venerdì 25 febbraio 2011

Birmania: i diversi gruppi etnici si uniscono contro il regime di Rangoon.


(ASI) Più di dieci gruppi etnici del Myanmar hanno dato vita al Consiglio Federale delle Nazionalità Unite durante un incontro tenutosi recentemente. Questo Consiglio punta alla creazione di una federazione di Stati in Birmania attraverso la lotta armata contro il regime militare. A darne notizia sul proprio sito è la Comunità Solidarista Popoli (www.comunitapopoli.org) che sin dal 2001 porta aiuto concreto alla popolazione Karen attraverso la fornitura di medicinali e viveri. Nel comunicato si legge: “Le organizzazioni aderenti, tra le quali vi sono la Karen National Union, lo United Wa State Army, la Kachin Independence Organization, il Democtatic Karen Buddhist Army, lo Shan State Progress Party e il New Mon State Party, hanno concordato una strategia comune che prevede l’aiuto armato reciproco in caso di attacco da parte delle truppe birmane a ciascuno dei membri. La guerra di liberazione quindi continua, ma il Consiglio Federale è disposto ad aprire immediati negoziati con il governo di Rangoon per un cessate il fuoco”. Il Segretario Generale dell’Unione Nazionale Karen, la Signora Zipporah Sein ha dichiarato a “Popoli”: “siamo aperti al dialogo, ma tratteremo con Rangoon tutti insieme. Non potranno esserci negoziati separati”. Intanto continuano i combattimenti, sembrerebbe che i soldati della giunta militare birmana abbiano attaccato e dato fuoco a due villaggi nel sud dello Stato Karen, nella divisione del Tenasserim. Altri combattimenti si registrano in diverse parti del territorio Karen e anche nello Stato Shan dove i generali di Rangoon hanno inviato nuove truppe e mezzi corrazzati per cercare di sconfiggere la resistenza. Il gruppo etnico dei Karen, che conta circa sei milioni di persone, è in lotta dal lontano 1949 quando, dopo il periodo coloniale britannico, secondo gli accordi fatti alla fine del secondo conflitto mondiale, le diverse etnie che formano il mosaico birmano, avrebbero dovuto ottenere l’autonomia. Questi accordi non furono mai rispettati perché il generale Aung San, primo capo del governo post coloniale, venne ucciso ad opera di generali golpisti. La lotta per la libertà che il popolo Karen porta avanti con determinazione è tra i conflitti più lunghi e meno conosciuti del mondo.



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2338:birmania-i-diversi-gruppi-etnici-si-uniscono-contro-il-regime-di-rangoon&catid=3:politica-estera&Itemid=35


L’acqua, un bene di tutti che deve restare pubblico.




 



La conferenza internazionale sull’acqua, a Roma, è stata l’occasione per fare il punto sulla penuria del bene primario per eccellenza e sulle prospettive della sua gestione. Attualmente un miliardo di persone non ha accesso ad acque potabili sicure. Inoltre, a causa dei cambiamenti climatici, entro il 2050 se ne potrebbero aggiungere altri 2 miliardi e 800 milioni che saranno gravati da una cronica scarsità. Già nel 2025 circa la metà della popolazione mondiale dovrà affrontare tale problema. Diventa inevitabile prevedere che entro 10-15 anni il controllo delle risorse idriche si trasformerà in una questione di mera sopravvivenza per le popolazioni e che questa deriva possa provocare sanguinosi conflitti.

In questa fase, la progressiva penuria di acqua è poi aggravata nei singoli Paesi dall’incapacità dei governi di gestire adeguatamente le risorse idriche e di ridurre gli sprechi che inevitabilmente si verificano. Per quanto riguarda l’Italia e l’intera area del Mediterraneo, taluni esperti prevedono che entro il 2050, le precipitazioni nell’intero bacino potrebbero diminuire del 20%.

Se questi sono i dati reali, previsti o paventati, sui quali gli esperti si dividono, altro è il discorso sulle soluzioni prospettate e su quelle già adottate, che risentono di una visione ultraliberista, che per un bene di interesse pubblico come l’acqua non dovrebbero essere prese nemmeno in considerazione. La giustificazione addotta, e che si cerca di rivendere agli sprovveduti o ai cialtroni pronti a sostenerla, è che il privato sia in grado di gestire meglio la conservazione dei bacini idrici, il trasporto e la distribuzione ai cittadini. Una tesi che, nel caso di una città come Roma, ha portato alla parziale privatizzazione dell’Acea, all’ingresso come soci dei francesi di Suez, ora al 10%, e del costruttore Caltagirone (al 13%) che è pronto ad allungare le mani sull’intera torta.

Ma basta andare all’estero per rendersi conto che la soluzione presa al problema idrico è esattamente l’opposta e si è concretizzata in un ritorno della mano pubblica voluta dagli stessi cittadini. A Berlino, il il 98,2% degli abitanti, attraverso un referendum, ha stabilito che la Berliner Wasserbetriebe venga gestita soltanto dal Comune, senza privati tra i piedi (che attualmente ne controllano il 49,9%) che pensano solo a realizzare profitti attraverso le tariffe di vendita e se ne fregano altamente di ammodernare la rete di distribuzione. Anni fa, peraltro, la città di Parigi si era espressa in maniera analoga.

Come italiani dovremmo votare, tra aprile e giugno, in un referendum abrogativo del decreto Ronchi che stabiliva al 40% il tetto massimo di presenza pubblica nelle società che gestiscono il servizio idrico. Tale referendum, tanto per cambiare, con l’obiettivo di fare mancare il quorum ed annullarlo, e poter alzare quindi inni alla maturità “liberista” degli italiani, è verosimile che non venga accorpato alle amministrative.

Se queste sono le derive italiane, ci si deve aspettare qualcosa di ancora peggiore a livello internazionale. Se ci sono o ci saranno problemi tra Paesi per il controllo dell’acqua, hanno suggerito alcuni dei partecipanti al convegno, per risolverli e per ridurre gli sprechi, sarà necessario creare una autorità sovranazionale, o più autorità, per “indurre”, ossia costringere, i Paesi a consumi più “virtuosi”. Il tutto, inevitabilmente, avverrà attraverso l’uso della forza militare. E’ facile comprendere dove può portare questo discorso e soprattutto, come in altre “missioni”, su chi (gli Usa) sarà a gestire tale autorità e ad indirizzarne gli interventi.

 

Di Filippo Ghira, www.rinascieta.eu



“Senza Deir Yassin…”


