martedì 31 gennaio 2012

QUARANT’ANNI FA IL MASSACRO DELLA BLOODY SUNDAY.

(ASI) Sono passati quarant’anni da quella domenica macchiata di sangue dai soldati britannici che spararono a civili inermi durante la manifestazione organizzata dalla Nothern Ireland Civil Rights Association. Quel 30 gennaio del 1972, nelle strade di Derry, persero la vita quattordici persone repubblicane per mano del primo battaglione del reggimento di paracadutisti di sua maestà. Il battaglione della morte, armato di tutto punto, senza nessun motivo, iniziò ad esplodere colpi su colpi, anche alle spalle di persone che stavano cercando di mettersi in salvo dalla follia inglese.

martedì 17 gennaio 2012

La Sicilia si ribella per difendere l'Agricolture locale ed italiana econtro le ingiustizie e alla corruzzione dei politici


(ASI) Stamattina alle ore 6.00 è ripresa la manifestazione del Movimento dei Forconi con gli auto trasportatori, più di cento presidi in tutta l'isola rallentano il percorso delle macchine per rendere più visibile la manifestazione contro una classe politica corrotta e nepotista e una burocrazia super retribuita complice dello sfascio dell’economia.


MYANMAR: VECCHIE STORIE DI VIOLENZA, NUOVI INTERESSI STRATEGICI EDECONOMICI


Non era mai successo che la politica americana si interessasse così intensamente alle condizioni dei numerosi prigionieri politici e delle etnie che sono giornalmente attaccate dai militari del Myanmar. La recente visita di Hillary Clinton (a fine novembre 2011) nella ex-Birmania, secondo il più alto rappresentante della politica estera americana, sarebbe servita per incoraggiare le riforme democratiche e per consolidare i rapporti tra i due Paesi.

Tragedie in mare. Un salto nel passato: dalla Concordia alla Moby Prince


(ASI) Imperativo di chi fa informazione è lo “stare sulla notizia”, termine gergale che indica accurata diligenza e tempestività nel consultare la fonte, verificare i fatti e pubblicare i pezzi. La tragedia della nave da crociera Concordia, avvenuta nel mar Tirreno, ci suggerisce tuttavia un atteggiamento anche di tipo diverso. Oltre a “stare sulla notizia”, come si stanno precipitando a fare tutti gli organi d’informazione in queste ore, è nostra intenzione “sfruttare la notizia”.

sabato 14 gennaio 2012

La notizia del cessate il fuoco tra l’etnia Karen e il Myanmar è falsa.




(ASI) La notizia di un accordo per il cessate il fuoco siglato nella giornata di ieri tra l’Unione Nazionale Karen (KNU) e il Myanmar, riferita dagli stessi birmani e dalle agenzie internazionali non corrisponde al vero.

Infatti, secondo le nostre fonti, il vice presidente della KNU, David Thackarbaw ha dichiarato: “nessun accordo di cessate il fuoco è stato ancora firmato con la delegazione governativa birmana nonostante le numerose notizie che hanno dato i media – e ha continuato – il ministro ferroviario Aung Min non ha il mandato di firmare nulla; in Birmania solo il presidente Thein Sein può siglare un accordo così importante e per noi solo il Comitato Centrale”.

Il giallo del cessate il fuoco tra Karen e giunta birmana.


Mae-sot (confine birmano) «Aung San Suu Kyi ha cambiato la sua strategia. Ora siamo stati costretti a cambiare la nostra». Il mio interlocutore è un pezzo grosso dell’Unione nazionale Karen (Knu), in costante contatto con la delegazione che proprio qualche ora fa avrebbe firmato un accordo di cessate il fuoco con i rappresentanti del governo birmano, in quello che è il primo round di una trattativa di pace che si preannuncia molto complicata. È teso: da qualche ora è iniziata una partita a poker contro una squadra di bari di professione, di quelli che nei saloon del lontano West si sarebbero presi una pallottola sparata dall’eroe buono, dal cavaliere pallido, dal pistolero solitario.

I tassisti dicono no agli squali della finanza.




(ASI)
Il 23 gennaio è stato proclamato dai tassisti italiani un fermo nazionale per protestare contro le liberalizzazioni annunciate dal governo Monti e per lunedì prossimo, invece, è stata programmata una assemblea nazionale al Circo Massimo a Roma per decidere su eventuali altre manifestazioni e scioperi. Quest’ultima, inizialmente, era stata prevista per sabato 14 gennaio. “Se entro il 16 gennaio il governo non ci darà un segnale concreto - avvertono i tassisti - decideremo nel corso dell'assemblea quali altre iniziative adottare”. Agenzia Stampa Italia, ha incontrato Andrea  Cappella, responsabile umbro del sindacato Uritaxi per approfondire la situazione.


mercoledì 11 gennaio 2012

L’Ineffabile Liberalizzatore.




Il triste Monti, “primo ministro” (di re Giorgio Napolitano), lo aveva definito “il disarmo multilaterale di tutte le corporazioni”. Il suo fedele sottosegretario Antonio Catricalà ne ha annunciato i tempi e i modi di esecuzione: il decreto legge sulle liberalizzazioni verrà varato il 20 gennaio prossimo.

Liberalizzeranno - distruggendo cioè quel poco di occupazione rimasta in Italia - le sopravvissute categorie del lavoro nazionale.

Incursione dell’artiglieria israeliana al centro di Gaza.


Gaza – InfoPal. Questa mattina all’alba, la Striscia di Gaza è stata oggetto di un nuovo attacco dell’artiglieria israeliana.



