giovedì 31 marzo 2011

NO FLY ZONE SU GAZA


Risale allo scorso 17 marzo la Risoluzione 1973 adottata dal consiglio di sicurezza dell’Onu, la quale richiedeva un immediato cessate il fuoco e l’interdizione dei voli sui cieli della Libia (la cosiddetta No Fly Zone). Due giorni dopo, il 19 marzo, questo documento dava il via libera all’intervento militare occidentale, finalizzato alla sua attuazione impedendo a Gheddafi di reiterare pratiche e azioni che si collocano “contro la volontà della Comunità Internazionale” e in violazione dei diritti umani. Hanno chiamato questo intervento non guerra ma “operazione umanitaria”, così da fornirne all’opinione pubblica un’immagine quanto mai nobile e rassicurante. Stando ai supposti propositi che avrebbero mosso gli occidentali ad intervenire in Libia, si evincerebbe dunque la presenza di una sorta di mutuo soccorso internazionale pronto a mobilitarsi in ogni dove vi siano abusi verso i civili e inosservanza delle Risoluzioni delle Nazioni Unite. Tuttavia sono molti gli osservatori che contestano il tentativo di mascherare, attraverso l’uso di slogan infarciti di buoni propositi, lo scopo di fare della Libia un nuovo avamposto dell’ingordigia mondialista per sfruttarne le risorse del sottosuolo, togliendola alla sovranità della Jamāhīriyya per consegnarla a governi fantoccio dell’Occidente, magari edificando nuovi confini così da adempiere l’efficace strategia del dividi et impera. Del resto, se non si tratta di una copertura, come interpretare il silenzio complice della Comunità Internazionale intorno a questioni umanitarie del tutto simili, talvolta anche peggiori, di quella libica? Giusto a qualche centinaio di chilometri ad est dal confine libico, lo Stato d’Israele persegue da anni una politica vessatoria e cruenta ai danni della popolazione palestinese, detenendo il record mondiale di violazioni delle Risoluzioni Onu e impiegando armamenti di tipologie non convenzionali. In questi giorni, mentre i media occidentali sono costantemente impegnati a fornirci gli aggiornamenti di quanto avviene in Libia, gli attacchi di Israele sulla Striscia di Gaza si fanno sempre più incessanti, tanto da sembrare il preludio di una nuova devastante operazione, nello stile di “Piombo fuso”. Per impedire che la situazione in Palestina degeneri, le Associazioni Culturali Zenit di Roma e Tyr di Perugia, appellandosi al buon senso e ai presunti propositi umanitari che hanno spinto l’Onu a mobilitarsi per la Libia, si chiedono se non sia opportuno applicare misure volte a fermare i crimini di Israele, mediante l’adozione di una No Fly Zone anche sui cieli di Gaza.



Associazione Culturale Zenit Roma – http://associazioneculturalezenit.wordpress.com



Associazione Culturale Tyr Perugia – http://www.controventopg.splinder.com

 






Lampedusa, un'isola nell'abisso (seconda parte)


LAMPEDUSA – Mentre sto in giro per l’isola, arriva la notizia che un nuovo barcone è stato avvistato e arriverà nelle coste italiane in meno di due ore. E’ il quarto della giornata e il secondo che proviene dalla Libia. Poco dopo, un elicottero della Marina Militare italiana decolla dalla nave Etna per intervenire sul barcone dove una donna ha appena partorito mettendo in salvo madre e neonato.



Nell’aria c’è la volontà di una presa di posizione forte e popolare proprio come era avvenuto nei giorni precedenti, quando i cittadini di Lampedusa non avevano permesso l’installazione delle tendopoli. Il giorno prima del mio arrivo, un nutrito gruppo di mamme lampedusane, si erano recate dal primo cittadino  Dino De Rubeis per richiedere la chiusura temporanea delle scuole. Una richiesta giustificata dalla drammatica situazione sanitaria nei pressi degli edifici scolastici dove stazionano immigrati e, di conseguenza, bisogni fisiologici e possibilità di infezioni. Giovanna, una delle mamme che si erano recate dal Sindaco, con molto rammarico, oltre a descrivermi la triste situazione davanti alle scuole, mi racconta la difficoltà che gli isolani, pure prima dei questa emergenza, hanno anche solo per fare una visita medica. “I dottori vengono tre o quattro ore al giorno, per una visita dobbiamo aspettare dei mesi” afferma la giovane mamma. E se arrivassero delle infezioni o delle malattie? “Se hai i soldi per spostarti in Sicilia bene, altrimenti, sei fregato”. Silenzio. Il mio giro continua, mi dirigo verso il porto e mentre mi avvicino, ci sono sempre meno cittadini lampedusani. Qui le forze dell’ordine sono aumentate, è aumentato anche il numero di giornalisti che aspettano nuove notizie e raccolgono informazioni e i volontari della Croce Rossa Italiana sono impegnati a gestire la difficile situazione che sta colpendo l’isola.



Oltre all’emergenza immigrazione mi viene raccontato che da qualche anno la situazione è cambiata. Prima il Comune aiutava economicamente gli abitanti dell’isola con sussidi per i giovani disoccupati e per le ragazze madri. Da tre anni a questa parte, questo non avviene più. E ancora, mi dicono di come le strade siano rotte e molto più sporche [per le foto del viaggio è possibile contattare Polese all'indirizzo: info@fabiopolese.it, NdR]. Si dice che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. Lampedusa non deve diventare un centro d’accoglienza eterno, non può essere usato come scudo umano per l’Italia. Sia chiaro.



Si sta facendo buio e dopo qualche altra chiacchierata, torno nella parte alta di Lampedusa per andare a cena. E’ sabato sera e quasi tutti i locali sono aperti. La prima impressione che mi viene in mente è che, pure nella difficoltà, c’è voglia di andare avanti. Dopo la cena, faccio un ultimo giro per le vie di Lampedusa, bar e pub notturni sono affollati da giovanissimi pronti a passare la serata come se nulla fosse cambiato da qui ai due mesi precedenti. Ma pure se la vita continua, la normalità non c’è. I riflettori sono accesi, girano soldi ma la situazione è davvero critica. Milleduecento immigrati sono arrivati nelle ventiquattro ore della mia permanenza nell’isola e un terzo barcone proveniente dalla Libia sta sbarcando mentre prendo il mio volo per Palermo. Continuando di questo passo, l’abisso è davvero molto vicino. (Fabio Polese)



http://www.ilsitodiperugia.it/content/358-lampedusa-unisola-nellabisso-seconda-parte

http://www.fabiopolese.it/?p=320


 


martedì 29 marzo 2011

Lampedusa, un'isola nell'abisso.


LAMPEDUSA – La situazione dell’isola italiana di Lampedusa è un qualcosa di irreale. Gli immigrati sono ovunque, come zombi, in gruppi più o meno numerosi, camminano nella città fantasma. Ovunque c’è un via vai continuo di forze dell’ordine che, secondo le fonti ufficiali, sono circa 400 unità divise tra Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza ed Esercito.



Avanti e indietro monitorano le vie della città e le nuove imbarcazioni che potrebbero arrivare da un momento all’altro. Sopra il porto, una piccola collina è invasa di sporcizia e di ripari per la notte fatti con mezzi di fortuna presi qua e là dagli immigrati. Nei negozi, alcuni chiusi e altri aperti, si mescolano gli abitanti lampedusani e i nuovi arrivati. “Noi non siamo razzisti, vogliamo continuare a vivere con dignità nella nostra isola, rivogliamo la nostra tranquillità” mi dice Giusi, una ragazza trentenne del posto che fa eco ai molti altri abitanti con cui ho avuto il piacere di confrontarmi e di parlare.



L’economia dell’isola di Lampedusa si regge - da sempre – attraverso la pesca e il turismo. La pesca, tra alti e bassi, continua. Il turismo, per ovvie ragioni, è al collasso. Proprio come l’isola. Maria, un’amica di Giusi, mi racconta della vita semplice e bella che tutti gli isolani sono abituati a fare,mi dice con un tono secco e ricco di ricordi ormai lontani:“lasciavamo le chiavi delle macchine attaccate al quadro”. Seppur possa sembrare una banalità, credo che il significato di quest’ultima affermazione, possa benissimo sintetizzare il radicale cambiamento della vita dei lampedusani. E perché no, anche quella di tutti gli italiani. L’emergenza immigrazione che soffoca l’isola da ormai due mesi non è più sostenibile come non è più sostenibile la barzelletta della convenzionale accoglienza tout court. La situazione di crisi attuale non lo permette. E se ne dovrebbero accorgere anche i fautori della solidarietà pace and love. A parole è tutto bello e tutto possibile. Ma nella realtà le cose cambiano.