Le storie di una nazione, di un popolo o del suo collante culturale sono spesso riassunte in un’immagine, in un nome che stimolino l’immaginario collettivo. In questo senso è universalmente riconosciuto che la letteratura italiana debba la sua nascita al genio di Dante Alighieri, che lo stato unitario di Germania sia nato grazie all’opera politica di Otto von Bismarck. Due esempi di importanti ed antiche nazioni europee, riunificate in tempi relativamente recenti sebbene i suoi due popoli calcassero dall’alba dei tempi quelle terre in cui si sono determinati i loro destini. Nazioni facenti parte oggi del prospero e democratico mondo occidentale, all’interno del quale è sovente – ed ostentatamente – inserito anche lo stato d’Israele, che però non deve la sua nascita né al genio di un artista né alla lungimiranza di uno statista. Almeno a detta di un suo ex Primo Ministro, fondatore e capo del movimento armato sionista Irgun (operante in Palestina con azioni terroristiche ai danni di arabi, prima e dopo la nascita d’Israele). Ecco cosa sostenne, per l’appunto, il nobel per la pace Begin nel 1951: “Senza Deir Yassin non ci sarebbe stato Israele”. Deir Yassin? Molti ignorano a cosa faccia riferimento questo nome composto da due parole e forse, ad intuito, lo riconducono ad una persona. Magari pure ad un filantropo o ad una sorta di romantico eroe nazionale che ebbe un ruolo determinante nella fondazione del “focolare ebraico” e che pertanto riceve i giusti onori da parte di un primo ministro d’Israele, insignito – lo ribadiamo – del premio nobel per la pace. Niente affatto. Deir Yassin non è il nome e cognome di una persona, bensì un luogo geografico in cui si consumò una delle pulizie etniche più efficaci – e dunque efferate – della storia recente dell’uomo. Deir Yassin è la pietra angolare di un grattacielo composto da una serie numerosissima di piani, ognuno dei quali corrisponde ad un crimine israeliano perpetrato ai danni della popolazione palestinese. Era il 9 aprile 1948 quando i destini di questo villaggio sito a pochi chilometri ad ovest di Gerusalemme mutarono improvvisamente, consentendo ad Israele di effettuare una fondamentale mossa nello scacchiere mediorientale, così da allargare i propri confini in modo arbitrario ed in barba al diritto internazionale. Il villaggio di Deir Yassin era allora posto sotto il Mandato Britannico, che avrebbe dovuto condurre alla nascita di due nazioni indipendenti e pacificamente conviventi in Palestina, come sancito da una famosa risoluzione Onu del novembre 1947: la n.181, una delle tante non rispettate da Israele. D’altronde l’obiettivo dell’esercito sionista consisteva proprio nel vanificare ogni risoluzione, stabilendo le proprie pretese esclusivistiche di “focolare ebraico” come unico diktat da imporre alla terra di Palestina. In questa prospettiva va letto il piano di impadronirsi del territorio di Gerusalemme, importante sia a livello simbolico che logistico, scacciando le truppe Onu ed eliminando gli abitanti arabi. Deir Yassin era un villaggio ubicato nella rotta individuata dai sionisti per procedere nella loro marcia verso Gerusalemme, pertanto era considerata di preminente importanza la sua conquista. Dell’incarico si fece interprete l’Irgun comandato da Begin, al quale garantì il proprio apporto anche la formazione terroristica ebraica Banda Stern, famigerata ed operante anche oltre confine mediorientale: ai suoi esponenti è da addebitare l’attentato all’ambasciata britannica a Roma nell’ottobre 1946. Per avere un’idea circa i propositi religiosi che animarono questo gruppo (il cui capo era un altro uomo che sarebbe divenuto anni più tardi primo ministro israeliano, ossia Yitzhak Shamir), basterebbe attingere elementi dagli articoli pubblicati sul loro giornale in quegli anni. Giusto qualche stralcio che, dati i toni e i contenuti, se fosse stato estratto dallo statuto di qualche movimento politico non ebraico, avrebbe fatto a più d’uno accapponare la pelle e gridare all’uso della forca: “Noi siamo decisamente lontani da esitazioni di ordine morale sui campi di battaglia nazionali. Noi vediamo davanti a noi il comando della Torah, il più alto insegnamento morale del mondo: Cancellate – fino alla distruzione. Noi siamo in particolare lontani da ogni sorta di esitazione nei confronti del nemico, la cui perversione morale è accettata da tutti”. Estremamente rispettosi di queste feroci scritture, a Deir Yassin essi cancellarono, insieme ai loro correligionari dell’Irgun comandati da Begin, fino alla distruzione, ogni traccia fisica e culturale del nemico. Deir Yassin è un incubo agghiacciante per i palestinesi che, come ogni incubo, avvenne nel cuore della notte. Sono, infatti, circa le 3.00 del mattino quando il commando della morte israeliano, favorito dal buio e dall’assenza degli uomini più forti poiché appena allontanatisi per raggiungere i luoghi di lavoro, fa il suo ingresso nel villaggio portando scompiglio. Viene fatta irruzione nelle case e vengono uccisi, senza esitazione, tutti gli arabi, nel sonno o svegliati dal fragore dovuto all’ingresso indesiderato di uomini armati. Dalle porte e dalle finestre vengono lanciate bombe incendiarie, la gente urlante per le strade – cioè quella che è riuscita a fuggire dal proprio focolare domestico divenuto una trappola di fuoco – viene giustiziata immediatamente o rastrellata per essere poi fucilata e seviziata in gruppo. L’intento è, palesemente, quello di operare una feroce quanto celere pulizia di ogni traccia palestinese a Deir Yassin, fisica e culturale: viene pertanto distrutto anche il cimitero, ci si accanisce sulle lapidi, livellate coi bulldozer, a tal punto da non lasciare quasi più traccia della sua esistenza. I corpi di gran parte delle vittime – spesso bruciati, straziati, mutilati, testimoni di un accanimento bestiale – vengono gettati in una cava; i superstiti vengono caricati su dei camion e, a quanti viene risparmiata la fucilazione immediata, non viene risparmiata l’umiliazione di essere trasportati per le vie di Gerusalemme Ovest a mo’ di trionfo di battaglia, in pieno stile partigiano durante la II guerra mondiale. La delegazione britannica a Gerusalemme, malgrado avesse assunto un atteggiamento connivente con gli assalitori sionisti, il 20 aprile 1948, undici giorni dopo i fatti, emette un comunicato destinato all’Onu. Dalla missiva emergono gli effetti devastanti dell’eccidio perpetrato a Deir Yassin: si parla di circa 250 vittime, trattasi di civili uccisi con estrema crudeltà; i prigionieri sono stati oggetto di soprusi e torture degradanti; l’operazione è stata sospesa soltanto il 13 aprile, con l’avvenuto possesso del villaggio da parte dell’Haganah (altra organizzazione sionista paramilitare); 150 corpi si trovano ammucchiati in una cava, mentre altri 50 presso una fortificazione, tutti lasciati in stato di abbandono e di putrefazione. Nello stesso anno del massacro, durante una riunione di gabinetto del governo israeliano, il Ministro dell’Agricoltura, tale Aharon Cizling ammetterà: “Adesso , anche gli ebrei si sono comportati come nazisti e tutta la mia anima ne è scossa. Ovviamente dobbiamo nascondere questi fatti al pubblico. Ma devono essere indagati”. Tuttavia, a differenza di quanto avvenuto con i nazisti, ai loro capi, anziché un Processo di Norimberga ed un’unanime condanna pubblica, verranno riconosciuti premi nobel per la pace e posti di comando nel governo d’Israele. E’ bene ricordare che Deir Yassin era stato fino a quel momento un villaggio pacifico, dal quale mai si erano registrati attacchi verso la popolazione ebraica. Del resto, l’obiettivo dell’offensiva sionista non era certo quello di stanare presunti terroristi, bensì quello di impadronirsi di un’altra fetta di quella terra che intendevano ieri ed intendono oggi occupare totalmente, a discapito degli abitanti di etnia araba. Attualmente, al posto del villaggio di Deir Yassin sorge una località edificata dagli israeliani per far posto a quanti, in quegli anni, ebrei ortodossi provenienti dall’est Europa si trasferirono nella loro terra promessa. Oggi è nota semplicemente come “area tra Givat Shaul e l’insediamento di Har Nof”, considerata una zona inglobata nella periferia urbana di Gerusalemme. Deir Yassin, dicevamo, è solo uno e non il più violento – forse il più significativo in termini storici perché sancì la vittoria ebraica della guerra civile per il possesso della Palestina e fu il preludio della nascita, poche settimane dopo, dello stato d’Israele – dei tanti genocidi perpetrati verso gli arabi. Gli effetti di questi genocidi sono riassumibili dalle cifre: quattrocento rasure al suolo, tra villaggi e città, settecentomila espulsioni di civili per far posto, appunto, a cittadini di comprovata appartenenza al “popolo eletto”. Non ci stupisce, pertanto, l’avvenuta demolizione da parte dei bulldozer israeliani a Gerusalemme est dell’Hotel Shepherd, durante il mese scorso, per far posto a una ventina di appartamenti per coloni illegali ebrei. L’Hotel Shepherd, costruito nel ’30 e storica residenza del celebre Muftì Husseini, era considerato un simbolo della loro identità dai palestinesi. La distruzione di questo albergo va così interpretata come l’ennesimo stadio di una pulizia etnica che riguarda non solo gli esseri umani, ma anche i suoi riferimenti culturali e i suoi simboli. Stadio che ha generato la reazione decisa da parte dell’ANP, che ha parlato di gesto inconsulto di Israele che vanifica tutti gli sforzi tesi ai negoziati di pace. Pace, parola alquanto inadeguata se applicata a coloro i quali fanno di Deir Yassin – non un letterato né un diplomatico, come abbiamo visto, bensì un genocidio di centinaia d’innocenti – la propria colonna portante, il proprio orgoglio nazionale. E allora, non c’è da stupirsi se la costruzione di insediamenti di coloni ebraici continua ininterrottamente nonostante la (almeno apparente) contrarietà internazionale, se gli attacchi su Gaza e in Cisgiordania sono all’ordine del giorno malgrado la condanna mediatica provocata da Piombo Fuso due anni fa. La volontà d’Israele è evidente, basterebbe solo togliersi dagli occhi il velo ingannevole dell’antisemitismo per vederla finalmente in tutta la sua drammaticità.



http://associazioneculturalezenit.wordpress.com/2011/02/25/senza-deir-yassin/


giovedì 24 febbraio 2011

Libia: cosa sta accadendo e perché.


Fabio Polese intervista Fabrizio Di Ernesto

 




(ASI) Il mondo arabo è in rivolta, ha sete di giustizia sociale. Il popolo di quelle nazioni ha preso coscienza dei propri diritti e si vuole sbarazzare di tutti quei despoti, spesso auspicati e/o tollerati dall’Occidente. E’ iniziato tutto dalla Tunisia, poi la protesta per il pane, ossia, al diritto ai bisogni primari, ha toccato l’Egitto per poi espandersi velocemente ad altre nazioni e comunità islamiche. Da qualche giorno anche la Libia, governata dal 1969 da Muhammar Gheddafi, è in rivolta, notizie si inseguono e non sempre sono attendibili o quantomeno verificabili. Scorrono nei telegiornali le immagini di Bengasi e delle altre città coinvolte negli scontri violentissimi, senza che non si arrivi a vedere in prospettiva una soluzione politica che non sia troppo traumatica per le popolazione libica e per le nazioni come l’Italia che hanno relazioni tradizionalmente strette economiche e culturali. Agenzia Stampa Italia ha incontrato Fabrizio Di Ernesto, giornalista e saggista, autore del libro “Petrolio, Cammelli e Finanza” edito da Fuoco Edizioni per porgli qualche domanda su quello che sta succedendo nel vicino Medio Oriente e per capire quali scenari futuri si potrebbero creare.



Per comprendere meglio gli affari e la storia tra Libia e Italia, lei ha scritto un interessante libro edito da Fuoco Edizioni dal titolo “Petrolio, Cammelli e Finanza”. Potrebbe questo testo aiutare ai lettori a comprendere quello che sta accadendo in questo momento in Libia?