Bulldozer e carri armati sono penetrati nel centro della Striscia di Gaza assediata in direzione di Deir al-Balah. Non si riportano feriti.



Dai carri armati, i soldati israeliani hanno aperto il fuoco, mentre aerei da ricognizione sorvolavano Gaza.



Ieri, diverse aree della Striscia di Gaza sono state invase dai militari israeliani: nel nord, a Beit Hanoun, sono stati respinti dalla resistenza palestinese, stando alle rivendicazioni di quest’ultima.



http://www.infopal.it/incursione-dellartiglieria-israeliana-al-centro-di-gaza-2/


Iran: attentato contro docente del sito nucleare iraniano di Natanz.


(ASI) Teheran - Un attentato ha tolto la vita a Mustafa Ahmadi Roshan, vice-responsabile della sezione commerciale del sito nucleare iraniano di Natanz.  Le autorità iraniane pensano che dietro l'omicidio ci possano essere gli Stati Uniti, Israele e la Gran Bretagna e che questi potrebbero essere gli ispiratri e/o gli autori dei sistematici omicidi che da tempo vengono fatti contro tecnici atomici iraniani.



La dinamica dell’attentato di mercoledì mattina, infatti, è simile a quella degli attentati dei mesi scorsi contro studiosi iraniani; da questi è uscito vivo finora solo il professor Fereidoun Abbasi, attuale direttore dell’agenzia nucleare iraniana. Infine, fonti diplomatiche statunitensi ed israeliane temono una ritorsione contro i loro Stati e i loro scienziati atomici



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6469%3Airan-attentato-contro-docente-del-sito-nucleare-iraniano-di-natanz&catid=3%3Apolitica-estera&Itemid=35


giovedì 5 gennaio 2012

Effetti della crisi economica. Cinque suicidi in pochi giorni.


(ASI) Un imprenditore quarantanovenne di Trani, Antonio Losciale, schiacciato dall’usura e dalla crisi attuale, si è tolto la vita impiccandosi. In pochi giorni è il quinto imprenditore ad essersi tolto la vita perché sommerso dai debiti.



Solo due giorni fa, ossessionato dalla paura di non poter far fronte alle difficoltà economiche, anche un agricoltore di cinquantaquattro anni, si è impiccato in un magazzino vicino alla sua abitazione a Montefiore dell’Aso, vicino a Fermo, nelle Marche. I suoi parenti hanno raccontato: “temeva di non farcela, di non superare le difficoltà del 2012”. E ancora, un elettricista di sessantaquattro anni di Robecco sul Naviglio, si è sparato un colpo alla tempia davanti all’ingresso della sua ditta individuale “Chiodini”. Roberto De Tullio, pensionato di settantaquattro anni barese, si è gettato dal quarto piano del palazzo dove abitava dopo che l’Inps gli aveva chiesto indietro cinquemila euro. Anche a Catania, Roberto Manganaro, che gestiva insieme al fratello un concessionario di moto, si è tolto la vita prendendo un’intera scatola di antidepressivi. Secondo alcuni conoscenti, l’uomo temeva di dover licenziare dei dipendenti a causa della crisi.



A Pesaro, un imprenditore edile di quarantadue anni, ha tentato ieri di suicidarsi perché la sua impresa non aveva più commesse. L’uomo aveva collegato il tubo di scappamento all’abitacolo del suo furgone ed è stato salvato dai carabinieri grazie alla segnalazione di un cittadino. I quotidiani locali raccontano che il furgone è stato notato da un automobilista di passaggio che ha chiamato i soccorsi.



Un preoccupante rapporto relativo al 2009 dell’EURES, istituto di ricerche economiche e sociali, scrive che in Italia, tra i disoccupati, si verifica un suicidio al giorno. Nel 2009 si sono tolte la vita 2.986 persone, con un aumento del 5,6% rispetto al 2008; tra queste vittime, ci sono stati 357 suicidi compiuti da persone disoccupate. Anche i suicidi per ragioni economiche hanno raggiunto il valore più alto degli ultimi anni: 198 casi sempre nel 2009.



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6358:effetti-della-crisi-economica-cinque-suicidi-in-pochi-giorni&catid=13:economia&Itemid=37


Sono entrato nel covo del raìs Vi racconto le sue ultime ore.


Lo chiamano Quartiere Due. È un deserto di macerie accatastate, ruderi sventrati, tetti sfondati, facciate affrescate a colpi di katyusha e mortaio. L’imbianchino arrampicato sulla scala ti squadra, tira un colpo di malta e cazzuola, lancia un urlo.



La necropoli riprende vita. Un ragazzo in divisa sguscia da una voragine. Un altro salta giù da un mezzanino sfondato.



Un terzo sbuca dagli infissi anneriti d’un davanzale. Sono tre, quattro, dieci. Ti circondano silenziosi. Ti bloccano il passo. La nostra guida alza il braccio. «Khalas, khalas – basta, basta - saafi … mafi mouskila. Sono giornalisti italiani, amici nessun problema». Sui volti corrucciati si disegna mezzo sorriso. La prima lingua si scioglie. «Se venite per scrivere la verità, siete i benvenuti. Tutti parlano di Misurata, Bengasi, Brega, ma nessuno racconta come la Nato e i vostri amici rivoluzionari hanno distrutto Sirte e ucciso i nostri amici». Li ascolti in silenzio. Loro ti trascinano tra appartamenti calcinati, stanze affumicate, mura abbattute.