Ormai sono più di cinquemila e cinquecento le persone provenienti dal nord Africa stipate nel centro di accoglienza a cielo aperto dell’isola. Numeri che fanno girare la testa a tutti: dal governatore della regione Sicilia Lombardo al ministro dell’interno Maroni. Le soluzioni che vengono proposte dai nostri governanti però non sono destinate ad eliminare il problema. Un problema che comprende sia i cittadini italiani e sia gli sfortunati avventurieri che, con barche di fortuna, arrivano nelle nostre coste sperando in una vita migliore. L’Europa - Italia compresa - proietta da sempre una speranza di benessere. Un benessere fazioso e non destinato ai più. Da una parte ci viene proposto uno “spiattellamento” in tutto il territorio italiano di tendopoli d’immigrati e dell’altra, un finto aiuto economico per chi decidesse di tornare nella terra d’origine. Certamente non possono essere queste le soluzioni definitive al problema dell’immigrazione. Ma in perfetto stile italiano, si tende ad allungare i tempi della malattia.



Un ragazzo in un bar, vicino al porto di Lampedusa, mentre prendo il mio caffè, mi paragona la situazione della sua isola a quella di una barca che, piegata da una parte, affonderà da un momento all’altro. Un quadro che potrebbe realmente diventare una triste realtà. Nelle strade, nel frattempo, gli immigrati girano senza una meta, occhi persi nel nulla, prendono quello che trovano. Dall’altra parte dell’isola c’è quello che viene chiamato “il cimitero dei barconi”; decine di barche vecchissime ammucchiate a destra e a sinistra che sembrano essere una metafora dell’attuale situazione di crisi. Un’altra ragazza, incontrata nella principale piazza di Lampedusa – che manco a farlo apposta si chiama Piazza Libertà - mi dice che si sente morta dentro, ma, allo stesso tempo, non lascerà mai la sua amata isola. Mentre sento queste parole, capaci da sole di incidere una roccia, mi domando come mai, anche gli immigrati, non provino a lottare per vivere dignitosamente nella propria terra. E magari, anche il perché, l’Europa e tutti gli amanti delle “missioni umanitarie” non si attivino per far crescere economicamente queste terre. Ma forse, tutti questi discorsi non servono a nulla. Quello che serve sono nuovi schiavi pronti al lavoro a basso costo spaccandosi la schiena per poche manciate di euro. (Fabio Polese. 1/Continua)



http://www.ilsitodiperugia.it/content/833-lampedusa-unisola-nellabisso

http://www.fabiopolese.it/?p=312


sabato 26 marzo 2011

Ahi, serva Italia!


L’impegno militare italiano in Libia ottiene l’approvazione delle Camere e il Presidente Napolitano saluta con entusiasmo la notizia: ''E' una convergenza fondamentale che esprime comprensione della necessità che un paese come il nostro non restasse indifferente di fronte alla repressione di un moto di libertà e di giustizia sociale scoppiato anche in Libia''.



Ci risiamo. Dopo quanto avvenuto solo negli ultimi undici anni - nell’ordine - in Serbia, in Afghanistan ed in Iraq, l’Italia si presta di nuovo a partecipare ad una missione sedicente umanitaria, che cela in realtà il mero interesse da parte delle potenze mondialiste di estendere i propri tentacoli. Ha ragione il Presidente della Repubblica, un paese come il nostro non può restare indifferente: non può sottrarsi al ruolo di vassallo a cui è condannato da sessantasei anni rispetto ai suoi alleati. Su questo, al di là delle baruffe da osteria che contraddistinguono la dialettica parlamentare su questioni interne e spesso frivole, la convergenza politica non manca mai. Le Associazioni Culturali Zenit di Roma e Tyr di Perugia hanno ricordato oggi, con l’affissione di striscioni dal contenuto esplicito, come l’unità nazionale tanto auspicata trovi sempre riscontro là dove ci sia da ribadire il ruolo subalterno dell’Italia alle volontà altrui, così da renderla complice di massacri.



 



Associazione Culturale Zenit Roma – http://associazioneculturalezenit.wordpress.com

Associazione Culturale Tyr Perugia – http://www.controventopg.splinder.com






mercoledì 23 marzo 2011

Birmania: a dieci anni dalla fondazione della Comunità Solidarista Popoli, nuova missione a Kawthoolei.


Di Fabio Polese, www.agenziastampaitalia.it



(ASI) Identità, tradizione e solidarietà sono i principi fondamentali che, da ben dieci anni, la Comunità Solidarista Popoli porta avanti nelle proprie azioni di volontariato in Birmania al fianco del popolo Karen e, più recentemente, in Libano, accanto ai profughi palestinesi. Con queste parole inizia il resoconto dell’ultima missione che Popoli ha affrontato nelle zone controllate dai Karen nella Birmania orientale: “Proprio nel mese di marzo del 2001 un piccolo gruppo di volontari entrava a Kawthoolei, “la terra senza peccato”, per dare vita ad un progetto di solidarietà di cui non potevamo prevedere gli esiti precisi. Si trattava di una idea piuttosto inusuale, piena di difficoltà: andare in aiuto di una popolazione che subisce la continua repressione da parte di un governo militare votato alla causa del business mondialista, un regime che basa la propria “legittimazione territoriale” sulla eliminazione fisica dei gruppi etnici insediati da oltre 2.700 anni”. La guerra continua per la quale si batte il popolo Karen viene portata avanti con straordinaria tenacia da ben sessantadue anni contro la giunta militare birmana per ottenere quello che gli era stato promesso - e mai attuato - alla fine del secondo conflitto mondiale: una forma di autonomia e il rispetto delle proprie identità e tradizioni. Il trattato di Panglong, firmato dal governo centrale nel 1949, non fu mai rispettato a causa dell’uccisione del Generale Aung San – allora rappresentate del governo -, ad opera di militari golpisti. I generali oggi al potere, reggono il paese secondo quella che loro chiamano “la via birmana al socialismo”; in realtà, oltre al continuo sostegno che ottengono dalla Repubblica Popolare Cinese, sono in stretti contatti economici con molte multinazionali occidentali e sono pesantemente coinvolti con il ricchissimo business del narcotraffico. Ancora oggi, attraverso il terrore, gli stupri e la schiavitù, i militari birmani intendono destabilizzare la cultura e le tradizioni del Popolo Karen e cercano di dirigere più gente possibile nei campi profughi che si trovano in territorio thailandese e, come si legge nell’ultimo resoconto dell’associazione Popoli, “zelanti organizzazioni “umanitarie” avviano i Karen verso nazioni disposte ad accoglierli, come gli Stati Uniti, l’Australia, il Canada e la Norvegia. Il popolo Karen viene così disperso, diviene mano d’opera a basso costo per le fabbriche ed i fast food occidentali, affronta una durissima vita in ambienti ad esso sconosciuti, lontano dalla propria terra, dalle proprie tradizioni, dalla propria comunità”. Insomma, in poche parole, con un biglietto di sola andata e un permesso d’immigrazione garantita, si tende allo sradicamento e all’annientamento di popoli e culture millenarie. La Comunità Solidarista Popoli d’accordo con il Karen National Union (K.N.U.), al contrario, sostiene che i Karen devono rimanere nei loro territori e lottare per vivere nella loro terra da uomini liberi. Da quel lontano marzo del 2001 la Comunità Solidarista Popoli ha dato continuo e concreto sostegno ai civili e militari Karen, fornendo attrezzi per la lavorazione del legname e la coltivazione agricola; costruendo scuole e cliniche mediche mobili; fornendo continua assistenza sanitaria attraverso visite ed operazioni chirurgiche fatte da medici volontari sul campo e alla preparazione del personale Karen. “La missione appena conclusa – si legge nel sito di Popoli - ci ha permesso di verificare le condizioni di vita dei civili Karen. I nostri medici, Rodolfo e Roberto, assistiti dalle improvvisate “infermiere” Raffaella e Manuela hanno visitato centinaia di pazienti dei villaggi di Oo Kray Khee, Gawlamee, Nya Pe Tha, Paw Bu La Tha, Ko Pu Khee, Kaw Hser, riscontrando un generale e progressivo miglioramento della situazione sanitaria da quando siamo presenti nell’area con un sistema di cliniche fisse e di team mobili. Anche dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare abbiamo trovato condizioni positive: la popolazione appare discretamente nutrita, sebbene in un paio di villaggi fosse stato necessario fornire negli ultimi mesi riso, sale, pasta di peperoncino e pesce essiccato per mantenere accettabile il livello nutrizionale di alcune comunità”. Intanto, l’allarme sicurezza rimane alto per gli uomini del Colonnello della Special Black Force Nerdah Mya dell’esercito di liberazione Karen, per i possibili attacchi dell’esercito della giunta birmana che potrebbero verificarsi in qualsiasi momento. La missione della Comunità Solidarista Popoli di Marzo è finita, nuove missioni verranno effettuate prossimamente e, con la stessa motivazione di dieci anni fa, Popoli continuerà la sua lotta al fianco dei popoli contro il mondialismo.