Spero proprio di sì. Il mio saggio racconta la storia della Libia dal 1911, anno in cui l’Italia iniziò la colonizzazione e quindi tratta anche in modo esauriente gli ultimi 40, ovvero quelli che hanno visto Gheddafi salire e consolidare il proprio potere. A più riprese tratto anche il ruolo politico e commerciale che gioca oggi Tripoli sullo scacchiere mondiale che, a mio parere, offre buoni basi geopolitiche per capire chi realmente può avere interesse a destabilizzare il Paese traendone il massimo profitto. L’ultimo capitolo del mio saggio inoltre appare quasi profetico essendo incentrato sugli scenari futuri del paese nordafricano ed in cui analizzo anche le possibile conseguenze di una caduta del Rais sia volontaria, con il potere affidata ai figli, sia più cruenta con fine contemporanea di Gheddafi e della Jamahiryya.



I rapporti Italia-Libia quali effetti potrebbero avere con questa cruenta rivolta?



La prima e più scontata conseguenza sarà un aumento di petrolio e gas, non a caso è proprio di oggi la notizia che l’Eni ha chiuso il condotto Greenstream che da Wafa a Gela, passando per Mellrtah e Bahr Essalam porta in Italia il gas libico. Ieri inoltre in borsa tutte le grandi società italiane che hanno interessi libici o che vedono la Lafico, il fondo d’investimento statale libico, importante azionista hanno subito dei bruschi cali. A breve termine i rapporti economici potrebbero subire una frenata ma a livello politico credo che, una volta normalizzata la situazione tutto tornerà come prima. Per l’Italia la Libia ha un ruolo troppo importante per quanto concerne l’approvvigionamento energetico e nel contrasto all’immigrazione clandestina; sull’altro versante Tripoli non può fare a meno degli euro italiani e quindi se anche dovesse esserci un ribaltone Roma dovrà normalizzare quanto prima i rapporti.



Cosa potrebbe cambiare per gli Stati Uniti e per Israele?



Il Gheddafi odierno non è più il terrorista di Lockerbie. Oggi il Rais e la Libia sono stati pienamente inseriti nell’ottica occidentale. Nonostante ciò la caduta di un governo che dura ormai da oltre 40 anni farebbe il gioco di Washington e Tel Aviv. Gli Usa in particolare scottati da quando avvenuto nel 1979 in Iran ora sembrano più attenti nello scegliersi gli alleati ed hanno tutto l’interesse ad accerchiare Teheran. A parole lottano contro il fondamentalismo religioso ed in favore degli stati laici eppure ci si dimentica che l’Iraq di Saddam era uno stato laico e che le divisioni religiose sono iniziate dopo l’invasione atlantica. Difficile che un eventuale cambiamento non sia a vantaggio di Usa ed Israele magari proprio fomentando un divide et impera, anche in nome della religione, tra Tripolitani e Cirenaica come avvenuto nell’ex Yugoslavia.



E la Cina? Attenta osservatrice delle vicende globali, come sta vedendo le vicende del Medio Oriente?



La Cina per il momento osserva silenziosamente in disparte. A Pechino però sono preoccuparti da un eventuale aumento smisurato del petrolio che andrebbe ad incidere sui costi dei loro prodotti, oltretutto per il momento il bacino nordafricano rappresenta un’area, diciamo così, di influenza atlantica e la Cina pur interessandosene vuole evitare di entrare in rotta di collisione con Washington.



In Egitto Mubarak se n’è andato. I militari hanno confermato che rispetteranno i trattati internazionali, allora in pratica, la rivolta non ha cambiato nulla?



Non vorrei apparire troppo catastrofista ma l’Egitto mi ricorda il Cile di Pinochet: potere ai militari, scioglimento del Parlamento e asservimento dei diktat atlantici. I militari hanno promesso che la transizione durerà sei mesi, lo spero anche se ho paura che alla fine si arrivi ad una soluzione gattopardesca: cambiare tutto affinché nulla cambi. Probabile che tutta la corte che circondava Mubarak nel frattempo si riorganizzi e torni in sella, magari nascondendosi dietro un volto più presentabile e poco compromesso con il passato, sempre che i militari non si facciano corrompere dal potere e decidano i tenerlo nelle proprie mani.



E’ stato il trentaduesimo anniversario della rivoluzione islamica iraniana. Secondo lei, questa ricorrenza, ha potuto incidere sulle vicende del vicino Medio Oriente?



Sinceramente non credo, gli Usa sono ormai molti anni che cerca di destabilizzare, con scarsi risultati, l’Iran ed ora hanno cambiato strategia cercando di isolare quel Ahmadinejad che viene regolarmente eletto dalla maggioranza degli iraniani ma che l’occidente considera un dittatore in quanto antepone gli interessi del suo paese a quello delle grandi lobby internazionali.



La rivolta del pane nei paesi arabi, la lotta per il lavoro in occidente e la crisi mondiale possano decretare la fine di un certo turbo capitalismo?



Il capitalismo è in crisi anche se purtroppo, temo avrà vita ancora lunga. Tutte le rivoluzioni cui abbiamo assistito negli ultimi anni, da quelle colorate nell’est europeo a quelle nel nord africa, avevano dietro le quinte i sponsor occulti del capitalismo, Soros in primis. La strada del cambiamento a mio parere viene da Paesi come il Venezuela o l’Iran che stanno rilanciando l’economia sociale e non a caso sono additati al mondo come paesi non democratici. Purtroppo il turbo capitalismo, nonostante l’attuale crisi economica, sociale e politica, credo durerà ancora molti anni anche perché l’occidente è quotidianamente bombardato dal diktat capitalistico “cresci, consuma, crepa” con le menti, specie quelle più giovani che dovrebbero portare avanti le istanze di cambiamento narcotizzate da questo bombardamento.



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2300:libia-cosa-sta-accadendo-e-perche&catid=4:politica-nazionale&Itemid=34


mercoledì 23 febbraio 2011

La nuova arma americana...La piazza.


È in atto una rivoluzione degli assetti internazionali e del modo di concepire la guerra senza precedenti. Le rivolte arabe sono destinate ad entrare nella storia non solo per le ripercussioni sociali nei territori da dove sono partite le marce infuocate, ma anche per una mescolanza ambigua di interessi che deve far riflettere.

Il popolo si riversa nelle piazze, scontri, repressione, bombardamenti, centinaia di morti. Sangue che chiama sangue. La protesta è guardata con attenzione dal mondo occidentale che ne percepisce un principio primo: la libertà. In molti parlano di “cacciata dei tiranni”. Persone consapevoli del proprio potenziale rivoluzionario che si riversano contro colonnelli e dittatori, rei di aver calpestato diritti, di aver perseguito interessi da clan presidenziale. Ma quanto di tutto ciò è vero?. La ribellione è la sola scultrice di questa realtà politica?. È difficile, se non impossibile, difendere molti dei regimi che in questi ultimi giorni si stanno sgretolando sotto i colpi delle prese di coscienza del mondo arabo, ma la rapida diffusione dell’urlo di liberazione, come un’onda incontrastata, giunta fino alle porte di Teheran, crea molte perplessità.

La verità è che stiamo assistendo ad un nuovo modo di fare guerra o per usare un aforisma moderno di “esportare la democrazia”. Troppo dispendioso e poco consono ad un premio nobel per la pace mobilitare caccia bombardieri o cingolati, incauto direi, tenendo conto il pantano di sangue irakeno e afgano. Obama sta portando avanti la stessa identica guerra di George Bush solo che in maniera più intelligente, manovrata dall’interno, al passo con i tempi che suggeriscono il surriscaldamento degli animi, il far germogliare il dissenso, il fomentare ragioni fondate che, in un secondo momento, dovranno aprire scenari raggianti per le stelle e strisce. I modi, i linguaggi sono cambiati: non vedremo più un 2001 o un 2003, guerra in Afghanistan e in Irak, non ci saranno campagne volte a legittimare una risoluzione bellica. Si parlerà di condanna del genocidio, di solidarietà verso gli insorti e, in seguito, di transizione democratica, di tutela del cambiamento, di controllo. Non c’è più “democratica antropofilia” di quella che scredita i propri alleati (ormai ex) in nome delle “ragioni del popolo”. Gli Stati Uniti questo lo sanno bene, infatti ad oggi, sono applauditi per la loro presa di posizione netta contro le repressioni dei governi sotto accusa.

L’immagine Usa è salvaguardata, mai, in questi ultimi anni, così pura. Ma sotto banco si sta già preparando il secondo atto: la ristrutturazione di entourage filo Usa e lo sgambetto all’Iran. Lo “zio Tom” punta il dito su Mubarak, Ben Alì e adesso Gheddafi, assicurandosi un posto in prima fila per il “dopo”. Più volte sulle pagine di Rinascita si è parlato di una possibile “colorazione” delle rivoluzioni. Ciò, sta accadendo. La rapida diffusione del seme della rivolta ne è la più limpida dimostrazione. In molti potrebbero storcere il naso, forse perchè non ricordano i precedenti storici, regalatici da Washington: gli studenti di Belgrado anti-Milosevic, la rivolta arancione di Kiev, quella verde di Teheran, le instabilità della Georgia e del Libano. Sale prove per un progetto ben più ampio. La piazza diventa così la nuova arma americana, una bomba efficace che non fa morti, ma discepoli. Uno strumento che garantisce risultati molto più concreti rispetto ad un fragoroso dispiegamento di eserciti.

Marocco, Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Gibuti e poi, perchè no, Iran e Siria, gli obiettivi finali. Bisogna augurarsi che il mondo arabo, svegliatosi dal torpore, non finisca come l’Europa, sempre più satellite Usa, che apra gli occhi e non si assoggetti a nuovi “colonnelli democratici” perchè se così fosse si aprirebbero scenari mondiali ancora più schiavisti e non legati alle autodeterminazioni dei Paesi. La storia farà il suo corso, anche se qualche cosa di veramente rivoluzionario, oltre alle rivolte, è già stato messo in atto: un nuovo tipo di guerra che non può essere percepita da chi legge i giornali o guarda la tv. Un conflitto invisibile, mai così dilagante, che sfrutta il disagio di popoli che rischiano, consapevoli o no, di diventare i nuovi soldati di Washington.