Per ogni angolo c’è la storia di una famiglia distrutta, di un amico morto, di un bimbo ferito. Tu ascolti, poi la butti lì. «Muhammar, era qui?» La fila si blocca. Saleh, il ragazzo in divisa ti squadra come se avessi nominato Allah. Hussein, lo spilungone sceso dalla scala alza la cazzuola al cielo, immobile e pensieroso. Mabruk ti scruta sorridente. «Non sapevamo che era qui, ti prego non mettermi nei guai, quelli di Misurata mi hanno già sbattuto in galera e torturato. Noi difendevamo solo le nostre case». Ci riprovi. «Ma Muhammar era con voi o no?». Dal barbone cespuglioso spunta un altro sorrisino. Mabruk ci pensa, ti fa segno di seguirlo. C’inoltriamo in quella casbah terremotata, attraversiamo lo scudo martoriato delle prime case, c’affacciamo su un intrico di viuzze ed edifici ancora in piedi. Mabruk risale verso una slargo. «Era mercoledì mattina, il giorno prima che l’uccidessero - racconta - avevamo mandato via mogli e bambini combattevamo da più di una settimana. Quel pomeriggio durante una pausa dei combattimenti ci chiamano tutti fuori. Io e i miei uomini saliamo verso questo slargo e, lì, in fondo, riconosco Moutassim, il figlio del leader. “Fratelli ci dice – domani dobbiamo andarcene, abbandonare il quartiere e la città… qui ormai è finita, la Nato sa dove siamo, mio padre vuole andare a Wali Jarre, attendere il proprio destino nel villaggio dov’è nato. Chi vuole può unirsi a noi”. Sulle prime non capiamo, ascoltiamo perplessi, confusi. Abbiamo tanti feriti, molti non riescono a camminare, queste sono le nostre case come si fa a mollare tutto? Moutassim ci guarda, ci fa un’altra offerta. “Porteremo via i feriti che possono camminare, ma gli altri dobbiamo abbandonarli”. Noi scuotiamo la testa. No, non si può, sono i nostri fratelli, non li lasciamo indietro. Allora Moutassim ci mostra quella villa…. Laggiù, in fondo alla strada la vedi?».



Dalla piazzetta si distingue appena. Sono due piani eleganti, un tetto di tegole rosse dietro un muro di cinta chiuso da una cancellata. Mabruk salta la recinzione, entra nel cortile. Nel muro sul retro del giardino si apre una feritoia aperta a picconate. Uno spazio sufficiente a lasciar passare un uomo. «Tutte le case del quartiere erano collegate da questi passaggi. Se bombardavano passavamo da un’abitazione all’altra senza mettere il naso fuori. Anche il rais ha cambiato parecchi nascondigli, ma questo è stato l’ultimo. Quella sera ci siamo arrivati dalla piazza, seguendo Moutassim, attraversando muro dopo muro, giardino dopo giardino, mezzo quartiere. Quando mi sono affacciato non credevo ai miei occhi. Muhammar era in mezzo al giardino con un kalashnikov a tracolla, la sua pistola d’oro in una mano ed un bloc notes nell’altra. Prendeva appunti e dava ordini sottovoce alle sue guardie. Ha alzato gli occhi, ci ha salutato. Domani andiamo via - ha ripetuto - se volete seguirci siete i benvenuti. Noi gli abbiamo ripetuto le nostre ragioni. - Rais dobbiamo difendere le nostre case. - Lui ci ha fatto solo un cenno con gli occhi come per dirci vi capisco, poi è sceso nello stanzone, quello lì sotto, vedete, dove adesso hanno ammucchiato sacchi di grano e cibo per tutto il quartiere. Fino a mercoledì 19 ottobre lui ha vissuto là».



Mabruk torna fuori, risale verso la piazzetta del quartiere. «La mattina dopo abbiamo seguito Moutassim, Muhammar e le sue guardie fino a qui. I 21 fuoristrada erano già pronti, nella notte li avevano coperti con dei rami di alberi per mimetizzarli».



Un altro uomo con la divisa del vecchio esercito s’avvicina. Non vuole darci il suo nome. «Il rais ha preso il bloc notes, ha numerato con della vernice tutte le vetture dall’1 al 21, ma nessuno ha capito perché… Subito dopo hanno tentato la prima sortita verso est. Dopo pochi minuti sono tornati, il fuoco era troppo pesante. Allora li abbiamo scortati all’uscita opposta del quartiere». Mabruk si porta una mano al cuore. «Quando l’ho visto partire per Wadi Jarre, per il villaggio dov’era nato, ho capito tutto… cercava un posto dove morire. Non poteva vivere fuori dal suo paese. Per questo era il nostro leader. Per questo non lo dimenticherò. Ma voi non scordatevi di me. Quando scriverete questa storia torneranno a prenderci, ci tortureranno di nuovo. Se fra qualche giorno vedete il mio numero di telefono sul vostro cellulare vi prego venite a cercarci, altrimenti uccideranno anche noi».



Di Gian Micalessin,

http://www.ilgiornale.it/esteri/sono_entrato_covo_rais_e_vi_racconto_sue_ultime_ore/05-01-2012/articolo-id=565399-page=0-comments=1


Equitalia mette paura agli italiani.


(ASI) Il nove dicembre scorso, un pacco bomba è esploso e ha colpito il direttore della filiale romana di Equitalia Marco Cuccagna, procurandogli una ferita alla mano. Gli organi competenti, avevano lanciato subito lo status di massima allerta e avevano già ipotizzato che non si sarebbe trattato di un caso singolo.