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2750:birmania-a-dieci-anni-dalla-fondazione-della-comunita-solidarista-popoli-nuova-missione-a-kawthoolei&catid=3:politica-estera&Itemid=35


domenica 20 marzo 2011

L’Italia ha già perso la sua guerra di Libia.




Dopo aver celebrato in sordina il Centocinquantenario dell’Unità, il Governo italiano ha scelto d’aggiungere ai festeggiamenti uno strascico molto particolare: una guerra in Libia. Un conflitto che sa tanto di amarcord: la Libia la conquistò Giolitti nel 1911, la “pacificò” Mussolini nel primo dopoguerra, e fu il principale fronte italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa volta, però, le motivazioni sono molto diverse.



Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: solo uno sprovveduto potrebbe pensare che l’imminente attacco di alcuni paesi della NATO alla Libia sia davvero motivato da preoccupazioni “umanitarie”. Gheddafi, certo, è un dittatore inclemente coi suoi avversari. Ma non è più feroce di molti suoi omologhi dei paesi arabi, alcuni già scalzati dal potere (Ben Alì e Mubarak), altri ancora in sella ed anzi intenti a soffiare sul fuoco della guerra (gli autocrati della Penisola Arabica).



L’asserzione dell’ex vice-ambasciatore libico all’ONU, passato coi ribelli, secondo cui sarebbe in atto un «genocidio», rappresenta un’evidente boutade. È possibile ed anzi probabile che Gheddafi abbia represso le prime manifestazioni contro di lui (come fatto da tutti gli altri governanti arabi), ma l’idea che abbia impiegato bombardamenti aerei (!) per disperdere cortei pacifici è tanto incredibile che quasi sarebbe superflua la smentita dei militari russi (che hanno monitorato gli eventi dai loro satelliti-spia).



Non è stato necessario molto tempo perché dalle proteste pacifiche si passasse all’insurrezione armata, ed a quel punto è divenuto impossibile parlare di “repressione delle manifestazioni”. Anche se i giornalisti occidentali, ancora per alcuni giorni, hanno continuato a chiamare “manifestanti pacifici” gli uomini che stavano prendendo il controllo di città ed intere regioni, e che loro stessi mostravano armati di fucili, artiglieria e carri armati (consegnati da reparti dell’Esercito che hanno defezionato e forse anche da patroni esterni). Da allora Gheddafi ha sicuramente fatto ricorso ad aerei contro i ribelli, ma i pur numerosi giornalisti embedded nelle fila della rivolta non sono riusciti a documentare attacchi sui civili. La stessa storia delle “fosse comuni”, che si pretendeva suffragata da un’unica foto che mostrava quattro o cinque tombe aperte su un riconoscibile cimitero di Tripoli, è stata presto accantonata per la sua scarsa credibilità.



La guerra civile tra i ribelli ed il governo di Tripoli, che prosegue – a quanto ne sappiamo – ben poco feroce, giacché i morti giornalieri si contano sulle dita di una o al massimo due mani, stava volgendo rapidamente a conclusione. Il problema è che a vincere era, agli occhi d’alcuni paesi atlantici, la “parte sbagliata”. La storia – in Krajina, in Kosovo, persino in Iràq – ci ha insegnato che, generalmente, gl’interventi militari esterni fanno più vittime di quelle provocate dai veri o presunti “massacri” che si vorrebbero fermare. In Krajina, ad esempio, i bombardamenti “umanitari” della NATO permisero ai Croati d’espellere un quarto di milione di serbi: una delle più riuscite operazioni di “pulizia etnica” mai praticate in Europa, almeno negli ultimi decenni.



Le motivazioni reali dell’intervento, dunque, sono strategiche e geopolitiche: l’umanitarismo è puro pretesto. In questo sito si può leggere molto sulle reali motivazioni della Francia, degli USA e della Gran Bretagna (vedasi, ad esempio: Intervista a Jacques Borde; Libia: Golpe e Geopolitica di A. Lattanzio; La crisi libica e i suoi sciacalli di S.A. Puttini). Motivazioni, del resto, facilmente immaginabili. Qui ci sofferemo invece sulle scelte prese dal Governo italiano.



Cominciamo dall’inizio. Prima dell’esplodere dell’insurrezione, l’Italia ha un rapporto privilegiato con la Libia. Il nostro paese è innanzi tutto il maggiore socio d’affari della Jamahiriya: primo acquirente delle sue esportazioni e primo fornitore delle sue importazioni. La Libia vende all’Italia quasi il 40% delle sue esportazioni (il secondo maggior acquirente, la Germania, raccoglie il 10%) e riceve dalla nostra nazione il 18,9% delle sue importazioni totali (il secondo maggiore venditore, la Cina, fornisce poco più del 10%). La dipendenza commerciale della Libia dall’Italia è forte, dunque, ma è probabile che il rapporto abbia maggiore valenza strategica per noi che per Tripoli. La Libia possiede infatti le maggiori riserve petrolifere di tutto il continente africano (per giunta petrolio d’ottima qualità), è geograficamente prossimo al nostro paese e dunque si profila naturalmente come fornitore principale, o tra i principali, di risorse energetiche all’Italia. La nostra compagnia statale ENI estrae in Libia il 15% della sua produzione petrolifera totale; tramite il gasdotto Greenstream nel 2010 sono giunti in Italia 9,4 miliardi di metri cubi di gas libico. I contratti dell’ENI in Libia sono validi ancora per 30-40 anni e, malgrado l’atteggiamento italiano che analizzeremo a breve, Tripoli li ha confermati il 17 marzo per bocca del ministro Shukri Ghanem. Attualmente la Libia concede ad imprese italiane tutti gli appalti relativi alla costruzione d’infrastrutture, garantendo così miliardi di commesse che si ripercuotono positivamente sull’occupazione nel nostro paese. Infine la Libia, che grazie alle esportazioni energetiche è un paese relativamente ricco (ha il più elevato reddito pro capite dell’Africa), investe in Italia gran parte dei suoi “petrodollari”: attualmente ha partecipazioni in ENI, FIAT, Unicredit, Finmeccanica ed altre imprese ancora. Un apporto fondamentale di capitali in una congiuntura caratterizzata da carenza di liquidità, dopo la crisi finanziaria del 2008.



Tutto ciò fa della Libia un caso più unico che raro, dal nostro punto di vista, tra i produttori di petrolio nel Mediterraneo e Vicino Oriente. Quasi tutti, infatti, hanno rapporti economici privilegiati con gli USA e con le compagnie energetiche anglosassoni, francesi o asiatiche.



La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome nostro dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra. Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci. Tra essi possiamo citare: il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2); l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3); l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1); la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2); l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).



L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica.



L’atteggiamento italiano, nel corso delle ultime settimane, è stato incerto ed imbarazzante. Inizialmente Berlusconi dichiarava di non voler “disturbare” il colonnello Gheddafi (19 febbraio), mentre il suo ministro Frattini agitava lo spettro di un “emirato islamico a Bengasi” (21 febbraio). Ben presto, però, l’insurrezione sembrava travolgere le autorità della Jamahiriya e l’atteggiamento italiano mutava: Frattini inaugurava la corsa al rialzo delle presunte vittime dello scontro, annunciando 1000 morti (23 febbraio) mentre Human Rights Watch ancora ne conteggiava poche centinaia; il ministro della Difesa La Russa (non si sa in base a quali competenze specifiche) annunciava la sospensione del Trattato di Amicizia italo-libica, sospensione per giunta illegale (27 febbraio). Gheddafi riesce però a ribaltare la situazione e parte alla riconquista del territorio caduto in mano agl’insorti. Man mano che le truppe libiche avanzano, il bellicismo in Italia sembra spegnersi: il ministro Maroni arriva ad invitare gli USA a «darsi una calmata» (6 marzo). Ma la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 17 marzo, che dà il via libera agli attacchi atlantisti sulla Libia, provoca una brusca virata della diplomazia italiana: il nostro governo mette subito a disposizione basi militari ed aerei per bombardare l’ormai ex “amico” e “partner”.