Di Claudio Cabona, www.rinascita.eu


Il mercante di Venezia.


Lo stile e l’eleganza dell’opera di William Shakespeare rivivono grazie all’intuizione del regista Michael Radford e all’interpretazione di un eccellente cast di attori. Il merito di questa pellicola è quello di far tuffare lo spettatore in scenari storici, sociali, giuridici che appartengono ad un tempo passato e di riproporne alcune particolari contingenze, ma al tempo stesso di stimolare riflessioni intorno alla vita tutt’altro che obsolete. La commedia si svolge a cavallo tra sedicesimo e diciassettesimo secolo a Venezia, città che a quei tempi, in cui godeva dell’apporto datole dal mare che la sovrasta sfruttandolo come rotta commerciale, viveva fasti dei quali oggi resta solo un ricordo sbiadito che riecheggia lungo le calli e fa sospirare turisti dall’immaginazione fervida. La capitale della Repubblica Serenissima è in quei tempi anche capitale della frenesia mercantile, caratteristica che la rende proficuo approdo di avventurieri avvezzi al danaro. Nella Venezia del ‘500 non è affatto inusuale esser risucchiati dal trambusto di un affollato mercato in cui si sovrappongono le urla dei venditori e gli odori di spezie esotiche, ove è d’uopo incrociare facce straniere e poter constatare quanto il richiamo dei soldi riesca a muovere uomini in lunghi viaggi e ad impegnarli in estenuanti contrattazioni. Laddove regna l’oro e si sviluppano questi caotici scenari di promiscuità proliferano le brame materialistiche, che incatenano l’uomo e lo conducono verso quei disdicevoli nidi di serpi che praticano l’usura. E’ in simili contesti che può prevalere non il più saggio, non il più virtuoso, bensì il più scaltro, il più avido, colui che non conosce altra luce che non sia il luccichio della moneta sonante. Imbattersi nella voracità di un prestasoldi ad interesse è la prassi per ciascuno abbia speso ingenti somme in investimenti e ne abbia fatto la propria preoccupazione principale, così da lasciarsi coinvolgere dall’atmosfera bieca che aleggia tra le acque di Venezia. Eppure, in mezzo a tanto peccato, perdura ancora una stilla di purezza che fa di uomini come l’Antonio descrittoci da Shakespeare un esempio di virtù e di osservanza cristiana. Uomini che, seppur coinvolti in affari importanti, rifiutano di rivolgersi all’usuraio, a costo di veder le proprie attività commerciali limitate se non addirittura compromesse. Il disprezzo che nutre Antonio nei riguardi di quella categoria di impostori è noto a tutta Venezia, nulla potrebbe mai farlo vacillare e portarlo a tradire la propria coerenza. Nulla che risponda a personali esigenze economiche, per l’esattezza. Sì, perché uomini di siffatta foggia conoscono il valore dell’amicizia e, pur di vivificarlo, sono disposti a deludere le proprie abitudini. Proviene infatti dalla richiesta di un suo giovane e caro amico, Bassanio, la molla che spinge Antonio a rivolgersi ai servigi dell’ebreo Shylock, dedito all’usura. Bassanio, ragazzo pieno di entusiasmo e brio tutti giovanili, desidera candidarsi come pretendente della bella e facoltosa Porzia, ereditiera dell’isola dalmata di Belmonte. Al fine di poter esercitare seriamente la propria candidatura tra numerosi e potenti pretendenti che raggiungono Belmonte da ogni latitudine, Bassanio stima in 3.000 ducati la cifra necessaria da investire nel corteggiamento. Chiede un prestito al fidatissimo e più maturo amico Antonio, che però – nonostante conceda spesso prestiti gratuiti al fine di intralciare la pratica usuraia facendo abbassare i tassi d’interesse di tutta Venezia – non può permettersi di accordarglielo in quanto i suoi averi sono interamente investiti in traffici commerciali. E’ così che i due amici si recano da Shylock, il quale presta i 3.000 ducati a Bassanio con Antonio come garante. L’ebreo però, forte della sua posizione che lo vede, in via del tutto straordinaria, creditore rispetto all’odiato cristiano, vuole concedersi una sadica pretesa: in caso di mancato pagamento gli dovrà esser corrisposta una libbra di carne di Antonio. Nonostante le forti resistenze di Bassanio che teme di minare la vita dell’amico per le sue velleità di corteggiatore, Antonio accetta le condizioni di Shylock e il patto viene siglato in questi termini: entro tre mesi la somma più il tasso d’interesse dovranno esser restituiti all’usuraio. Bassanio può dunque usare l’ingente somma per recarsi con degne credenziali alla corte della bionda Porzia e sottoporsi ad un indovinello voluto dal defunto padre per sancire il fortunato vincitore della galante contesa: scegliere, tra tre scrigni di tre materiali diversi arrecanti criptiche frasi che lambiscono il tema dell’amore, quello contenente il ritratto di Porzia. Bassanio, spinto da acute riflessioni che corrispondono evidentemente a quelle del padre di Porzia che architettò l’enigma, sceglie di aprire lo scrigno giusto e ciò gli vale l’ottenimento di quanto agognato. Intanto tutte le navi di Antonio, come colpite da un comune destino di sciagura che si abbatte sul loro proprietario, naufragano e gettano verso l’epilogo più drammatico gli accordi economici instaurati con Shylock, ossia verso la perversa ricompensa quantificata in carne di cristiano. Ma la ormai scontata inadempienza di Antonio che fa fregare le mani all’ebreo fa il paio con un episodio che, al contrario, getta Shylock nella disperazione: sua figlia Jessica, sfiancata dall’imposizione paterna che la relega tra quattro mura in attesa che un ricco ebreo ne chieda la mano e logorata nella sua gioventù dall’atmosfera spilorcia che regna in casa, fugge con un giovane veneziano di nome Lorenzo e lo sposa in una chiesa lontana dalla minaccia del padre, non senza aver portato via con sé cospicue ricchezze. Due differenti espressioni di avvilimento insidiano l’umore dei due uomini che presto si troveranno davanti la corte del Doge pronta a risolvere la controversia: la consapevolezza di esser presto destinato ad abbandonare la vita terrena in un modo estremamente efferato e dovuto alla cupidigia vendicativa è il tarlo che assilla il cristiano Antonio, la perdita di una immensa somma di gioielli e soldi, l’affrancamento della sua unica figlia che ha scelto l’amore sincero per un ragazzo e la via della conversione al Cristianesimo i tormenti dell’ebreo Shylock. Una lettera, vergata con parole cariche di un affetto smisurato e di una dignità che solo chi è fermamente convinto che alcuni valori dei quali è degna interprete l’amicizia possano addirittura trascendere l’importanza della propria vita, giunge a Belmonte all’indirizzo di Bassanio da parte di Antonio, e crea un solco nel suo cuore e in quello della sua amata Porzia; solco profondo a tal punto da spingere quest’ultima a concedere il doppio della somma che sarebbe dovuta esser riconosciuta a Shylock pur di evitare ad Antonio l’atroce destino, solco profondo a tal punto da muovere Bassanio immediatamente presso la corte di Venezia per far desistere l’ebreo dal suo macabro desiderio proponendogli cotanto in cambio. Bassanio giunge giusto in tempo in tribunale, in mezzo ai due antagonisti e al cospetto del Doge che sta per emettere la sentenza che consentirà a Shylock di far valere i propri diritti di fronte alla legge: squartare il corpo di Antonio come si trattasse di quello di un capretto. Bassanio è però convinto che la somma di 6.000 ducati riesca ad estinguere il debito, tuttavia l’odio dell’ebreo per i cristiani e la sete di vendetta che cova nel suo animo sono più forti della concupiscenza: Shylock reclama la sua libbra di carne cristiana che gli spetta di diritto stando agli accordi; lo fa a gran voce, lo fa con un rancore che è accresciuto dalla fuga di sua figlia e dal vilipendio quotidiano a cui è sottoposto un usuraio ebreo in una città del diciassettesimo secolo. Egli ha finalmente l’occasione di riscattarsi da una condizione sociale miserabile a cui è condannato chi non conosce altra gratificazione che non provenga dall’accumulo di denaro. La sua implacabile affermazione non poteva aver sede migliore che la corte di giustizia di quello Stato presieduto da odiati cristiani. Affila la spada che gli concederà questo macabro sollievo con solerzia Shylock, quando l’improvviso arrivo di un tal Baldassarre – dottore in legge proveniente da Roma, ma in realtà Porzia sotto mentite spoglie – sconvolge l’esito scontato della sentenza. Baldassarre tenta in un primo momento di far desistere Shylock invitandolo alla misericordia – questa sconosciuta nell’animo dell’usuraio! – ed accettando i 6.000 ducati offertigli da Bassanio. L’invito è vano e Baldassarre, a questo punto, finge di essere d’accordo con Shylock e cita la legge come supremo giudice della contesa, salvo però fare una precisazione fondamentale: se Shylock dovesse versare una sola goccia di sangue cristiano, nell’atto di squartare, i suoi beni sarebbero divisi tra Antonio e lo stato, e l’ebreo condannato a morte. Il cavillo giudiziario fa trasalire Shylock che già pregustava la propria vendetta, gettandolo poi nella più oscura disperazione quando Antonio propone una nuova condizione: sostituire la condanna a morte con la conversione al Cristianesimo. Il provvidenziale intervento di Porzia travestita da avvocato salva la vita ad Antonio, impedisce uno spettacolo di disumanità che avrebbe squalificato l’onorabilità del Doge e della Serenissima tutta ed umilia, infine, il povero Shylock, costretto a rinunciare ai suoi diritti da contratto pur di non perdere i propri denari, la propria vita, la propria identità di ebreo. Shylock esce di scena sconfitto e solo, come è da inevitabile destino per chiunque serba in cuor suo soltanto avarizia, inclinazione al complotto ed inclemenza; Antonio ha salva la vita e riesce ad affermare, attraverso il suo gesto di coraggio che l’ha condotto a pochi centimetri da una lunga lama affilata che gli avrebbe dilaniato il corpo, i valori supremi dell’amicizia e della parola data che si manifestano mediante il sacrificio. Il genio di Shakespeare, dunque, propone tuttora attualissimi spunti di riflessione intorno a temi esistenziali e ne dà un’interpretazione che esprime chiaramente quelle che furono la coscienza e la sensibilità del poeta e drammaturgo inglese.