Nella notte dell’ultimo dell’anno, un ordigno artigianale è stato fatto esplodere nella sede di Equitalia a Foggia. Nessuna rivendicazione è stata trovata e, secondo le ricostruzioni, la bomba rudimentale è stata costruita con alcuni grossi petardi legati insieme. Un attentato incendiario, ha colpito anche la sede modenese di Equitalia, che si trova al primo piano di una galleria commerciale. I danni sono stati minimi, ma l’azione è risultata dolosa. Due giorni fa una busta contenente un proiettile, indirizzata al direttore dell’agenzia di Equitalia a Torino, è stata intercettata dal personale delle poste italiane presso il centro di smistamento del capoluogo piemontese.



Questa mattina una telefonata anonima, ha avvertito la sede perugina di Equitalia, della presenza di una bomba all’interno dei propri uffici. L’allarme scattato è poi rientrato in tarda mattinata quando, gli artificieri dei carabinieri, dopo quasi tre ore di controlli serrati, hanno dichiarato che si trattava di un falso allarme. La bomba, dunque, non esisteva, ma Equitalia esiste davvero e i cittadini italiani se ne sono accorti da tempo.



Equitalia, infatti, ogni giorno si abbatte come un fulmine a ciel sereno sui lavoratori e sui pensionati italiani, su quella parte di popolo che vuole pagare quello che gli spetta ma non vuole assolutamente subire soprusi. Equitalia – lo scrivo per i pochi fortunati che ancora non sono stati costretti a pagare con tassi altissimi e non si sono informati – è un gruppo composto dalla holding Equitalia S.p.a. che controlla Equitalia Giustizia, Equitalia Servizi e tre Agenti della riscossione presenti sul territorio nazionale – tranne in Sicilia -. Dunque, dietro la facciata della riscossione dei debiti pubblici, c’è una società per azioni.



Una delle cose più sconcertanti di Equitalia è la straordinaria lentezza che fa incrementare sistematicamente gli interessi delle cartelle esattoriali. Molti cittadini si sono visti pignorare immobili per delle cifre irrisorie e, grazie alla tardiva notifica, non hanno neanche avuto la possibilità di difendersi legalmente. A molti altri cittadini invece, sono state inviate cartelle dubbie, se non addirittura con la richiesta di pagamenti non dovuti o già effettuati. E molte volte, per paura di vedere i sacrifici di una vita andare in fumo o semplicemente per non essere in grado di gestire un ricorso, queste cartelle vengono pagate.



L’informazione di massa dovrebbe parlare non solo delle bombe – vere o presunte – che sicuramente sono un allarme preoccupante, ma anche e soprattutto di tutte quelle vittime che, ogni giorno, in forza ai poteri oppressivi che hanno conferito ad Equitalia S.p.a., vengono lasciate in condizioni economiche disastrose.



Di Fabio Polese,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6376:equitalia-mette-paura-agli-italiani&catid=13:economia&Itemid=37


Ungheria. La nuova Costituzione: una svolta autoritaria invisa all'alta finanza


(ASI) In Ungheria, cuore della Mitteleuropa, sta avvenendo qualcosa di atipico, che l’opinione pubblica occidentale ha finito per considerare estraneo e finanche pericoloso, a seguito di un addomesticamento culturale passato negli anni attraverso fitte campagne mediatiche atte a promuovere quello liberista come l’unico, valido modello di sviluppo.



Succede che il tricolore magiaro sormontato dalla corona di Santo Stefano è tornato a sventolare nel cielo plumbeo di Budapest, per affermare una sovranità nazionale che favorisce il popolo e terrorizza i banchieri.



Il primo gennaio è entrata in vigore la nuova Costituzione ungherese, voluta dal governo di Viktor Orbán ed approvata nell’aprile scorso dal Parlamento (dove il partito di governo Fidesz gode di due terzi della maggioranza). La nuova Carta, redatta con accenti che rievocano antichi lustri d’identità nazionale, è contraddistinta da una serie di provvedimenti che mirano a ricostruire un potere sovrano. Al suo interno spiccano tuttavia misure controverse, che hanno generato malumori giacché limitative di alcune, definite da molti “derive etiche” e da altri “libertà individuali”. In nome della tradizione cristiana, cemento dell’unità e motore dello sviluppo storico dell’Ungheria, l’esplicita frase iniziale “Dio benedica gli ungheresi” indica l’assetto culturale su cui si basa tutto l’impianto della nuova Costituzione. L’embrione, anzitutto. La nuova Carta lo considera un essere umano fin dal suo concepimento, così sgomberando il campo della discussione sulla liceità dell’aborto da equivoci derivanti dal mese di gravidanza. Il matrimonio, poi. E’ autorizzato espressamente solo quello tra un uomo e una donna. Inoltre, le comunità religiose che potranno beneficiare di sovvenzioni pubbliche vengono portate da 300 a 14, un taglio che va a discapito solo di ristrettissime minoranze e che consente cospicui risparmi per le casse dello Stato, dunque per la comunità tutta. Sempre a vantaggio del popolo ungherese, spunta una norma che fissa per tutti l’aliquota fiscale al 16% (attualmente l’Ungheria, con il suo 27% di valore normale dell’aliquota, è il Paese dell’Unione europea con la percentuale di imposta più alta). Le misure in ambito economico sono proprio quelle che maggiormente preoccupano l’estero, rappresentato soprattutto in questa campagna anti-ungherese dalle lobby della finanza, colpite nei loro interessi particolari dalla svolta costituzionale di Viktor Orbán. Con la nuova Carta, infatti, la Banca centrale ungherese dipende direttamente dal governo: il Primo ministro sceglie i suoi assistenti, inoltre sei dei nove membri del consiglio monetario della Banca centrale sono nominati dal Parlamento. Questo cambio di registro non fa che complicare i già tormentati rapporti tra la Banca centrale ungherese e agenti esterni della finanza, ovvero Fondo Monetario Internazionale e istituzioni finanziarie europee. Nel settembre scorso il sistema bancario internazionale è entrato ufficialmente in rotta di collisione con l’Ungheria. Durante quel mese, per arginare la crisi derivante dal debito pubblico più alto in un Paese dell’Est, il governo Orbán ha favorito i suoi cittadini che avevano contratto un debito con le banche in valuta straniera svalutando forzosamente la moneta nazionale. Lo strappo ha generato una svalutazione del fiorino ungherese di circa il 23%, di oltre il 12% se in euro. Ciò significa che occorrono meno fiorini per ripagare il debito, di fatto la svalutazione si trasforma in uno sconto. Come se non bastasse questa rivoluzionaria riforma finanziaria, si è imposto per legge che la differenza tra il valore nominale del cambio monetario e quello reale venga imputato agli istituti di credito che sono detentori dei debiti.