È fin troppo evidente come il Governo italiano abbia, in questa vicenda, manifestato un atteggiamento poco chiaro e molto indeciso; semmai, s’è palesata una spiccata propensione ad ondeggiare a seconda degli eventi, cercando di volta in volta di schierarsi col probabile vincitore. Come già in altre occasioni recenti di politica estera, il Capo del Governo è parso assente, lasciando che suoi ministri dettassero o quanto meno comunicassero alla nazione la linea dell’Italia. L’ambivalenza ha scontentato sia il governo libico, che s’aspettava una posizione amichevole da parte di Roma, sia i ribelli cirenaici, che hanno ricevuto sostegno concreto dalla Francia e dalla Gran Bretagna ma non certo dall’Italia. Infine, il Trattato di Amicizia, siglato appena due anni fa, è stato stracciato e Berlusconi si prepara, seppur sotto l’égida dell’ONU, a scendere in guerra contro la Libia.



Qualsiasi sarà l’esito dello scontro, l’Italia ha già perduto la sua campagna di Libia. I nostri governanti, memori della peggiore specialità nazionale, hanno celebrato il Centocinquantenario dell’Unità con un plateale voltafaccia ai danni della Libia: una riedizione tragicomica del dramma dell’8 settembre 1943. Questa volta non sarà l’Italia stessa, ma l’ex “amica” Libia, ad essere consegnata ad una guerra civile lunga e dolorosa, che senza ingerenze esterne si sarebbe conclusa entro pochi giorni.



Ma non si sta perdendo solo la faccia e l’onore. Le forniture petrolifere e le commesse, comunque finirà lo scontro, molto probabilmente passeranno dalle mani italiane a quelle d’altri paesi: se non tutte, in buona parte. Se vincerà Gheddafi finiranno ai Cinesi o agl’Indiani; se vinceranno gl’insorti ai Francesi ed ai Britannici; in caso di stallo e guerra civile permanente in Libia resterà poco da raccogliere. Se non ondate d’immigrati ed influssi destabilizzanti per tutta la regione.



 



* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’IsAG, è autore de La sfida totale (Roma 2010). È co-autore, assieme a Pietro Longo, d’un libro sulle rivolte arabe di prossima uscita.



http://www.eurasia-rivista.org/8778/litalia-ha-gia-perso-la-sua-guerra-di-libia


Amicici.


Dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione Italia - Libia (2009): "Rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica»; diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2); impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3); astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1); rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2); l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).


sabato 19 marzo 2011

Nella terra di nessuno.


Ci ho messo un po’ a scrivere questa introduzione, o come la vogliamo chiamare. Questo “qualcosa” che dia l’idea di quel che si troverà nel libro. Soprattutto per scaramanzia ho voluto aspettare di averlo tra le mani, “in carta e inchiostro”, quasi non mi pareva vero. Dopo mesi di lavoro e una lunga attesa il 15 marzo il libro “Quando lo Stato uccide” è arrivato in libreria. Si tratta di un libro-inchiesta sugli abusi commessi nel nostro Paese da chi veste la divisa. Ma non si tratta di un semplice elenco di misfatti, come nemmeno vuol essere una specie di dossier “a senso unico” sui crimini commessi da poliziotti o carabinieri. Così abbiamo voluto (il mio coautore, Tommaso Della Longa, ed io) approfondire la questione delineando prima di tutto il quadro giuridico, italiano e anche europeo, nel quale operano oggigiorno le forze dell’ordine, le leggi che permettono l’uso delle armi a chi ci deve proteggere. Le forze dell’ordine, nel nostro Paese (e in Europa), agiscono all’interno di un quadro legislativo “a maglie larghe” che, ieri per gli anni di piombo, oggi per il cosiddetto terrorismo internazionale, assegna un potere discrezionale che purtroppo, in alcuni casi, apre la strada a eccessi pericolosi. Poi li abbiamo intervistati, poliziotti e carabinieri. Non sarebbe stato serio né corretto fare un’inchiesta sugli abusi commessi dalle forze dell’ordine senza interpellare chi veste la divisa. E poi abbiamo cercato di mettere uno dietro l’altro i casi dei morti ammazzati degli ulti 10 anni. Ne abbiamo contati quindici, esclusi i quattro casi più “famosi” di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Gabriele Sandri e Stefano Cucchi, ai quali abbiamo dedicato un capitolo ognuno.

Chi può usare un’arma o comunque dispone di un potere coercitivo concessogli da un ruolo istituzionale, dovrebbe saper essere sempre nel giusto, irreprensibile, incorruttibile, equilibrato. Purtroppo - siamo tutti esseri umani, è vero - a volte non succede. Ci può stare: non è facile stabilire quel che giusto e quel che non lo è. Ma c’è una vasta zona grigia nella quale la legittimità dell’uso delle armi o di strumenti e pratiche coercitive sfuma nell’eccesso, la legittima difesa nell’omicidio. Una terra di nessuno legale e morale nella quale in certi casi si può insinuare il tentativo di insabbiamento. In cui ha la meglio la tendenza a permettere allo “spirito di corpo” di prevaricare la giustizia. A volte non è nemmeno necessario cercare di insabbiare casi scabrosi, basta un “non luogo a procedere” o un’archiviazione. In questi casi la giustizia ha la g minuscola, soprattutto perché va contro la Costituzione, per la quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Per troppi magistrati, infatti, chi veste una divisa è “più uguale degli altri”.



Di Alessia Lai


venerdì 18 marzo 2011

Giulietto Chiesa: “L’occidente non può esportare quello che non ha più”



(ASI) Agenzia Stampa Italia ha intervistato Giulietto Chiesa, stimato saggista e giornalista indipendente. I temi affrontati sono stati il Medio Oriente e la libertà d’informazione.



Ci sono corsi e ricorsi storici e la storia ci insegna che certi eventi sono epocali e che possono ripetersi. Nel 2001 ci fu quello che sappiamo che anticipò la crisi finanziaria che era già nei fatti in stato di maturazione, anche se non era ancora esplosa. Secondo lei, i fatti che stanno accadendo nel nord Africa a che cosa preludono?



Sono sintomi generali di un disordine non programmato che deriva dall’inizio della fine del dominio imperiale statunitense. Una parte dell’umanità avverte che sta venendo meno la funzione di dominio. E comincia a cercare proprie risposte ai drammatici problemi che vive. L’età media dei paesi in rivolta è vicina ai 30 anni. Una nuova generazione – la generazione non di Twitter o di Facebook, ma di Al Jazeera, che legge gli avvenimenti mondiali  su una tv in arabo.



Siamo in una nuova fase sperimentale di esportare la democrazia? Se fosse così, cosa ci attende dietro l’angolo?



L’esportazione della democrazia è già finita. L’Occidente non  può più esportare quello che non ha più.



Gli interessi economici sono tantissimi. Nei territori dove sono partite le rivolte si concentrano affari geopoliticamente enormi.  Quali effetti potrebbero avere per Stati Uniti, Israele e Italia?



La partita non sarà cortissima. Quei movimenti non hanno ancora una leadership, una visione alternativa. Vogliono consumare come fa l’Occidente. Ci vorrà del tempo perchè si strutturino e si diano degli obiettivi politici. Nel frattempo Stati Uniti e Israele (l’Italia non conta niente) cercheranno di volgere le situazioni a loro vantaggio, comprando i nuovi gruppi dirigenti che si formeranno. Ma  non sarà la ripetizione delle partite precedenti. Questa volta gli USA non sono più così forti. E non hanno molto da proporre. E’ possibile allora che puntino a un caos programmato. In fondo a questa parabola c’è infatti una guerra di grandi dimensioni. Chi sa come stanno le cose veramente, è cioè che gli USA non sono più in grado di ridurre il loro debito, si dovrebbe rendere conto che per Washington la soluzione più logica, ed effettiva, è organizzare la guerra.



In Libia i combattimenti continuano, sono in corso scontri per il controllo di Ras Lanuf, porto petrolifero del golfo della Sirte. L’economia italiana è strettamente collegata a quella della Libia. Come sono cambiati i rapporti tra i due stati?