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Perché l'Italia non si rivolta.


Perché non ci ribelliamo? In Italia la disoccupazione giovanile è al 29%, la più alta d'Europa. Tutti noi genitori abbiamo il problema dei figli, quasi sempre laureati, che non trovano lavoro o che devono accettare ingaggi precari molto al di sotto del loro titolo di studio, senza nessuna prospettiva per il futuro (questo è stato uno degli elementi scatenanti della rivolta tunisina innescata da un ingegnere costretto a fare il venditore ambulante e, impeditagli anche la bancarella, si è dato fuoco).



Tutti gli scandali più recenti, dal "caso Mastella" in poi, ci dicono che la classe dirigente italiana, intesa come mixage di politici, amministratori pubblici, imprenditori, finanzieri, speculatori, esponenti dello star system, piazzano i propri figli, nipoti, generi, amici degli amici, in posti di lavoro ben remunerati e sicuri. Del resto nemmeno un chirurgo, nel nostro Paese, può fare il chirurgo se non ha gli agganci giusti con questa o quella banda di potere. Perché il sistema clientelare di Mastella non è il "sistema Mastella" è il sistema dell'intera classe dirigente italiana. Se non altro Mastella ha lo spudorato coraggio e la spudorata onestà di non farne mistero.



I ceti popolari sono stati espulsi da Milano e mandati nell'hinterland, in "non luoghi" direbbe Biondillo, che hanno il nome di paesi ma non sono paesi, perché non hanno una piazza, una chiesa, un cinema, un luogo di aggregazione.



Le deportazione dei ceti popolari ha distrutto Milano, città interclassista dove nei quartieri del centro, Brera, Garibaldi, Pirelli abitava accanto al suo operaio, il primo, naturalmente, in un palazzo di Caccia Dominioni, il secondo in una casa di ringhiera. Questa interfecondazione dava alla città una straordinaria vivacità che è andata inesorabilmente perduta. Oggi una giovane coppia non può trovar casa a Milano, né in affitto né tantomeno in proprietà nemmeno con mutui che impegnino tre o quattro generazioni. Quando ci si lamenta che certe zone periferiche, come viale Padova, sono state occupate più o meno illegalmente dagli immigrati, si sbaglia perché se non altro hanno restituito un po' di vita, e in particolare una vita notturna a una città che non ne ha più se non in quei quattro o cinque bordelli di lusso, a tutti noti, che ogni tanto vengono chiusi per eccesso di escort e di droga. In questi posti senti uomini fra i quaranta e i sessanta fare discorsi di questo tipo: «Domani parto per New York, poi faccio un salto a Boston e ritorno in Italia via Tailandia dove mi fermerò una decina di giorni». Se per caso ti capita di parlargli e gli chiedi: «Scusi, lei che lavoro fa?», le risposte son vaghe. In genere si dicono finanzieri, intermediari, immobiliaristi.



Quando agli inizi degli anni '70 era già cominciata la deportazione dei milanesi verso l'hinterland, lo Iacp, Istituto Autonomo Case Popolari, non dava i suoi appartamenti alla povera gente, ma a politici, amministratori locali, giornalisti, in genere socialisti perché, prima del ribaltone della Lega, Milano, è stata governata da sindaci del Psi (Aniasi, Tognoli, Pilliteri, gli ultimi).



È ovvio che il centro di Milano, depauperato dei suoi ceti popolari, sia abitato oggi solo dai ricchi. Noi milanesi le case di piazza del Carmine, di via Moscova, di via della Spiga, di via Statuto possiamo solo sfiorarle e occhieggiarne i lussuosi androni. Meno ovvio è che il Pio Albergo Trivulzio, la Baggina come la chiamiamo noi, che ha accumulato un ingente patrimonio immobiliare, grazie a dei benefattori che intendevano, con ciò, non solo alleviare la condizione dei vecchi soli e invalidi ma anche che i loro quattrini avessero un utilizzo sociale, svenda questo patrimonio, con affitti o vendite "low cost" come si dice elegantemente oggi, a politici, amministratori, manager, immobiliaristi, speculatori, modelle, giornalisti, che di questo "aiutino" non avrebbero alcun bisogno, sottraendo risorse a chi il bisogno ce l'ha.



Io bazzico bar frequentati da impiegati, da piccoli manager, da lavoratori del terziario e un'antica piscina meneghina, la Canottieri Milano, dove si sono rifugiati, come in uno zoo per animali in estinzione, i cittadini di una Milano che fu, gente anziana. Tutti schiumano rabbia impotente di fronte a queste storie dei figli delle oligarchie del potere che hanno il posto assicurato o delle case del centro occupate "low cost" da queste stesse oligarchie o dai loro pargoli (nello scandalo del Pio Albergo Trivulzio c'è un nipote di Pilliteri, una figlia di Ligresti). Queste cose li colpiscono più dei truffoni di Berlusconi perché toccano direttamente la loro carne.



Schiumano rabbia ma non si ribellano. Perché? Le ragioni, secondo me, sono sostanzialmente due. In questo Paese il più pulito c'ha la rogna. Quasi tutti hanno delle magagne nascoste, magari veniali, ma ce l'hanno. Non che sia gente in partenza disonesta. Ma, com'è noto, la mela marcia scaccia quella buona. Se "così fan tutti", tanto vale che lo faccia anch'io. Così ragiona il cittadino. Per resistere a quel "tanto vale" ci vuole una corazza morale da santo o da martire o da masochista.



La seconda ragione sta in una mancanza di vitalità. Basterebbe una spallata di due giorni, come quella tunisina, una rivolta popolare disarmata ma violenta disposta a lasciare sul campo qualche morto per abbattere queste oligarchie, queste aristocrazie mascherate che, come i nobili di un tempo, si passano potere e privilegi di padre in figlio, senza nemmeno avere gli obblighi delle aristocrazie storiche. Ma in Tunisia l'età media è di 32 anni, da noi di 43. Siamo vecchi, siamo rassegnati, siamo disposti a farci tosare come pecore e comandare come asini al basto. Solo una crisi economica cupissima potrebbe spingere la popolazione a ribellarsi. Perché quando arriva la fame cessa il tempo delle chiacchiere e la parola passa alla violenza. La sacrosanta violenza popolare. Come abbiamo visto in Tunisia e in Egitto, come vediamo in Libia o in Bahrein (in culo al colossale Barnum del Circuito di Formula Uno, che è, in sé, uno schiaffo alla povera gente di quel mondo).



Massimo Fini


lunedì 21 febbraio 2011

USA: pressioni all'Europa per imporre gli Ogm


(ASI) Le ultime pubblicazioni del sito Wikileaks confermano la volontà di Washington di esercitare ingerenze e pressioni sugli Stati europei. E’ notizia recente, infatti, la diffusione sull’ormai arcinoto sito di Julian Assange di cablogrammi dai quali emerge l’interesse statunitense ad imporre in Europa l’utilizzo degli Ogm in agricoltura, anche tra i Paesi non ancora favorevoli a questo tipo di politica, nociva per l’ambiente e per la salute dei consumatori ma proficua per le multinazionali.



A provocare il disappunto degli Stati Uniti, stando a quanto si legge, fu anche l’Italia ai tempi di Gianni Alemanno ministro dell’Agricoltura. Nel 2003 un decreto legge presentato da Alemanno contro gli Ogm generò una reazione americana sotto forma di intensa attività diplomatica al fine di impedire al decreto di venire approvato in Consiglio dei ministri. Una vera e propria campagna di diffamazione verso l’allora ministro dell’Agricoltura italiano partì da Washington all’indirizzo di vari esponenti del governo italiano e del Vaticano. Eccone lo stralcio pubblicato da Wikileaks: “Non sa niente di agricoltura e di scienza, ma non dobbiamo sottostimare lui e la sua determinazione a fare carriera: è uno che conosce la politica dalla base fino ai vertici”. A fronte di tali pressioni, il governo italiano provò a rassicurare l’alleato atlantico attraverso le parole del Sottosegretario di Stato Gianni Letta: “Il decreto legge non è nell'agenda del Consiglio dei ministri per quella settimana. Non è imminente”. Il decreto fu tuttavia promulgato, sebbene con una piccola modifica rispetto all’iniziale proposta di Alemanno - apportata forse per non irritare eccessivamente gli americani -, ovvero inserendo la possibilità di coltivazione di prodotti transgenici previo varo di un decreto che definisse i principi e i limiti della coesistenza. Lo stesso Alemanno ha tenuto a minimizzare i fatti dipanando la coltre di mistero: “Più volte ci furono in quel periodo incontri con l'ambasciata americana che sollecitava una liberalizzazione nei confronti degli Ogm: ho risposto in quell'occasione, sia in Consiglio dei ministro sia nei contatti diretti con la stessa ambasciata, che non rispondeva agli interessi nazionali perché il nostro agroalimentare era ed è di qualità incompatibile con l'utilizzo degli Ogm in agricoltura”. Infine, l’attuale sindaco di Roma ha chiosato assumendosi meriti: “In ogni caso il decreto fu approvato e, a tutt'oggi, gli Ogm in Italia sono vietati proprio in base alle scelte che feci da ministro dell'Agricoltura”.