Quella manovra approvata a Budapest a settembre ha creato intorno all’Ungheria uno stuolo di nemici acerrimi facenti capo all’alta finanza, molto temibili per via del loro indiscutibile potere economico e pronti a sferrare un agguato non appena si fosse presentata occasione propizia. Solo oggi, un’ondata di costernazione popolare contro la nuova Costituzione - fisiologica in ogni Paese democratico, specialmente in tempi di crisi - è diventato lo strumento che questi nemici stanno brandendo all’indirizzo dell’Ungheria. La stampa occidentale finanziata dal grande capitale trasforma così la pur partecipata manifestazione di dissenso in riva al Danubio dello scorso 2 gennaio in “oceaniche sfilate di massa”, tacendo invece su un consenso equivalente al 52,7% dei voti che hanno consentito ad Orbán e al suo governo, nell’aprile 2010, di insediarsi. Ma non solo. La stampa occidentale, pur di diffamare il presidente magiaro e il suo governo, rispolvera anche l’evidentemente mai sopito (dalle coscienze di certi intellettuali) nostalgismo vetero-marxista. Ecco che una colpa di Orbán diventa quella di aver nominato personalità nuove in settori dirigenziali della cultura, sinora monopolio assoluto di ristrette cerchie legate al cupo passato comunista del Paese. Un’altra colpa? Quella di voler rimuovere la statua, piazzata proprio davanti al Parlamento, del poeta di origini rumene Attila Jozef, celebre cantore dell’ideologia marxista. La quale ideologia marxista - è bene ricordarlo agli smemorati - ha causato all’Ungheria, durante la sola insurrezione ungherese del 1956, l’orrore di 2.652 morti e 250.000 feriti (il 3% di tutta la popolazione).



Intanto, la guerra contro l’Ungheria è iniziata anche su altri fronti, oltre a quello giornalistico. Le speculazioni finanziarie che hanno colpito il mercato ungherese sortiscono effetti devastanti. Standard & Poor’s, a seguito delle recenti dinamiche borsistiche che hanno sfavorito Budapest, ha definito il rating (l’affidabilità economica) dell’Ungheria uno “junk”, ossia spazzatura. In campo politico, invece, è l’Unione europea che fa la sua parte, avendo minacciato il Paese magiaro di sospendere gli aiuti economici dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione. Dal canto suo, il governo di Orbán non sembra intimorito e invita la Commissione europea al dialogo. “Abbiamo inviato il testo (della nuova Costituzione, NdR) a Bruxelles. Se la Commissione troverà punti di cui discutere, noi siamo pronti alle consultazioni, siamo aperti” ha riferito Peter Szijjarto, portavoce del premier.



Questo scenario di ostracismo anti-ungherese rende legittimo un quesito: più corretto definire dittatura la svolta nazionale, autoritaria e sociale di Viktor Orbán o le bieche operazioni della finanza internazionale che mirano a soffocarne le aspirazioni sovrane?



Di Federico Cenci,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6374%3Aungheria-la-nuova-costituzione-una-svolta-autoritaria-invisa-allalta-finanza-&catid=3%3Apolitica-estera&Itemid=35


lunedì 2 gennaio 2012

L'anno che non verrà.


Da sempre Capodanno rappresenta Il simbolico spartiacque fra un anno che sta morendo, con tutto il suo carico di accadimenti (buoni e cattivi) ed uno che sta nascendo, vestito per l’occasione di carezzevoli illusioni e condito di languide speranze. Una sorta di limbo dove rimanere per un istante sospesi fra il prima e il poi, a tracciare bilanci di vita e sognare vite che non ci apparteranno mai, prima che la giostra del divenire stemperi l’attimo ed il futuro si faccia presente, riportandoci alla realtà.

Guardare al 2012 che arriva, ostentando speranza ed ottimismo rappresenta però, più che in altre occasioni, un’esperienza dedicata a pochi intimi, dal momento che la ratio e la matematica ci riporterebbero immediatamente sulla terra, rendendoci consapevoli del fatto che il nuovo anno sarà molto peggiore del precedente, essendo state poste tutte le basi (ma proprio tutte) perché ci si ritrovi a rimpiangere gli ultimi dodici mesi, nonostante abbiano rappresentato il gradino più basso della storia recente nazionale ed internazionale.