Se Gheddafi riconquista Bengasi, i rapporti Italia-Libia si normalizzeranno dopo una certa, non lunga, fase di freddezza. Sempre che Francia, Inghilterra e USA non decidano di rompere gl’indugi: o fermando Gheddafi prima che vinca, o punendo Gheddafi dopo che ha vinto.



Crede che le notizie che ci danno i mass media siano attendibili?



Le notizie dei mass media sono sempre inattendibili. Salvo rare eccezioni  che confermano la regola. Noi viviamo nella società dello spettacolo e della pubblicità. Lo spettacolo e fiction, la pubblicità è banalmente menzogna allo stato puro.



Per concludere, secondo lei, è in pericolo la libertà di stampa in Italia e nel resto del mondo?



In Italia, più che nel resto del mondo, la libertà di stampa è divenuta un concetto assai relativo. Si può ancora scrivere quello che si vuole, ma  non conta quasi niente, perchè 40 milioni di italiani non comprano mai un libro nella loro vita , né leggono mai un giornale. Vedono solo la televisione, che è appunto intrattenimento e pubblicità. Per questa ragione la tv è il luogo del dominio più sfacciato. E’ la vera sede del potere. E non è affatto vero che Anno Zero sia diverso e all’opposizione. In un certo senso lo è; in altri è perfettamente funzionale al sistema del dominio. E’ anch’esso un format che segue gli stessi criteri spettacolari di Porta a Porta. In ogni caso le poche cose di “resistenza democratica in tv” sono relegate ai margini del palinsesto, a tarda ora. Sono quindi dirette a un pubblico chic. Non contano per il grande pubblico, che non le vede.



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2693:giulietto-chiesa-loccidente-non-puo-esportare-quello-che-non-ha-piu&catid=3:politica-estera&Itemid=35


giovedì 17 marzo 2011

Il 17 marzo, SAN PATRIZIO.




(ASI) Patrizio d'Irlanda, nato con il nome di Maewyin Succat, scelse successivamente il nome latino di Patrizio (Bannaventa Berniae, 385 – Saul, 17 marzo 461) fu un vescovo e missionario irlandese di origini scozzesi. Assieme a San Columba di Iona ed a Santa Brigida d'Irlanda è il patrono dell'Irlanda. Era figlio di Calphurnius e Conchessa, appartenenti ad una famiglia nobile romana. Viene festeggiato da tutta la comunità irlandese del mondo il 17 Marzo data della sua morte.



LA LEGGENDA



Il 17 marzo, in Irlanda, si celebra San Patrizio. Numerosissime sono le leggende che narrano la storia di San Patrizio, vediamo di riportarne alcune riuscendo a separare realtà e finzione. San Patrizio, scozzese di origini romane, conosceva la lingua e la cultura irlandese grazie al periodo di schiavitù che aveva passato a Slemish Mountain dopo essere stato rapito da pirati irlandesi ed essere stato venduto. La leggenda narra che dopo la sua fuga dall’Irlanda, aveva deciso di andare a trovare suo zio a Tours in Francia e per attraversare il fiume Loira usò il suo “magico” mantello. Una volta arrivato dall’altra parte della sponda, lo appese su un cespuglio di biancospino per farlo asciugare e, nonostante fosse pieno inverno, la pianta iniziò a fiorire. E’ proprio da allora che il biancospino, fiorisce durante la stagione invernale. In seguito alla Francia, San Patrizio si spostò in Italia dove, dopo aver fatto gli studi necessari, diventò Vescovo e fu inviato in Irlanda per cercare di evangelizzare la verde isola. Nonostante in un primo momento l’idea di tornare nella terra dove era stato schiavo non lo entusiasmava, San Patrizio amava la terra d’Irlanda e provava una certa curiosità per le religioni celtiche tanto che nella sua opera di evangelizzazione non tentò mai di far dimenticare le credenze e le tradizioni dei Celti. Un esempio concretò fu l’aggiunta del Sole – ancestrale simbolo celtico - alla croce cristiana. San Patrizio ci viene descritto con un carattere molto forte e a volte scontroso; si narra che una volta un uomo gli negò il suo campo per far pascolare i suoi buoi e lui lo maledisse e profetizzò che non sarebbe più cresciuto nulla. Lo stesso giorno il mare inondò il campo rendendolo arido e inutilizzabile. Un’altra storica leggenda è quella che viene ricordata come “la cacciata dei serpenti”. Si narra che San Patrizio cacciò dall’Irlanda tutti i serpenti dopo aver passato quaranta giorni e quaranta notti sul monte Croagh Padraig. Allo scoccare del quarantunesimo giorno, si dice che il patrono irlandese, abbia scagliato una grossa campana su una pendice del monte scacciando così tutti i serpenti. Realtà o fantasia? Sta di fatto che in Irlanda non c’è l’ombra di nessuna specie di serpente. Il trifoglio, simbolo nazionale della verde isola irlandese, venne usato da San Patrizio per spiegare ai Celti l’immagine della trinità. Un’altra leggenda misteriosa dice che l'Irlanda tornerà unità quando la domenica della palme cadrà il giorno di San Patrizio, unendo palma e trifoglio.



I FESTEGGIAMENTI



Tornando ai giorni nostri, domani in tutte le città irlandesi la ricorrenza del patrono nazionale verrà festeggiata con canti, parate, processioni e immancabili serate ai tradizionali pub. Anche quest’anno ci sarà il consueto appuntamento con il “San Patrick’s Festival”, a questo indirizzo
www.stpatricksfestival.ie, troverete tutti gli appuntamenti che si terranno dal 16 marzo al 20 marzo. Tra la tipica musica irlandese, litri di Guinness e wiskhey, passeranno la notte tantissimi giovani e meno giovani irlandesi e molti turisti provenienti da tutto il mondo incuriositi dall’evento. Anche in Italia, negli ultimi anni, complici i numerosi pub in stile irish, aperti in tutte le città italiane, questa data viene festeggiata con serate ed eventi.




LA GUINNESS


Il 24 Settembre del 1759 Arthur Guinness, appena trentaquattrenne, fondò al St. James's Gate di Dublino, la fabbrica della Guinness. Dal colore scuro, quasi nero, ma in realtà di un colore rosso rubino, la Guinness è la più stimata birra stout del mondo. La Guinness non è soltanto una semplice birra ma ormai, è diventata simbolo e mito, una leggenda che dal sapore irlandese ha attraversato tutti gli oceani fino ad arrivare a essere venduta in ben 150 paesi e fabbricata in 50. Ad accompagnare le serate irlandesi nei Pub, insieme alla musica tradizionale irish folk, la vera protagonista resta la Guinness spillata con quella sua cremosa schiuma bianca che lascia il suo segno distintivo nel bicchiere anche quando è finita. Il 24 Settembre del 2009, proprio nella data dei 250 anni dalla nascita, a Dublino, nella Guinness Store House, alle ore 17.59 si sono celebrati i festeggiamenti, iniziati con un immancabile brindisi per Arthur.



 



NON TUTTI SANNO CHE…



L'arpa simbolo dello stato d'Irlanda e l'arpa simbolo della Guinness sono identiche ma orientate in direzioni opposte. Il figlio di Arthur Guinness - non a caso - fu un attivista nella campagna di indipendenza irlandese. In Irlanda, la stout, è a disposizione dei pazienti che seguono cure per lo stomaco e l'intestino e anche per i donatori di sangue, in quanto la stout ha un alto contenuto di ferro. In Irlanda si chiama whiskey e non whisky per differenziarlo appositamente da quello scozzese. La leggenda narra che fu proprio San Patrizio nel quinto secolo a riportare dall’Egitto uno strano macchinario che era servito - fino a quel momento – a distillare profumi e che gli irlandesi lo convertirono immediatamente alla distillazione di orzo e acqua.





Non ci resta che alzare in alto le pinte per brindare ad una terra piena di miti, leggende e tradizioni… Slàinte a tutti!



Di Fabio Polese,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2665:il-17-marzo-in-irlanda-si-celebra-san-patrizio&catid=15:estere&Itemid=40


“Processi perversi”: l’Italia e il caso di Carlo Parlanti.