Wikileaks diffonde, inoltre, i messaggi scambiati tra varie ambasciate statunitensi in Europa nei quali il tema è la necessità di attuare misure di “guerra economica” nei confronti dei paesi dell’UE che si oppongono alle coltivazioni di Ogm. In particolare, si fa riferimento alla Serbia e alla renitenza del governo di Belgrado di tradire la sana tradizione agricola del Paese aprendo agli Ogm. Affinché la Serbia cedesse all’innovazione attuando leggi per accettare cibi e semi geneticamente modificati, gli Stati Uniti agitarono la minaccia del ricatto: la mancata approvazione di una legge a favore degli Ogm sarebbe valsa la mancata entrata del paese balcanico nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Finora, la Serbia mantiene la sua linea anti-Ogm. E’ giunto il mese scorso un impegno in questo senso di Saša Dragin, ministro dell’Agricoltura serbo: “Produzione e consumo di Ogm restano proibiti e la Serbia continuerà a produrre alimenti sani”.





Di Federico Cenci,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2247:usa-pressioni-alleuropa-per-imporre-gli-ogm&catid=3:politica-estera&Itemid=35


mercoledì 16 febbraio 2011

17-02-2008 / 17-02-2011: KOSOVO E’ SERBIA


Alla data del 17 febbraio del 2008 il Kosovo si dichiara unilateralmente indipendente dalla Serbia. Questa dichiarazione d’indipendenza, in ossequio ai diktat atlantici e sostenuta in primis dagli Stati Uniti, fa seguito ai fatti bellici del 1999, quando le potenze occidentali, vassalle dell'imperialismo a stelle e strisce, nell'ambito di una operazione NATO, con bombardamenti indiscriminati insanguinarono Belgrado al fine di preparare il terreno allo smembramento della integrità territoriale della Nazione Serba, oltre che della identità e sovranità della stessa. Ma non solo, l'atto unilaterale di dichiarazione di indipendenza dello pseudo-stato kosovaro è anche e soprattutto un attentato alla sovranità e indipendenza dell'Europa tutta. La subdola manovra e la rapina “legalizzata” che ha subito lo Stato sovrano della Serbia è l’ulteriore atto volto a creare un ennesimo modello “democratico-globalizzato” tanto caro alla politica coloniale ed affaristica americana. La decantata “operazione umanitaria” in favore di un presunto principio di autodeterminazione dei popoli ha spianato la strada alla creazione di una entità terroristico-mafiosa ove prosperano traffici della peggior specie e non lascia speranza alle popolazioni serbe, legittime abitanti di quelle terre martoriate. Inoltre, chi ha tradito la Serbia ha aggiunto un numero in più alla lunghissima lista di atti ostili, sotto ogni raffigurazione, che da anni si consumano contro la moralità, l’indipendenza e la stabilità dell’Europa. Oggi, 17 febbraio 2011, a tre anni dallo scippo del Kosovo, le Associazioni Culturali Zenit di Roma e Tyr di Perugia hanno voluto ricordare e rivendicare l’assoluta appartenenza della terra kosovara alla Serbia, auspicando che, davanti all’ennesima vergogna europea, alla sottomissione all’arroganza yankee, si possano aprire definitivamente gli occhi. Kosovo je Srbija!



 



Associazione Culturale Zenit Roma http://associazioneculturalezenit.wordpress.com



Associazione Culturale Tyr Perugia http://www.controventopg.splinder.com


 








martedì 15 febbraio 2011

Quelli che non fanno le feste ad Arcore.


Mentre tutti noi continuiamo la nostra vita, e i giornali negli ultimi tempi ci hanno infognato con informazioni delle feste di Arcore e mentre eravamo tutti, chi a commentare, chi a ironizzare chi a sputare veleno sulla vita privata del presidente del consiglio, 2905 connazionali venivano dimenticati nelle prigioni oltre confine. Altri 30.000, tra famigliari e amici, continuavano a cercare di dar loro voce, chi mediaticamente, chi nei confronti delle istituzioni, rimanendo pero’ inascoltati e in quella disperazione che non fa notizia. Certo, piu’ importante sapere che la predilezione ad Arcore fosse il bunga bunga, piuttosto che sapere che se si va in alcuni paesi del Marocco nel periodo del ramadam e si fuma per strada si diventa uno dei 2905 connazionali dimenticati da tutti in qualche squallida cella. Vogliamo ricordare: Un poliziotto salentino, in viaggio a Dubai per riprendersi da un periodo funesto e di depressione, viene fermato all’aeroporto con degli ansiolitici ad uso personale e viene arrestato. In quanti lo sanno? In quanti ne hanno parlato? Per quanto tempo? Simone Renda, impiegato di banca di Lecce, va in ferie in Messico, il suo ultimo giorno di vacanza diventa l’inizio di un incubo, solo perche’ non si sente bene e non lascia la camera per tempo, viene arrestato, trattato come un criminale e lasciato morire in cella. Ad oggi grazie a due avvocati che magnificamente sanno fare il proprio lavoro, ad un giudice onesto i suoi aguzzini sono processati in Italia…..ma in quanti conoscono la storia di Simone Renda? In quanti ne parlano efficacemente? In quanti si indignano? Tommaso, Elisabetta, Francesco, tre ragazzi di Torino, Sardegna e Savona partono per una vacanza in India. Francesco muore, ne danno l’allarme Tommaso ed Elisabetta ma vengono arrestati e accusati della morte dell’amico, da un anno in prigione, volete leggere l’assurdita di questa storia, la trovate su Cronaca Nera. Indagini non conformi alle regole, la stessa madre di Francesco ritiene i due ragazzi innocenti, ma nulla [...] E ancora Giuseppe Ammirabile, di Bari arrestato in Brasile, in condizioni disumane, con delle accuse non reggono, gia nei primi anni del suo arresto, dimagrito 15 kg. Mentre si parla solo del caso Battisti, alcuni nostri connazionali innocenti delle accuse rivoltegli vengono tenuti sequestrati e il nostro governo non puo’ fare nulla. E quanti conoscono la storia di Giuseppe e di altri nostri connazionali che venivano tenuti in prigioni sotterranee in Brasile? Quanti ne parlano se non qualche articoletto qua e la…forse? Francesco Stanzione di Napoli, arrestato in Grecia, ancora oggi si proclama innocente, da tre anni ha chiesto l’applicazione della convenzione di Strasburgo per poter scontare la sua pena nel suo paese vicino alla sua famiglia ed eventualmente riuscire ancora a difendersi, ma con una scusa, o con l’altra, la Grecia non accenna a concedere il trasferimento, strano, pero’ commenta il signor Stanzione, che molti suoi compagni di cella di altri paesi sono riusciti a far rispettare l’accordo di Strasburgo. Chi parla di questa vicenda? Chi la conosce? In quanti sanno che la grecia ha un sistema detentivo degno del terzo mondo? Ferdinando Nardini, di Roma, in cella in Thainlandia lo stesso PM ne ha chiesto la scarcerazione, il fatto e’ assurdo, il giudice lo vuole dentro per l’ergastolo, vengono violati diversi trattati, si rimanda agli articoli presenti su http://www.prigionieridelsilenzio.it . Carlo Parlanti di Montecatini Terme, residente a Milano, manger informatico vive per 6 anni negli Stati Uniti, torna in Europa, gira in lungo e largo per Europa e Candada e non e’ a conoscenza di essere destinatario di un mandato internazionale di cattura da parte degli Stati Uniti. Viene estradato illegalmente, viene sottoposto ad un processo farsa, viene giusto scritto un libro dal piu’ famoso criminologo italiano, Vincenzo Mastronardi, vengono elaborati rapporti da esperti americani e medici italiani come la dott.ssa Pozzi, il dott. Zingales, ed altri, vengono scoperte prove di crimini contro il nostro connazionale, ma in quanti le conoscono? Chi ne parla? Chi ne vuole sentire? Sarebbe stato un innovazione che un giornalista avesse fatto una domanda intelligente al premier quando ha dichiarato di essere una persona sensibile, motivo per cui alle ragazze donava dei soldi: perche’ mai, visto la sensibilita’ non ha mai aiutato economicamente uno dei nostri connazionali condannati ingiustamente all’Estero? Prigionieri del Silenzio, in diverse occasioni ha cercato la sua attenzione. Noi ci chiediamo ancora perche’ mai dagli USA con il caso Knox al Brasile con il caso Battisti, ci sono Paesi che si arrogano il diritto di discutere le nostre sentenze e ogni qual volta che evidenziamo al nostro Governo che vengono commessi crimini nei confronti di nostri connazionali e palesi ingiustizie nei processi penali di questi, ci viene risposto che il paese di accusa e’ sovrano della propria legge? E l”Italia, non lo e’? Cominciamo a farlo, girando queste storie, distinguamoci da chi non vuole trattare storie “scomode”.



www.prigionieridelsilenzio.it


domenica 13 febbraio 2011

SOSTENIAMO LA FREEDOM FLOTILLA 2



"Aiutateci ad allestire la nave italiana "Stefano Chiarini",  

che in primavera salperà per Gaza con il resto della flotta internazionale":


Dal sito della Coalizione italiana della Freedom Flotilla 2 - www.freedomflotilla.it.