In Italia nel lasso di tempo di un paio di settimane è stata alienata ogni residua e fittizia
illusione di democrazia e le banche, nella persona dell’usuraio Monti, hanno di fatto esautorato i camerieri politici dal loro ruolo di mestieranti della commedia, ridimensionandoli ad arredamento del palazzo, oltretutto molto costoso e kitsch.




Il problema in sé potrebbe apparire di secondaria importanza, dal momento che il bestiario politico da tempo immemorabile prendeva ordini dal padrone, ma purtroppo così non è, perché dovendo il servo politico confrontarsi ogni 5 anni con il teatrino elettorale, si trovava giocoforza costretto a svolgere una minima opera di mediazione. E’ pur vero che il sistema monopartitico creato in occidente scimmiottando il modello americano garantiva ampi margini di sicurezza, privando il cittadino di qualsiasi possibilità di scegliere realmente, così come è vero che la classe politica aveva ormai assunto un carattere puramente autoreferenziale. 


Ma è altrettanto lapalissiano il fatto che qualsiasi governo politico avesse inteso mandare i cittadini a vivere sotto i ponti, togliendo loro il proprio patrimonio e la possibilità di sostentarsi economicamente, avrebbe trovato comunque qualche difficoltà nel perpetrarsi nel tempo.

Monti e la congrega di banchieri da lui rappresentati non sono espressione delle urne e con le urne non dovranno confrontarsi mai. Incarnano esclusivamente i grandi interessi finanziari, sono servi alle dipendenze del denaro e il denaro non è dotato di sensibilità sociale, non è incline alle mediazioni, non deve moderarsi temendo di perdere voti, non possiede sentimenti e neppure pietà. Persegue un solo scopo, moltiplicarsi all’infinito nella maniera più rapida possibile, poco importa quali siano i costi in termini di macelleria sociale, dal momento che conosce un solo costo, quello monetario.

La dittatura del denaro è in assoluto la peggior forma di governo possibile, nel 2011 ne abbiamo avuto un primo assaggio con la soppressione delle pensioni per tutte le nuove generazioni (e buona parte delle vecchie), l’aumento indiscriminato di tasse e costi a carico di una popolazione già fortemente impoverita, la riduzione delle opportunità di lavoro. Ma solo nel 2012 saremo in grado di apprezzare la reale dimensione del disastro che sta precipitando sulle nostre teste e il contatto con la realtà risulterà con tutta probabilità drammatico.



Il 2011 è stato anche l’anno in cui si è dovuto prendere coscienza della disarmante vulnerabilità dei cittadini qualora intendano difendere il territorio in cui vivono da grandi e piccole opere di devastazione ambientale. L’illusione (da me più volte condivisa) che una popolazione fortemente determinata e con la forza dei numeri
potesse opporsi alle ruspe ed ai cantieri si è palesata di fatto priva di fondamento. Non esistono più remore nel bastonare cittadini inermi e quando monta la protesta le forze dell’ordine sono disposte ad uccidere, senza che la stampa e l’opinione pubblica considerino la cosa disdicevole.

In una situazione di questo genere ogni forma di resistenza fisica, più o meno pacifica, non può che risultare perdente, dal momento che si tratta di un confronto impari, dove chi mena ti può anche ammazzare restando dalla parte della ragione.

Non è un caso che tutte le opere più controverse siano state costruite o cantierizzate con l’uso della violenza, dalla base militare americana Dal Molin al TAV in Val di Susa, passando attraverso inceneritori, autostrade, centrali a carbone, turbogas e chi più ne ha ne metta.

Ai cittadini non resta altra via che protestare con le bandierine attraverso cortei pacifici (che magari contribuiscono a creare la carriera di qualche politico o sindacalista d’accatto) nell’attesa che l’opera sia completata, o confrontarsi militarmente
con "soldati"
che arrivano dall’Afghanistan, con la consapevolezza che quando ti ritroverai in ospedale verrai tacciato come una “bestia violenta” che ha ricevuto ciò che si meritava.


 


Ma il 2011 è stato anche l’anno dello sdoganamento definitivo delle guerre di conquista coloniale attraverso il metodo della rivoluzione colorata, costruita, finanziata e pilotata dal colonizzatore.

La
Libia ha dimostrato chiaramente come la pratica garantisca ampie prospettive di successo a fronte di costi economici tutto sommato esigui. In pochi mesi un prospero paese è stato distrutto, chi lo governava da decine di anni ammazzato come un cane, i civili che lo sostenevano sterminati in massa. Il tutto senza che nessuno avesse nulla da obiettare e con la compiacenza di tutte le istituzioni internazionali, ormai palesemente braccio burocratico della colonizzazione occidentale.

Dopo l’inferno libico la strada è tracciata e c’è da scommettere che i prossimi inferni saranno ancora peggiori e, se possibile, perfino più raccapriccianti.


 


E’ stato anche l’anno dei droni, usati in maniera sempre più massiccia per sterminare le popolazioni, mentre all’altro capo del mondo un ragazzotto si cimenta con il joystik come si trattasse di un videogame. Delle telecamere ormai più numerose delle vetrine che filmano ogni attimo della tua vita. Della guerra al contante, con l'imposizione agli anziani pensionati di aprire un conto corrente. Dei movimenti che s’indignano a comando. Dei benpensanti che difendono la costituzione quando hanno interessi per farlo, ma ne dimenticano l’esistenza subito dopo. Della farsa dei referendum, studiati ad arte per raggirare chi votava. Del disastro di Fukushima, troppo presto caduto nell'oblio. Dell'assassinio dell'ologramma di Bin Ladin. Dei troppi “movimenti” che avevano fatto delle piazze le loro case quando governava Berlusconi, ma sono evaporati con l’arrivo di Monti. Dei sindacati che dopo avere svenduto tutto non sanno più cosa mettere in saldo e dei saldi ormai anticipati a Capodanno, perché iniziarli a Natale potrebbe risultare disdicevole.