Crimini e criminali (veri e/o presunti)



Il libro (e il raffronto con l’omicidio Kercher) nell’opinione di Fabio Polese


 


Ho conosciuto il caso di Carlo Parlanti in concomitanza con quello della studentessa Meredith Kercher assassinata a Perugia. Non c’è bisogno che parli del delitto perugino, i media hanno già costruito il caso come se fosse un tristissimo Truman show dal quale non è più possibile uscire. Quello che però mi ha incuriosito sin dall’inizio è stato l’effetto che l’arresto della studentessa americana ha provocato nell’opinione pubblica, nei media e nei politici made in Usa. Dopo la sentenza del Tribunale di Perugia contro Amanda Knox – giudicata colpevole dell’omicidio Kercher – il primo cittadino della città di Seattle – gemellata con la città di Perugia -, Mike McGinn, aveva deciso di sospendere l’iniziativa di intitolare un parco di Seattle proprio a Perugia. Quasi a significare che, la signorina Knox, sia la vittima scelta dalla magistratura italiana. La decisione del Sindaco della cittadina statunitense aveva fatto “innervosire” anche il primo cittadino di Perugia che gli aveva scritto una lettera dove sottolineava: “La vicenda di Amanda Knox è una vicenda esclusivamente giudiziaria e l’amministrazione della giustizia in Italia compete allo Stato, non alle città: le relazioni tra le comunità di Perugia e Seattle non c’entrano nulla, nè devono entrarci in alcun modo”.  Ancora prima di questo, subito dopo la sentenza, si scatenarono commenti ed articoli in blog e giornali americani dove l’Italia veniva messa in dubbio sul piano della giustizia. “Amanda is America” intitolava un articolo il Newser dove si leggeva: “Fino a non molto tempo fa Amanda Knox, che è stata condannata l’altro giorno, in Italia, per aver assassinato la sua coinquilina, Meredith Kercher, era chiamata Foxy Knoxy. Adesso è Amanda la martire, una Giovanna d’Arco dei tabloid internazionali , un personaggio estremamente simpatico al centro di un mostruoso aborto della giustizia. (…) Non si tratta di chi ha ucciso Meredith Kercher. A causa di errori nelle indagini, cattiva gestione delle prove, e ogni sorta di pregiudizi, non ci sarà mai probabilmente una ragionevole certezza di colpevolezza – o di innocenza -. Quindi, la storia è basata, in parte, su errori e pregiudizi”.  Secondo la senatrice Usa Maria Cantwell il processo di Perugia è arrivato alla condanna della ragazza nonostante una evidente “mancanza di prove” e ha rilevato “una serie di difetti nel sistema di giustizia italiano”. Insomma, in poche parole, sembrerebbe che in Italia ci sia un anti-americanismo sfrenato. O, molto più semplicemente che, negli Stati Uniti, ci sia una maggiore propensione a difendere ad ogni costo un loro connazionale. Al contrario, lo Stato Italiano e i media nostrani, non hanno speso molto tempo a parlare di Carlo Parlanti, detenuto nel carcere californiano di Avenal, nella contea di King dal 5 luglio del 2004. Carlo Parlanti è un presunto carnefice, accusato di stupro nei confronti di una cittadina statunitense, ed è tutt’ora prigioniero nonostante che la testimone accusatrice sia stata dichiarata psichicamente instabile dai dottori. “Stupro? Processi perversi. – Il caso di Carlo Parlanti” è il titolo di un libro-denuncia scaturito da sei mesi di studio di tre stimati criminologi dell’ambiente universitario romano – Vincenzo Maria Mastronardi, Walter Mastroeni e Ascanio Trojani -, che smentisce tutte le accuse ed arriva ad affermare la colpevolezza criminale della donna. Il libro è un autorevole lavoro che mette in mostra i perversi meccanismi del caso giudiziario analizzando l’integrità del procedimento processuale;  esso accusa la polizia e la procura di aver utilizzato evidenze contraffatte e di aver occultato fatti a discarico e incolpa numerosi medici – non solo californiani – di aver emesso certificazioni false ed in contrasto con le foto della polizia ed altre certificazioni. “Come è possibile che si continui a tacere?” Queste sono state le parole di Katia Anedda, responsabile del sito www.carloparlanti.it e dell’Associazione Italiana Prigionieri del Silenzio, quando, lo scorso dicembre, l’ho incontrata a Perugia per conoscere e capire meglio il caso. In quell’incontro ho avuto pure l’occasione di parlare telefonicamente con Carlo Parlanti; con una voce calma e tranquilla mi spiegava – tra una “simpatica” registrazione del carcere americano che mi ricordava che stavo parlando con un pericoloso delinquente – la sua situazione e mi invitava a leggere il libro appena uscito. Invito che rivolgo anche a voi perché a volte, il presunto carnefice, può essere una reale vittima.



www.ilsitodiperugia.it/content/623-processi-perversi-litalia-e-il-caso-di-carlo-parlanti



http://www.fabiopolese.it/?p=282


lunedì 14 marzo 2011

In memoria di Niccolò Giani.