Come sostenere la nave italiana:


donazioni


 - direttamente agli attivisti in occasione delle iniziative sul territorio  


- con carta di credito dal sito www.freedomflotilla.it


- Conto Corrente Postale intestato a:


Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese, 


numero 22246169


Conto Corrente Bancario intestato a:


ABSPP ONLUS,  Banca Popolare EticaIBAN: IT92N0501801400000000131000


coordinate dall'Estero (from abroad): 


intestato a: IBAN: IT92N0501801400000000131000


Il codice SWIFT: CCRTIT2T84A



ABSPP Onlus, via Bolzaneto, 19/1 - 16162 - Genova, Italia



Le vostre donazioni ci aiutano a:


- acquistare la nave


- noleggiare un equipaggio


- trasportare attivisti per i diritti umani a Gaza


- restituire dignità a Gaza e ad aiutarla a ricostruirla


Adesioni


adesioni@freedomflotilla.it


http://www.freedomflotilla.it/adesioni/


Comitati territoriali


http://www.freedomflotilla.it/campagna-nazionale/

lunedì 7 febbraio 2011

Esodo e Foibe: le memorie e i silenzi. A Perugia un interessante incontro il 10 febbraio.


(ASI) Il 10 Febbraio, data nella quale in Italia si celebra il “Giorno del Ricordo”, solennità civile istituita nel 2004 per ricordare la memoria delle vittime delle Foibe, a Perugia ci sarà un interessante convegno promosso dal Comitato 10 Febbraio, dal Comune di Perugia e dall’Ufficio Scolastico Regionale per l’Umbria. L’inizio dell’incontro è fissato per le ore 10.00 nella prestigiosa Sala dei Notari di Palazzo dei Priori. La manifestazione sarà aperta con i saluti del Vice Sindaco di Perugia Nilo Arcudi, da Maria Letizia Melina, Direttore Generale Ufficio Scolastico Regionale dell’Umbria e dall’Avv. Raffaella Rinaldi del Comitato 10 Febbraio di Perugia. Seguirà poi la proiezione di un filmato che ripercorrerà la tragedia delle Foibe e dell’esodo Giuliano-Dalmata. Le Foibe, cavità naturali presenti in Istria e sul Carso, sono diventate il simbolo delle sofferenze patite dagli Italiani in quelle terre martoriate; all’interno di esse venivano gettati i nostri connazionali, nell’attuazione della politica genocida messa in atto dai partigiani di Tito e volta a sradicare ogni identità Italiana dalle terre che sarebbero dovute diventare parte della nascente Federazione Jugoslava. Alla tavola rotonda parteciperà anche Gianni Stelli della Società Studi Fiumani di Roma, Franco Papetti dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, l’esule fiumano Livio Zupicich e il giornalista e saggista Valentino Quintana. Parteciperanno all’evento gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori della città. Un’altra interessante iniziativa, firmata da Lotta Studentesca Perugia, emanazione del movimento politico Forza Nuova, si svolgerà nelle scuole superiori dell’IPSIA ad Olmo e all’ITIS a Piscille da lunedì 7 a giovedì 10 febbraio. Il movimento giovanile ha organizzato una mostra fotografica sulle Foibe, per ricordare le vittime italiane barbaramente uccise, aperta a tutti gli studenti dei due istituti.



www.agenziastampaitalia.it


Elisa Benedetti vittima della società moderna.


Questa società ha creato un nichilismo sfrenato che porta i giovani d’oggi ad autodistruggersi per cercare una finta libertà.



La vicenda di Elisa Benedetti è ormai nota a tutti, il tam-tam di notizie – vere o presunte – sulla morte della venticinquenne di Città di Castello, hanno di nuovo portato sotto i riflettori il capoluogo umbro. Torna di moda la Perugia dello sballo e del divertimento sfrenato, tanto che, alcuni giornali, la paragonano alla “Disneyland della droga” e, in una delle ultime puntate della conosciuta trasmissione televisiva Porta a Porta, viene discusso il caso con una foto di sfondo che raffigura una montagna di ecstasy. Era successo così anche per il triste caso della studentessa inglese Meredith Kercher, morta nel novembre del 2007 con processi, ricostruzioni, libri e fiction degne di uno show mediatico interminabile. Le due storie – purtroppo – non sono le scene di un film “made in Hollywoodcon tanto di effetti speciali ma sono reali; si ambientano in una Perugia che ospita più di quarantamila studenti e si divide in poche vie del centro cittadino con poche strutture che diano una vera possibilità ai giovani d’oggi di costruirsi invece che auto-distruggersi. E mentre i media massificati descrivono la nostra città come pietra dello scandalo, un’altra giovane vita è stata spezzata per sempre in uno scenario – non solo perugino – tristemente devastato. Il Sindaco di Perugia Wladimiro Boccali ha recentemente dichiarato: “Che la droga a Perugia sia un problema è scontato. E’ uno dei punti principali, la lotta allo spaccio, su cui si fonda il Patto per la sicurezza che da alcuni anni la città ha stretto con lo Stato. – e ha continuato – C’è un’altra tesi. Il mercato c’è perché c’è la domanda. Ma perché c’è la domanda? E’ tanto doloroso ed impegnativo cercare di scavare nel fondo, magari per la paura di trovare una risposta? Le nostre famiglie, lo sanno come i ragazzi vivono le loro serate di sabato?  Hanno mai fatto un giro nei locali in cui vanno, e non trovano nulla di strano se tornano a casa all’alba e poco “normali”? E nelle aule delle scuole, dove i ragazzi vivono tanta parte della giornata, davvero non si ha sentore di tante crisi che vengono nascoste nelle case? Perché a distanza di poco tempo due adolescenti cadono da una finestra? E davvero, cari narratori della Perugia noir, pensate che il disagio dei giovani e dei ragazzi sia un fenomeno che possa circoscriversi tra le mura etrusche o medievali di Perugia, e non sia un fenomeno con cui tutti, drammaticamente, dovremmo fare i conti?”. Tralasciando che una cosa esiste perché c’è un mercato ricco e sempre maggiormente richiesto – lo sanno anche i muri! -, il secondo punto delle dichiarazioni del Sindaco perugino merita un’attenta analisi. E’ vero, la famiglia e la scuola dovrebbero educare i nostri figli, ma è altrettanto vero che lo Stato e le istituzioni dovrebbero quantomeno dare delle prospettive concrete al nostro futuro. Viviamo in una società moderna che ha praticamente distrutto anche il vero significato della famiglia tradizionale; impossibilitata, soprattutto per motivi di tempo, ad esternare qualsiasi tipo di emozioni e tantomeno a dedicarsi  per educare, parlare e confrontarsi con i propri figli. Questa società ha, inoltre, creato un nichilismo sfrenato che porta i giovani d’oggi ad autodistruggersi per cercare una finta libertà che possa colmare il vuoto di una vita costruita ad hoc solo per il consumismo incontrollato. I giovani, apatici e poco motivati a trasformare le malattie in autentiche medicine naturali, cercano di evadere da una realtà triste e deformata, credendo che lo sballo possa farli uscire dalla quotidianità. Una quotidianità che non ha futuro, con poche possibilità lavorative e molte incertezze sociali. E’ proprio da questa falsa libertà che bisogna iniziare a mettere le fondamenta per una vera lotta alla decadenza. Ma la strada per i più alti desideri passa spesso per l’indesiderabile… Intanto – mentre aspettiamo – proviamo ad avere carattere e smettiamo di riempirci la bocca con quello che ha o non ha fatto la povera Elisa Benedetti, figlia e vittima di questa società in cancrena.



http://www.ilsitodiperugia.it/content/589-elisa-benedetti-vittima-della-societ%C3%A0-moderna


giovedì 3 febbraio 2011

Bretton Woods Nr. 2? No, grazie


Le bolle debitorie stanno dimostrando la colossale truffa che si annida e si realizza con un’emissione monetaria delegata a quegli istituti d’emissione privati definiti dai Signori del denaro “banche centrali”. Per correre ai ripari e mantenere ben strette le proprie rendite da usura, questi signori stanno ora cercando di propinare un qualche correttivo, adombrando il cosiddetto “ritorno all’oro”: in qualche modo una riesumazione dei famosi patti di Bretton Woods - imposti al mondo dai vincitori della seconda guerra mondiale - e comunque mantenendo inalterate le prerogative delle banche di emissione, diventate ormai il centro di potere sovrano sulle economie dell’Occidente e oltre. Un pannicello caldo. Come nota in un suo recente commento Savino Frigiola, la riproposizione di un sistema di parità fisse ancorate all’oro non frenerebbe certo l’incontrollata emissione delle banconote - parliamo soprattutto del dollaro - o dei certificati valutari speculativi. Lo dimostrano i conti ex post della stessa Federal Reserve - la banca (privata) di emissione Usa - che risulta aver stampato ed emesso dollari pari a ben nove volte le riserve di oro possedute. Quello che è certo è che il clan delle “banche di emissione” continuerebbe ad impadronirsi dei tassi primarii di sconto (il signoraggio) e quindi a fabbricare il solito accelerato debito degli Stati nazionali, proprio quello che attualmente strangola, con effetto domino, gran parte delle economie occidentali. Di qui il nostro nuovo appello a chi si trova al timone della politica italiana ed europea: lo Stato deve tornare virtuosamente a battere moneta in proprio, ottenendo di conseguenza l’equilibrio tra emissione monetaria e capacità dei cittadini di produrre ricchezza.  Il “signoraggio sovrano” -  trattenuto cioè dallo Stato nazionale e non dai privati, le nove banche d’affari in cima alla piramide dell’usura internazionale -  diventa così lo strumento principe per eliminare l’indebitamento della nazione e per realizzare il rilancio dell’economia e del lavoro. Spezzate le catene di una vita sottomessa al sistema monetario liberista ogni cittadino sarà dunque messo in grado di operare, con un nuovo contratto sociale, per il proprio benessere e nell’interesse di tutti.



http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=6275


Irlanda: corteo in ricordo della Bloody Sunday.