 


In alto i calici e brindiamo, a cosa? Ad una morte inconsapevole con il sorriso sulle labbra, che in fondo è meglio di quando te l’aspetti.



Di Marco Cedolin, http://ilcorrosivo.blogspot.com/2011/12/lanno-che-non-verra.html


L'Ungheria manda a quel paese la Bce e si dà una nuova Costituzione.


Ultimo Paese ad abbandonare la carta comunista, da oggi l’Ungheria vanta una nuova Costituzione. Due i punti critici: i poteri sugli ungheresi che vivono all’estero, e il ridimensionamento della Corte Suprema, che non avrà competenze su bilancio e tasse. La crisi qui ha colpito duro e il governo ha limitato i margini di manovra della Banca centrale europea, attirandosi ulteriori critiche dall’Ue. La risposta del primo ministro Orban è stata perentoria: «Non c’è nessuno al mondo che possa dire ai deputati eletti dal popolo ungherese quali leggi possono o non possono votare».



Oggi entra in vigore la nuova Costituzione ungherese. Budapest, unica capitale dell’ex oltre cortina a non averlo ancora fatto, sostituisce così la vecchia carta comunista, comunque emendata ripetutamente dall’89. Fin qui nessun problema. Il passo era dovuto. Qualche legittima preoccupazione emerge, invece, se si va a guardare il contenuto della Costituzione, voluta ossessivamente dal primo ministro conservatore Viktor Orban, il cui partito (Fidesz), grazie alla scorpacciata elettorale dell’aprile 2010, vanta 206 seggi in Parlamento, a fronte dei 265 totali.



C’è chi l’ha definita una Costituzione ultra-conservatrice, chi parla di impostazione clerico-fascista, chi sostiene che è persino più illiberale di quella vergata nel 1949 dai comunisti. Queste letture, forse, sono esagerate e viziate da eccessi ideologici o scarsa conoscenza del contesto ungherese. Resta il fatto che la Costituzione, criticata da Ue e Commissione di Venezia, presenta passaggi delicati. Al di là dei richiami insistenti ai valori cattolici e dell’ungheresità (mitigati da riferimenti alle altre fedi e agli altri gruppi etnici nazionali, anche se in modo non del tutto sufficiente), i punti che più fanno discutere riguardano gli ungheresi all’estero e i poteri della Corte suprema.



Sul primo, si afferma che “l’Ungheria è responsabile del destino degli ungheresi che vivono oltre i suoi confini”. Tale disposizione si ricollega allo smembramento della “Grande Ungheria”, avvenuto con il Trattato di Trianon (1920) al termine della Prima guerra mondiale. Il paese perse il 72% del proprio territorio e il 64% della sua popolazione. Milioni di magiari si ritrovarono a vivere in regioni assegnate alla Romania, alla Jugoslavia e alla Cecoslovacchia. Trianon è considerata a tutt’oggi un’onta nazionale e suscita, in alcuni segmenti della società politica e civile, sentimenti impregnati di nostalgia.



Il problema, adesso, è che, come rimarcato dalla Commissione di Venezia, il riferimento alla sorte degli ungheresi all’estero rischia di essere percepito come un’ingerenza e di generare incomprensioni con Serbia e soprattutto Slovacchia e Romania, dove risiedono rispettivamente 520mila e 1,5 milioni di magiari e affiorano periodicamente tensioni legate allo status della minoranza magiara e alle istanze da essa sollevate in campo culturale e linguistico (non tutti i diritti, c’è da dire, le sono riconosciuti).



Quanto alla Corte suprema, la nuova magna charta ne riduce l’autonomia, privandola, in sostanza, della competenza sulle leggi che riguardano bilancio e tasse. Insieme a questo c’è da tenere conto che le nuove regole ne aumentano il numero dei membri e danno quindi modo alla Fidesz di controllarla, tramite nomine politiche.



Tutto questo rientra nell’approccio complessivo dell’esecutivo: cannibalizzazione delle cariche pubbliche, rilancio deciso dell’ungheresità, populismo e unilateralismo decisionale. Di quest’ultimo la gestazione e l’approvazione della Costituzione, avvenuta in tempi rapidissimi, senza consultare l’opposizione socialista e senza approfondite discussioni pubbliche, ne sono una prova. La foga dei governanti, che secondo diversi analisti hanno abusato dell’ampio consenso ottenuto nel 2010, sentendosi legittimati a fare e disfare a proprio piacimento, s’è manifestata anche sulla nuova legge su sistema dei media, in alcune parti discutibile (supervisione governativa e multe), approvata all’inizio della presidenza semestrale ungherese dell’Ue, nel gennaio scorso.