“Non basta essere convinti della bellezza di un’Idea e della giustezza della sua causa se in essa non ci si compenetra al punto che questa convinzione diventi forza agente per la realizzazione di tali principi”. Queste parole racchiudono l’animo ferreo di un fascista senza macchie come Niccolò Giani. Secondo Giani se venisse meno il pensiero o l’azione, non ci sarebbe più mistica, ma, di volta in volta, misticismo religioso o ascetismo o pragmatismo politico. Quest’anno ricorre il settantesimo anno dalla morte dell’ideatore della Scuola di Mistica Fascista, appunto, Niccolò Giani. Egli fu un audace giornalista, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Milano e contestualmente ai GUF, i gruppi universitari fascisti, in seguito divenne professore di storia e dottrina del fascismo all’università di Pavia. Come giornalista collaborò con varie testate tra cui “Tempo” di Mussolini, con la rivista “Dottrina Fascista” (organo ufficiale della scuola di mistica fascista) e con il quotidiano “Cronaca Prealpina”, di cui più tardi divenne direttore. Nel 1930 fondò a Milano la Scuola di Mistica fascista “Sandro Italico Mussolini”. La Scuola nacque per volontà dello stesso Giani e di un gruppo di giovani studenti del Guf di Milano e fu inaugurata con un articolo intitolato “Libro e Moschetto” nel quale Giani volle dimostrare che il Fascismo è pensiero ed azione. Concetti complementari, ove l’uno non può esistere senza l’altro e che, a differenza delle dottrine razionalistiche del tempo, quali che esse fossero: liberalismo, socialismo, democrazia o comunismo, “la civiltà spirituale del fascismo esprimeva nella mistica la concezione volontaristica ed eroica” e per tal motivo si contrapponeva ad esse rappresentando un elemento rigeneratore per i popoli. Niccolò Giani, coerentemente con quanto predicava, partecipò nel 1935-36 come volontario alla guerra d’Etiopia. “Noi oggi partiamo orgogliosi di poter servire ancora in armi la Causa della Rivoluzione, fierissimi che il Capo ci abbia concesso l’alto privilegio di essere le disperate pattuglie di punta di quell’Idea romana e latina, mediterranea e italiana che è rinata per virtù dei Fasci, ambiziosi solo di essere i legionari di quell’Impero che fu della Roma dei Cesari e che sarà della Roma di Mussolini. Impero: ecco la parola che per gli avi fu realtà, che i padri nostri sognarono, anelanti e illusi, e che noi rifaremo realtà. Costi quel che costi.. Ormai il dado è tratto! Dietro a noi sta il buio, l’Italietta degenere, la Cenerentola: solo davanti è l’Italia che sognammo da bimbi, che volemmo da ragazzi, che da uomini sapremo fare. Perciò non sappiamo alternative, non conosciamo dubbi: abbiamo tirato e tireremo dritto. In Africa andiamo a regolare dei conti vecchi e nuovi”. Allo scoppio della seconda guerra mondiale seguì il suo destino e partì volontario. La notte del 14 marzo del 1941 il tenente Giani era in forza all’undicesimo reggimento alpini e si trovava sul monte albanese Mali Scindeli al comando di una pattuglia. Nel tentativo di conquistare la punta nord del monte, dove era situato l’avamposto nemico, venne raggiunto da una raffica di mitragliatrice che gli tolse la vita. E’ così che si spense una delle menti più fervide del secolo scorso: lontano dai cortigiani di palazzo, dai ministeri affollati, consegnandosi ai posteri come un eroe, un esempio di assoluta limpidezza armato di una fede incrollabile che risiedeva nell’Idea. Sei mesi dopo la sua morte, il ministro della guerra gli conferì alla memoria la medaglia d’oro al valor militare: “Volontariamente, come aveva fatto altre volte, assumeva il comando di una forte pattuglia ardita, alla quale era stato affidato il compimento di una rischiosa impresa. Affrontato da forze superiori, con grande ardimento le assaltava a bombe a mano, facendo prigioniero un ufficiale. Accerchiato, disponeva con calma e superba decisione gli uomini alla resistenza. Rimasto privo di munizioni, si lanciava alla testa dei pochi superstiti, alla baionetta, per svincolarsi. Mentre in piedi lanciava l’ultima bomba a mano ed incitava gli arditi col suo eroico esempio, al grido di: «Avanti Bolzano! Viva l’Italia», veniva mortalmente ferito. Magnifico esempio di dedizione al dovere, di altissimo valore e di amor di Patria”. Niccolò Giani amava definire il Fascismo una mistica che agisce, tutto doveva girare intorno al concetto di pensiero ed azione e intorno a questo adagio doveva formarsi il modello del perfetto fascista e italiano. Mezzasoma descrisse con queste parole le personalità e i sogni di questi mistici del fascismo, durante gli ultimi tragici giorni della repubblica sociale: “Lo sdegno per l’aberrazione in cui sono caduti altri italiani indegni di questo nome, i quali hanno oltraggiato il sacrificio dei morti e il diritto dei vivi, hanno impedito che divenisse realtà il luminoso sogno di Guido Pallotta, di Berto Ricci, di tutti gli allievi della Scuola di Mistica caduti, come Giani, per la vera libertà della Patria, di tutti coloro che sono tornati coi segni del valore e l’insuperabile gioia del dovere compiuto fino all’ultimo, di tutti i soldati rimasti sui campi di battaglia di Russia, di Grecia, d’Africa e di Spagna, con una visione di grandezza e di potenza, di gloria e di vittoria, suggestiva e splendente come quella che Niccolò Giani aveva auspicato per il suo Romolo Vittorio Africano e ch’egli stesso serrò nelle sue pupille, distaccandosi eroicamente dalla vita terrena”. Niccolò Giani, attraverso il lavoro pedagogico della scuola di mistica fascista, volle infondere nei giovani due parole d’ordine: fedeltà e intransigenza. La fedeltà perché piuttosto che tradire è meglio morire e l’intransigenza, cioè il dovere di chi fermamente si oppone alla logica dei compromessi e degli intrighi politici di qualsiasi genere. Per questo motivo si autodefinì un disperato del fascismo, reclamando per se e per i suoi “il diritto a combattere senza tregua e in prima linea contro i nemici di fuori e di dentro, contro gli attentatori della nostra integrità territoriale e spirituale”. Niccolò Giani fu tra i primi ad arruolarsi volontario per la guerra e come lui quasi tutti i dirigenti e gli allievi della Scuola di Mistica fascista combatterono sui vari fronti in cui il nostro esercito era impegnato, laddove, dopo che egli diede l’esempio anche nel sacrificio, molti altri lo imitarono. La Scuola di Mistica fascista vanta  tra le sue fila quattordici caduti e cinque medaglie d’oro, da Niccolò Giani a Guido Pallotta. Oggi del camerata Niccolò Giani ci rimane l’esempio di un uomo vissuto coerentemente e che ha saputo insegnarci a disprezzare la borghesia intesa come categoria dello spirito e non appartenenza di classe, il disprezzo della vita comoda, l’entusiasmo, l’attivismo, il coraggio, la gioia di essere fascisti che voleva e vuole dire – tra gli altri – ribellismo, anticonformismo, indignazione verso l’opportunismo, la corruzione, le ambiguità. E’ per questo che abbiamo voluto rendere omaggio a Niccolò Giani, senza ombra di dubbio un esempio a cui guardare per rimanere in piedi in un mondo di rovine.

 


http://associazioneculturalezenit.wordpress.com/


COSA STA ACCADENDO IN LIBIA?






Incontro pubblico venerdì 1 aprile alle ore 17.00 a Perugia



In Libia è scoppiata la guerra civile. Questo i media embedded di regime ci vanno ripetendo da circa un mese, peccato che la realtà sia leggermente difforme. Nella nostra ex colonia sta infatti andando in onda l’ennesimo tentativo di compiere una nuova rivoluzione colorata da parte della lobbycrazia statunitense, il copione è il solito: rovesciare il despota di turno per esportare la democrazie ed importare, proposito principale e quindi non sbandierato ai quattro venti, il petrolio e le altre fonti energetiche disponibili. A differenza di quanto avvenuto in precedenza in altri Paesi, questa volta l’Italia rischia di pagare un prezzo altissimo visto che la nostra economia è strettamente legata a quella di Tripoli e che importiamo dalla Libia circa un quarto del nostro fabbisogno energetico. Incuranti di questi aspetti non certo secondari i nostri politici si sono subito accodati al carro politicamente corretto dei radical-chic arrivando a denunciare il trattato di amicizia firmato nel 2008 con grande pubblicità da questa stessa maggioranza. Per analizzare cosa sta accadendo in Libia Agenzia Stampa Italia ha programmato una tavola rotonda per venerdì 1 aprile alle ore 17.00 presso la “Sala Falcone e Borsellino” (ex Sala della Partecipazione), Palazzo della Provincia in Piazza Italia a Perugia. All’incontro parteciperanno Ettore Bertolini, Direttore della testata giornalistica Agenzia Stampa Italia, Fabrizio Di Ernesto, giornalista e autore del libro “Petrolio, Cammelli e Finanza – Cent’anni di storia e affari tra Italia e Libia” edito da Fuoco Edizioni e Fabio Polese redattore di Agenzia Stampa Italia.



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Unità d'Italia. Intervista alla Prof.ssa Angela Pellicciari sulle celebrazioni.


(ASI) Il prossimo 17 marzo in tutta la penisola ci si appresta a celebrare il centocinquantenario dalla proclamazione ufficiale del Regno d’Italia. Le istituzioni e i media si stanno mobilitando già da mesi per rendere all’evento un’ampia risonanza tra i cittadini al fine di trasmetterne un profilo storico privo di macchie, in perfetta sintonia con la retorica patriottica del Risorgimento. Pochi e discreti gli spazi concessi alle voci discordanti. Agenzia Stampa Italia ha voluto approfondire una lettura non conforme di questo evento storico proponendo un’intervista alla Professoressa Angela Pellicciari, esimia ricercatrice che ha dato alla luce diversi lavori sul tema, uno dei quali – Risorgimento da riscrivere (ed. Ares, 1998) – venne pubblicamente consigliato dal premier Berlusconi durante una conferenza ad Atreju (festa dei giovani del PDL). 



Professoressa, è indubbio che l’unità di un popolo, per poter essere autenticamente ritenuta tale, debba fondarsi su di un comune bagaglio culturale. Nel caso degli italiani, il bagaglio in questione è la fede cattolica. Tuttavia, lei sostiene che i fautori del Risorgimento avviarono un processo volto alla soppressione dell’identità religiosa degli italiani…



R: Questo non lo sostengo io, bensì tutti i documenti sia di parte cattolica – compreso il Papa – che di stampa liberale. Il Regno di Sardegna, in base ad una supposta superiorità morale di cui si riteneva depositario, si fece artefice dell’unità politica della nazione italiana. Questa superiorità consisteva nell’essere fautore di una monarchia costituzionale in uno Stato liberale. Ebbene, l’Articolo 1 dello Statuto Albertino dichiarava la religione cattolica come l’unica religione di Stato, tuttavia il nuovo Regno procedette ad una soppressione di tutti gli ordini religiosi della chiesa di Stato: è così che 57.000 persone (tanti gli esponenti dei vari ordini) vennero derubate di tutto, vedendosi costrette a non poter più svolgere i compiti a favore della popolazione – in particolare di quella povera – per cui erano stati costituiti i loro ordini. Quando, qualche anno più tardi, il governo liberale sopprimerà anche tutte le 24.000 opere pie in cui operavano italiani laici e che erano costituite anch’esse per svolgere mansioni finalizzate al bene, e quando il Piemonte estenderà a tutta Italia la sua legislazione e la sua tassazione altissima per i tempi, si avrà come conseguenza inevitabile, in nome del Risorgimento e per la prima volta nella più che bimillenaria storia italiana, un’immigrazione di massa perché la popolazione sarà messa sul lastrico da coloro che a parole volevano toglierla dall’oppressione pontificia.