(ASI) Domenica scorsa un lungo corteo di migliaia di persone ha percorso le strade di Derry per commemorare, come da trantanove anni a questa parte, i quattordici morti della Bloody Sunday. Tuttavia, non senza aver prima provocato vespai di polemiche e pareri contrastanti tra gli stessi familiari delle vittime, questa potrebbe essere stata l’ultima volta. Nel giugno scorso è finalmente giunto il tanto atteso mea culpa del governo britannico. Il Primo Ministro del Regno Unito Cameron, nell’atto di presentare le conclusioni del rapporto a firma di Lord Saville, ha condannato senza alcuna giustificazione la condotta tenuta in quella occasione dai parà inglesi. Questo gesto è stato ritenuto sufficiente, da parte della gran parte degli organizzatori della marcia (Sinn Féin su tutti), per concludere la campagna di sensibilizzazione intorno a quella efferata operazione militare. Alla testa del corteo ha campeggiato, infatti, uno striscione arrecante l’eloquente scritta “vindicated” (vendicati), con chiaro riferimento ai quattordici manifestanti rimasti uccisi il 30 gennaio 1972.

L’ammissione di colpa britannica potrebbe aver aperto una breccia di speranza nei cuori di altre famiglie che reclamano giustizia dal governo di Londra. Al termine della marcia snodatasi per le vie di Derry, durante il consueto raduno di fine corteo a Guidhall Square (proprio laddove i parà britannici aprirono il fuoco), è avvenuto un ideale passaggio di testimone tra i familiari delle vittime del Bloody Sunday ed i familiari delle vittime di un’altra strage firmata dalla union jack ai danni di repubblicani: quella di Ballymurphy. Nell’omonima zona di West Belfast, nell’agosto 1971, l’esercito britannico fece irruzione ed uccise, nell’arco di tre giorni, undici civili solo per esser stati sospettati, ad arbitraria discrezione delle autorità britanniche, di appartenere a gruppi paramilitari. Oggi, dopo la pubblicazione del rapporto Saville, la speranza per i loro cari torna ad accendersi. Essi erano presenti con il loro striscione “Ballymurphy massacre” ed hanno voluto far sentire la propria voce. Dal palco, una portavoce dei familiari delle vittime del massacro di Ballymurphy ha preso la parola per rivendicare il valore della ricerca di verità e per sostenere che un processo pubblico è il “debito” che le autorità sono in dovere di pagare a coloro che sono stati uccisi dalla violenza di Stato. Ricordiamo che già nei mesi scorsi l’associazione dei familiari delle vittime si è mossa per chiedere un comitato d’indagine indipendente sui fatti di Ballymurphy, sostenuta in questo senso dalla Chiesa cattolica. Tra le undici vittime del massacro, il sacerdote Hugh Mullan. La Chiesa sta conducendo da anni delle ricerche su quei fatti che attesterebbero che gli omicidi non erano giustificati. Parte di queste ricerche sono state raccolte l’estate scorsa in un documento e consegnate ai parenti delle vittime, così da rappresentare un concreto sostegno nella ricerca di verità.

Da Derry a Ballymurphy, dunque. Lo sforzo dei repubblicani cambia luogo d’attenzione ma non obiettivo: rendere giustizia alle vittime del dominio britannico. A decenni di distanza da quei fatti - due di una lunga serie - che macchiarono la terra d’Irlanda di sangue cattolico, la battaglia per la verità prosegue lenta ma imperterrita. Come una goccia che scava la roccia.



Di Federico Cenci,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1967:black-sunday-a-ballymurphy&catid=3:politica-estera&Itemid=35


Berto Ricci: l'uomo, il romantico, l'esempio.


(ASI) Sono oggi settanta gli anni che ci separano dall’addio ad uno degli ultimi testimoni di un’epoca in cui il pensiero assumeva connotati rivoluzionari e si tramutava in azione. Settant’anni che sembrano sette secoli, tanta è la distanza che separa questi tempi di stagnazione al periodo di fermento che va dagli inizi del secolo XX alla fine della II guerra mondiale. Moriva il 2 febbraio 1941, appena trentaseienne, Berto Ricci, professore di matematica famoso non per i suoi titoli accademici bensì per il contributo filosofico e pratico che rese al fascismo. Una vita breve, consumata dalla passione ineluttabile come accade a molti poeti e mai adagiata su posizioni di comodo. Il fiorentino Berto Ricci, che fa del piglio polemico tipicamente toscano la propria caratteristica, benché già laureatosi a ventuno anni in matematica nutre un profondo interesse verso la lettura dei grandi classici. In filosofia l’inclinazione alle teorie antipositiviste di Sorel lo fa propendere su posizioni anarchiche. Nel 1927, esordendo come “asciutto e tagliente” scrittore (così come lo definì il suo amico Indro Montanelli) sul “Selvaggio” di Mino Maccari, si avvicina al fascismo nel quale vede l’unico antidoto serio ed efficace contro quelli che lui stesso definiva i babbuini, i fiaschi vuoti, i palloni gonfiati, coloro che stanno sempre alla finestra, pronti a salire sul carro dei vincitori al momento opportuno. Per dirla in una parola, contro quella categoria che Ricci disprezzava più d’ogni altra cosa: la borghesia. Nell’anno 1931 egli fonda la rivista “L’Universale”. E’ su queste pagine che decide di farsi acceso promotore di una classe intellettuale che rifiuti le sterili discussioni da salotto tramutando in scontro frontale l’avversione che il fascismo deve assumere al cospetto di marxismo, capitalismo e borghesia. Tuttavia il PNF non è pronto per accogliere l’istanza intransigente del giovane e vivace Ricci: la schiettezza e l’impronta battagliera gli procurano più inimicizie che consensi in seno ai vertici del regime. Addirittura alcuni numeri della rivista vengono sequestrati e per un certo periodo Ricci viene sospeso dal partito. Gli ostacoli non lo spaventano affatto, tanto che è solo nel 1935 che “L’Universale” sospende le pubblicazioni. In quell’anno inizia la guerra d’Etiopia e per Ricci “non è più tempo di carta stampata”, ma di partire volontario al fronte come soldato semplice nella divisione “23 marzo”. L’umiltà lo contraddistingue a tal punto da fare ignorare ai suoi commilitoni il fatto che l’audace e generosa Camicia Nera Berto Ricci sia un professore di matematica. Tornato dall’esperienza bellica, si dedica alla professione d’insegnante e, dopo qualche tempo, riceve una cattedra a Prato. L’impegno professionale non gli preclude il lavoro letterario, nel tentativo di dare al fascismo un contributo di radicalità che scuota dal torpore in cui riversano diversi settori del regime e che rischiano di contaminare la gioventù italiana. La lotta ”agl’inglesi di fuori” di cui si fa interprete Mussolini la sposa con estrema convinzione ma, coerente con la sua visione marcatamente sociale del fascismo, non dà minor peso alla lotta “agl’inglesi di dentro”, con chiaro riferimento ai borghesi italiani che proliferano a quei tempi, malgrado in Italia il fascismo si stia affermando come un regime votato ad applicare le prime vere riforme sociali del secolo. Del resto, lui stesso scrive: “…finché il principal criterio nello stabilire la gerarchia sociale degli individui sarà il denaro o l’apparenza del denaro, secondo l’uso delle società nate dalla rivoluzione borghese, delle società mercantili, apolitiche ed antiguerriere; potremo dire e ripetere che c’è molto da fare per il Fascismo”. Nel 1940 partecipa al primo convegno della Scuola di Mistica Fascista sostenendone proprio l’utilità quale espressione di “dinamica unità sociale”. Allo scoppio della II guerra mondiale, Ricci fa di tutto per farsi mandare volontario al fronte, sebbene sia sposato ed abbia due figli. Trova la morte, appunto, il 2 febbraio ’41 in Libia, a Bir Gambula, ove è falcidiato dagli spari provenienti da due aerei britannici.

Nella lettera che invia ai familiari dal fronte libico scrive “Ai due ragazzi (i figli, ndr) penso sempre con orgoglio ed entusiasmo. Siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro; e perché la sia finita con gl’inglesi e coi loro degni fratelli d’oltremare, ma anche con qualche inglese d’Italia”. Oggi, tempi in cui il capitalismo si è ormai consolidato in tutte le sue forme più acute e deleterie, la figura di Berto Ricci sembra davvero la testimonianza di sette secoli fa, non di settanta anni.



Di Federico Cenci,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1960:berto-ricci-luomo-lidealista-lesempio&catid=40:cultura&Itemid=127