, come il matto, avesse, per dei suoi misteriosi canali, un rapporto privilegiato con Dio) in nessuna società del mondo, eccezion fatta per l’Unione Sovietica. Adesso, sempre per iniziativa del solerte Maroni, è arrivata anche la “tessera del tifoso”. È intollerabile che uno per andare a vedere una partita di calcio debba chiedere la patente alla società. Una schedatura mascherata, socialmente razzista perché imposta solo ai tifosi che vanno nel “settore ospiti”, cioè dietro le porte e nelle curve, mentre chi può pagarsi i “distinti” non subisce questa gogna. In realtà questa misura illiberale va nel segno di una tendenza in atto da molti anni: eliminare via via il calcio da stadio a favore di quello televisivo e degli affari di Sky, Mediaset e compagnia cantante (con corollario di moviola, labiali, giocatori scoperti in flagranti e sacrosante bestemmie – robb de matt – e, da quest’anno, anche la profanazione del tempio sacro dello spogliatoio). Ma chi conosce anche solo un poco il “frubal”, come lo chiamava Gioann Brera ai tempi belli in cui tutte queste stronzate non esistevano, sa che fra il calcio visto allo stadio e quello visto in casa, in pantofole, fra una telefonata e l’altra e magari sbaciucchiandosi con la fidanzata (orrore degli orrori, il calcio è un rito che vuole una concentrazione esclusiva, non sono mai andato allo stadio con una ragazza e fra Naomi e Ruud Van Nistelrooy – doppietta allo Shalke 04 per inciso – non ho dubbi) non corre alcuna parentela. Per vivere davvero la partita, per capirla, bisogna essere allo stadio, vedere tutto il campo (ci sono centrocampisti che, se guardi la partita in Tv, sembrano aver giocato male perché han toccato pochi palloni e invece hanno giocato benissimo, di posizione) e non solo quello che garba al cameraman. Dal 1983 – introduzione del terzo straniero – il calcio da stadio ha perso il 40% degli spettatori. Quest’anno gli abbonamenti sono ulteriormente crollati del 20%. Molti tifosi hanno solidarizzato con gli ultras in rivolta e non l’hanno rinnovato. E poi ci sono le ragioni, così efficacemente spiegate da Roberto Stracca in un servizio sul Corriere (26/8) e che hanno tutte la stessa origine: scoraggiare la gente dall’andare allo stadio. “Anche chi non è ultrà – scrive Stracca – e non ha mai pensato di esserlo, dopo biglietti nominali, necessità di un documento per un bambino di 8 anni, odissee fantozziane nella burocrazia più ottusa per una partita di pallone, non ne ha potuto più e ha finito per dire addio allo stadio e aderire alla sempre più ricca offerta televisiva”. Maroni, contestato violentemente da 500 ultras bergamaschi alla Festa della Lega ad Alzano Lombardo, ha detto: “Dicono di essere dei tifosi, ma non lo sono. Sono dei violenti”. E invece gli ultras sono gli ultimi, veri, amanti del calcio. Qualche anno fa, in una domenica canicolare e patibolare di giugno, i demonizzatissimi ultras in rappresentanza di 78 società, di A, di B, di C e delle serie minori, diedero vita a Porta Romana, a Milano, davanti alla sede della Figc, a una civilissima manifestazione al grido di “Ridateci il calcio di una volta!” (cioè: numeri dall’uno all’undici, arbitro in giacchetta nera, pochi stranieri, riscoperta dei vivai e, soprattutto, basta con l’enfiagione economica che ha distrutto tutti i valori mitici, rituali, simbolici, identitari, che ne hanno fatto la fortuna per un secolo, a favore del business e che finirà, prima o poi, per farlo scoppiare come la rana di Esopo). La notizia – mi pareva una notizia – passò sotto silenzio. Persino la Gazzetta dello Sport dedicò all’avvenimento un box di poche righe. Non bisognava disturbare il manovratore. Cioè gli affari. Due parole sulla “violenza” Ad Alzano Maroni ha detto anche: “Io con i violenti non parlo”. E allora il primo cui non dovrebbe rivolgere la parola è Umberto Bossi, il suo Capo. L’ineffabile Maroni si è dimenticato che il leader del Carroccio, agli albori della Lega, dichiarò: “Ho trecentomila leghisti pronti a estrarre la pistola dalla fondina” (in realtà quelli, dalla fondina, possono estrarre al massimo il loro cellulare), e in seguito: “andremo a prendere i fascisti uno a uno, casa per casa”, e ancora, a proposito dei magistrati, “bastano delle pallottole e una pallottola costa solo 300 lire”, e di recente ha anfanato di fucili e altre armi se non gli concedevano non mi ricordo che cosa, parole che dette da un esponente del Governo, sono ben più gravi delle quattro macchine date alle fiamme durante la contestazione di Bergamo. Io sto con gli ultras. Anche quelli violenti di Bergamo. Perché mi paiono gli unici ad aver voglia ed energia di rivolta in un Paese in cui i cittadini si fan passare sopra ogni sorta di abusi, di soprusi e di autentiche violenze sempre chinando la testa. Sudditi. Nient’altro che sudditi.

Di Massimo Fini, "Il Fatto quotidiano", sabato 28 agosto.


Vittime della follia finanziata dai magnati.


Sesto anniversario della strage di Beslan.

L'orrore e il pianto del mondo intero hanno lasciato il posto al ricordo e alla commozione in Russia, dopo sei anni da quel terribile inizio Settembre di sei anni fa, quando un commando di terroristi islamici ceceni fece irruzione in una scuola per bambini di Beslan, nell'Ossezia del Nord. Tre giorni di assedio, sotto il terrore di una crudeltà assurda, spaventosa e inumana. Due giorni dopo, quando le forze speciali della Federazione Russia faranno irruzione liberando l'edificio, sarà troppo tardi. I morti infatti sono 386, tra cui 186 bambini, e oltre 700 i feriti: sottposti al terrore, alle angherie e alla crudeltà della più atroce bestialità. La questione cecena riapparve in tutta la sua brutalità, lasciando aperte ferite ancora aperte, ma soprattutto lasciando liberi di circolare i principali responsabili di questa organizzazione terroristica, non di rado in passato sostenuti da organizzazioni occidentali, vicine ai Partiti Radicali, alla Nato e alla stessa intelligence americana.


Di Andrea Fais,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=114:russia-a-sei-anni-dallorrore&catid=3:politica-estera&Itemid=35