Ritiene dunque che lo Statuto Albertino, quale garanzia di tutela dei diritti di tutti i cittadini italiani, sia stato calpestato dall’allora neonato governo italiano?



R: Molti articoli dello Statuto Albertino vennero infranti: a cominciare dall’articolo 28 che afferma la tutela di libertà stampa; la stampa sarà sì libera, ma solo quella liberale, cioè quella dell’1% della popolazione. Cavour, per citare un esempio indicativo, in Piemonte non permetteva venissero stampate le Encicliche del Papa, non ne consentiva dunque la divulgazione, tanto era libera la stampa. Infranto anche l’articolo che garantiva la proprietà privata, in qualsiasi forma si presentasse: la proprietà della Chiesa è stata smantellata. Proprietà della Chiesa che consisteva in ciò che Papa Gregorio Magno definì i beni dei poveri, ossia le donazioni che gli italiani nel corso di 1500 secoli di storia le offrirono. Questa era dunque una proprietà collettiva, della quale si è appropriato indebitamente l’1% della popolazione liberale. Quindi, questo processo di unificazione è convenuto solo ad un’infinitesimale parte di popolazione che ha rapinato i beni della Chiesa, cioè della collettività, in nome della libertà.



Eppure, in molti oggi ritengono che quello dei risorgimentali non fosse anticattolicesimo, piuttosto un attacco al Clero, ritenuto invadente in ambito secolare e dunque un ostacolo ai disegni d’unità. Come giudica questa teoria?



R: C’è una circolare della massoneria, redatta nel 1888 dal Grande Oriente, che motiva ai “fratelli” la necessità di non sembrare (e non di non essere) anticattolici bensì solo anticlericali. Sono i fatti a dire che il loro nemico non fosse il clero, poiché il Risorgimento perseguiva un progetto volto a rifare gli italiani. Non a caso Massimo D’Azeglio diceva “l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani”, nei termini che riteneva necessario fare gli italiani diversi da quelli che erano, perché si credeva che gli italiani, in quanto cattolici, fossero arretrati, oscurantisti, bigotti. I liberali pensavano nella più totale superficialità di poter privare gli italiani della loro ubbidienza cattolica rifacendoli nuovi. Il risultato fu che hanno, sì, fatto nuova la popolazione, nel senso che l’hanno a tal punto immiserita da doverla costringere ad emigrare in massa.



Condivide l’idea secondo la quale Pio IX e le alte cariche ecclesiastiche fossero contrari ad un’unificazione dell’Italia?



R: Assolutamente, ciò non è vero. A metà dell’800, tutta la popolazione italiana, compreso il Papa, era favorevole a trovare una forma di unificazione federale italiana, che chiamarono la “lega”. Se non che Carlo Alberto volle “fare da sé” contro tutti gli altri, contro gli italiani. E’ evidente che alla luce di questa sua volontà gli altri non poterono aderire a questo disegno.



Intravede un connubio di intenzioni tra protestantesimo e Risorgimento italiano?



R: Il membro della Chiesa Valdese e storico Giorgio Spini ha documentato come intorno all’Italia cattolica fosse sorta una rete protestante mondiale che concorreva con collette, con aiuti di tutti i tipi perché anche in Italia si potesse eliminare il cattolicesimo. Possiamo quindi sostenere che si mobilitò una vera e propria “internazionale protestante” contro la cattolica Italia. D’altronde, i Savoia fecero la stessa politica contro i cattolici che i sovrani protestanti fecero secoli prima, quella di Lutero, Calvino, Enrico VIII: togliere alla Chiesa la personalità giuridica, sopprimendo gli ordini religiosi. La differenza sta nel fatto che loro lo fecero apertamente per odio dichiarato contro la chiesa di Roma, mentre in Italia la peculiarità di questo processo fu che le misure erano le stesse, però vennero fatte in nome della Chiesa cattolica. Anzi, come gli stessi liberali dicevano, furono fatte per rendere la Chiesa cattolica più pura. L’ho detto prima, in Italia i Savoia non dichiararono apertamente l’ostracismo verso il cattolicesimo perché erano vincolati a quella morale secondo la quale erano migliori degli altri in quanto costituzionali.



Può esser posta in linea di coerenza con questo processo politico anticattolico anche la nascita dell’Unione Europea?



R: La nascita dell’Unione Europea viene salutata con entusiasmo da tutta l’intellighenzia e da tutta la popolazione cattolica, perché l’anima dell’Europa è cristiana e su questo non vi è alcun dubbio. Di questo comune sentire filoeuropeo si è però appropriata strumentalmente un’élite, una monocrazia internazionale - per i medesimi motivi che hanno guidato le azioni dei liberali italiani nel Risorgimento - che pensa sia suo dovere agire contro la fede cattolica, finendo anche per negare il fatto incontrovertibile delle radici cristiane dell’Europa.



Si procede oggi ad un’esaltazione di alcuni personaggi chiave del Risorgimento, Cavour è elogiato quale artefice dell’Unità d’Italia. Lei lo ha definito “maestro di doppiezza ed incoerenza”; ci spieghi da cosa deriva questa posizione…



R: Cavour era maestro nel dire una cosa oggi ed il suo contrario domani, facendolo con un’improntitudine rara. Se questo equivale a dire che fosse un uomo di Stato, allora era un perfetto uomo di Stato. E’ indubitabile che senza l’intervento di Cavour l’unità d’Italia sotto i Savoia non sarebbe stata realizzata, perché non erano in grado di realizzare questo progetto né Vittorio Emanuele II, né tantomeno lo erano Garibaldi o Mazzini. C’è voluto il genio assolutamente spregiudicato di Cavour che ha intrigato in modo tale, attraverso le relazioni internazionali che coltivava, da poterlo rendere realizzabile. Durante il Congresso di Parigi nel 1856, al quale partecipò come presidente del consiglio piemontese, fece mettere all’ordine del giorno la conquista da parte dei Savoia degli altri Stati italiani in nome della “morale”. A quale morale faceva riferimento?A quella secondo la quale i governi dell’Italia centro-meridionale (Stato Pontificio e Regno dei Borboni), a suo giudizio e a giudizio del suo amico il plenipotenziario inglese a Parigi Clarendon, fossero la quintessenza dei governi barbarici. I due misero all’attenzione del mondo la questione secondo la quale le popolazioni centromeridionali “gemevano” sotto il malgoverno pontificio e borbonico. Falso, poiché, nonostante soldi ed armi, non riuscirono a far insorgere questi popoli autori di supposti gemiti. Quindi Cavour escogitò e si fece artefice di un’invasione per raggiungere ugualmente il proprio scopo.



Anche sulla figura ritenuta cristallina ed eroica di Garibaldi nutre qualche perplessità?



R: Non qualche! Garibaldi, ossia colui che viene definito libertador, è stato un commerciante di schiavi. Nel 1854 egli stava in Perù e sbarcava il lunario nel seguente modo: era capitano di una nave di nome Carmen, che partiva dal porto di Callao per trasportare guano in Cina, ritornando poi dal porto cinese di Canton con un carico di persone cinesi. Garibaldi nelle sue memorie, sebbene siano dettagliatissime, questo non lo racconta. Lo racconta però l’armatore genovese di questa nave Carmen (tale Pedro Denegri), che si spende anche in una lode nei confronti del libertador perché i cinesi che portava in Perù godevano tutti rigorosamente di buona salute.



Per concludere, quale ritiene sia il giusto comportamento che i cattolici italiani dovrebbero assumere a fronte delle celebrazioni in pompa magna del prossimo 17 marzo?



R: Io penso, in linea con quanto hanno sempre detto i Papi, che l’identità italiana preceda di secoli la costituzione di uno Stato unitario ed abbia come cemento la lingua, la cultura e la religione. Venendo meno la religione cattolica come religione della maggioranza degli italiani, vengono anche meno, a mio modo di vedere, le ragioni profonde di unità, tanto è vero che rischiamo oggi la dissoluzione. Stando così le cose, io ritengo molto opportuna la scelta che la gerarchia vaticana ha fatto di celebrare questa unità italiana, perché se è certamente vero che non è stato un valore la lotta alla nostra identità perpetrata dai risorgimentali, è altrettanto vero che l’unità profonda degli italiani e la storia d’Italia così gloriosa e unica al mondo sono invece valori, dei quali è dovere nostro riappropriarci ed esserne orgogliosi.



Di Federico Cenci, www.agenziastampaitalia.it