Anche i provvedimenti economici hanno alimentato perplessità. L’Ungheria è stato uno dei paesi Ue più colpiti dalla crisi. Lo stato di salute dell’economia, specie a causa del debito pubblico lasciato in eredità dal “socialismo del goulash” promosso da Janos Kadar negli anni ’70 e ’80 (consenso al regime in cambio di benefici economici individuali), è pessimo. Nel 2008 Budapest ha ricevuto un prestito ingente dal Fondo monetario internazionale, ma i negoziati sul rinnovo, una volta che Orban è salito al potere, sono saltati. Il primo ministro ha rifiutato i sacrifici imposti dall’Fmi e puntato su scelte poco ortodosse, rispetto ai criteri che ispirano le istituzioni finanziarie.



Le misure più controverse sono state la ristatalizzazione dei fondi pensione e le maxitasse imposte ai grandi gruppi stranieri attivi in settori chiave quali distribuzione alimentare, telecomunicazioni e credito (questi gruppi hanno presentato ricorso in sede comunitaria). Infine, il governo ha limitato i margini di manovra della Banca centrale europea, attirandosi ulteriori e copiose critiche dall’Ue, che chiede a Orban di ripensarci. La risposta è stata perentoria: «Non c’è nessuno al mondo che possa dire ai deputati eletti dal popolo ungherese quali leggi possono o non possono votare», ha tagliato corto il primo ministro.



Come andrà a finire? La politica economica della Fidesz non ha dato i frutti sperati e il governo ha cercato, discretamente, di riattivare i negoziati con l’Fmi. Ma quest’ultimo pretende l’adeguamento ai suoi parametri, cosa che farebbe cadere la linea seguita da Orban, sempre più nervoso e senza più consenso popolare. A Budapest, intanto, la gente scende in piazza e protesta vivacemente. Affermare che Orban voglia fare il Putin e che cerchi di instaurare una “democratura” è troppo, forse. Di certo è che è il suo progetto, già fallito, costerà molto al paese.



Di Matteo Taccioni, http://www.linkiesta.it/l-ungheria-manda-quel-paese-la-bce-e-si-da-una-nuova-costituzione


Reportage. Con l’etnia Karen che da oltre 60 anni è in lotta contro il regime birmano – Seconda Parte



(ASI) SECONDA PARTE – Ci svegliamo presto, questa mattina, raggiungeremo un posto localizzato dai Karen per fare una nuova piantagione di riso. Ci mettiamo in marcia verso le sei del mattino, con noi, ci saranno circa quaranta uomini della KNLA che ci scortano lungo il percorso. Ogni trenta minuti facciamo una piccola sosta, fa caldo e, dentro la giungla, in alcune zone, l’aria riesce a filtrare pochissimo. Il periodo delle piogge è finito da circa un mese, il clima di giorno è caldo, mentre di notte, la temperatura scende.



 Le nuove piantagioni e la difesa di quelle già esistenti, sono la base per il ripopolamento di queste zone di guerra. In sessant’anni, attraverso il terrore, gli stupri sistematici e la schiavitù, i militari birmani hanno cercato di destabilizzare la cultura e le tradizioni del popolo Karen e vorrebbero dirigere più gente possibile nei campi profughi che si trovano nel vicino confine thailandese. Diverse organizzazioni che si definiscono “umanitarie”, soprattutto statunitensi e nord europee, vorrebbero risolvere il problema dei Karen inviando i profughi in altri paesi con permessi di immigrazione garantiti e biglietti di sola andata. La Comunità Solidarista Popoli, in accordo con il Karen National Union (KNU), al contrario, sostiene che i Karen devono rimanere nei loro territori e lottare per vivere nella loro terra da uomini liberi. Proprio per questo, con tutte le difficoltà che ne derivano, l’attività della onlus italiana si svolge quasi esclusivamente all’interno delle zone controllate dai Karen.



Dopo un paio d’ore di marcia, siamo arrivati al punto stabilito. Prima di iniziare il disboscamento per fare la nuova piantagione, sistemiamo le nostre amache e i volontari Karen costruiscono un tavolino e delle panche usando il numeroso bambù che la giungla offre. E’ uno spettacolo vederli al lavoro, sono velocissimi e, in pochi minuti, tutto è pronto. Davanti a noi le piante e gli alberi sono fitti, va tutto tagliato e ripulito in modo che possa essere piantato il riso che servirà per sfamare diversi villaggi del distretto di Dooplaya. Anche noi siamo pronti a dare il nostro contributo e armati di guanti, maceti, roncole e seghe, iniziamo il disboscamento.



E’ sera e, mentre stiamo parlando con il Colonnello Nerdah Mya, un soldato delle Special Black Forces della KNLA, si incammina verso la fitta vegetazione per andare a caccia di serpenti. Saranno circa le dieci di sera, sono sull’amaca che sta dondolando e, nonostante la stanchezza dovuta al lavoro di oggi, non riesco a dormire. Ascolto i suoni della giungla e penso a quanto è assordante il rumore della società moderna. Da qui riesco ad assaporare gli atavici e sani sapori della vita. Lontano dalla ricerca dell’inutile e dall’indottrinamento mediatico. A notte inoltrata il soldato è tornato, la caccia, come sempre, è andata a buon fine. Con se ha un grande pitone dai colori bellissimi, catturato con tenacia e a mani nude.



Passiamo qui due giorni e due notti, davanti a noi, il panorama è cambiato visibilmente, sembra irriconoscibile. Gli uomini della KNLA dovrebbero riuscire a finire il lavoro in circa due settimane. La mattina seguente, zaino in spalla, ci rimettiamo in marcia per raggiungere il villaggio di Pawbulahta non lontano da una base militare birmana.



Di Fabio Polese, www.agenziastampaitalia.it



La prima parte del reportage è visibile qui: http://www.fabiopolese.it/?p=748